“L’autonomia della legge e l’efficienza della magistratura”
Il dibattito in corso nelle aule parlamentari di questi giorni, avente ad oggetto la “riforma della giustizia” nel nostro Paese, deve indurci a qualche comune riflessione, non certo per riuscire ad influenzarne le scelte definitive, ma semplicemente per tentare di comprendere le ragioni delle parti in causa (Governo del Paese da un lato, interessato alla riforma e, Associazione nazionale magistrati dall’altra, interessata a conservare lo status quo).
Il mio intervento sul delicatissimo tema, non è, né può avere la presunzione di sembrarlo, un commento del fine giurista, bensì un semplice contributo dell’uomo qualunque che, forse meglio di molti altri, anche per averne vissuto direttamente alcune patologie, vuole limitarsi ad esprimere il “sentire comune”.
Tralascio gli aspetti tecnici ovvero i contenuti salienti della riforma, prima fra tutti l’esigenza di una netta separazione tra la funzione dell’inquirente da quella del giudicante, per tentare di rispondere alle tante osservazioni critiche, secondo le quali, le innovazioni proposte nel nostro pianeta giustizia, annienterebbero l’autonomia e l’indipendenza della magistratura, limitando di fatto l’obbligatorietà dell’azione penale, a tutto beneficio del potere politico.
Mi si consenta di dissentire, facendo qualche esempio, non prima di un sintetico riferimento alla storia più recente:
- da decenni, forse da sempre, in occasione della inaugurazione dell’anno giudiziario, assistiamo ad una elencazione di disfunzioni, inefficienze, carenze strutturali, organiche etc., con un aumento vertiginoso del contenzioso penale e civile;
- a livello europeo, siamo i primi per inefficienza e lungaggine dei processi, ricevendo sovente, sonori richiami e, non ultime pesanti sanzioni dalla Corte europea di Strasburgo;
- l’attuale nostro sistema giudiziario, non solo non riesce a gestire in tempi ragionevoli la durata di un qualunque processo, ma addirittura, si è recentemente scoperto in qualche caso, che non riesce neanche ad iscrivere tutti i fascicoli degli instaurandi processi; sarebbe come dire che, le famose “notitiae criminis”, formalizzate dalla polizia giudiziaria (Carabinieri, Polizia e Guardia di finanza) con la famosa “informativa di reato”, si prescrivono e non se ne accorge nessuno;
- se un ufficio di Procura, ha una potenzialità per istruire e portare a termine, immaginiamo, 500 processi all’anno, ma di converso, iscrive nel Registro degli indagati 1000 procedimenti penali, ne consegue che, il 50% del carico di lavoro, andrà necessariamente in “prescrizione”, cioè non ci sarà mai un colpevole e non sarà fatta giustizia e ciò, si badi bene, in presenza di un’azione penale “obbligatoria” (art.112 della Carta Costituzionale: il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale);
- di fronte a “prescrizioni” aventi queste premesse, ormai diventate fisiologiche, ci sarebbe da chiedersi, per rispondere a quel “sentire comune”: quale criterio adotta l’Ufficio di Procura per decidere quali fascicoli far prescrivere? se adotta un ordine temporale di iscrizione, potrebbe rischiare di tralasciare il fascicolo riguardante la fattispecie di reato – sia pure presunta – insita di un maggiore allarme sociale; se, al contrario, adotta un criterio di importanza della vicenda penale processuale, potrebbe determinarsi un personale criterio di discrezionalità. In ambedue i casi, contrasterebbe con il richiamato principio della “obbligatorietà dell’azione penale”. Nella realtà, per ciò che generalmente si vede, e parlo sempre come comune cittadino, registro che, molto spesso si opta per il criterio della “migliore visibilità”, vale a dire: se la notitiae criminis vede indagato il “Ciccillo Cacace” qualunque, lo facciamo tranquillamente prescrivere (indipendentemente dai capi di imputazione), mentre, se interessa il Presidente di un ente locale o comunque un personaggio noto, le conseguenti indagini non registrano soste rimuovendo qualunque ostacolo, nel rispetto dell’autonomia della magistratura.
Di fronte a tale sfascio, ed avendo riferito, molto probabilmente solo delle concause, rimettendo ad altri più qualificati interventi la individuazione delle vere ragioni di tanta “malagiustizia”, dobbiamo chiederci: è necessaria ed urgente una riforma? se la risposta è sì, e il “sentire comune” ne sente l’assoluta urgenza, abbandoniamo i tanti preconcetti rimettendoci con umiltà alle decisioni di una classe politica democraticamente eletta.
Dopo tutto, la riforma proposta, si prefigge:
- separare le “funzioni” (nelle more di separare le carriere a seguito di una modifica della Carta Costituzionale), che potrà significare ritenere l’accusa alla stessa stregua della difesa, quali “parti” del processo penale;
- nuove norme sulla incompatibilità, sarà più difficile trovarsi un giudice che in precedenza e nella stessa vicenda processuale, ha rappresentato l’accusa durante tutta la fase delle indagini preliminari e conseguente richiesta di rinvio a giudizio;
- l’abolizione della progressione automatica delle carriere, significherà che un maggiore impegno accompagnata da una professionalità più qualificata, potranno fare la differenza per una avanzamento di carriera.
Quanto ricordato per dire che, la vera autonomia sta nella legge (e non nell’uomo sia pure magistrato) e l’efficienza, al pari di qualunque altra categoria professionale potrà misurarsi unicamente dai risultati conseguiti (e non nel privilegio di essere e/o di appartenere). Concludo questo breve ed improvvisato ragionamento ricordando una bellissima frase di Massimilano Robespierre: “La libertà e l’innocenza non hanno nulla da temere dalla pubblica indagine, a patto che regni la legge e non l’uomo”.
Bari, 06 novembre 2004