SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE III CIVILE
Sentenza 29 settembre 2009, n. 20819
Svolgimento del processo
Nell’impugnata decisione lo svolgimento dei processo è esposto come segue.
Con atto di citazione, notificato in data 29-8-01, B.L. Conveniva in giudizio, dinanzi al Tribunale di Trieste , la s.p.a. Editoriale F.V.G., in persona del legale rappresentante pro tempore, per sentirla condannare al pagamento della somma di L. 500.000.000 a titolo di risarcimento del danno patito a cagione dei reati di cui agli artt. 323, 326, 595 e 621 c.p., commessi dalla convenuta ai suoi danni, oltre alla violazione della L. n. 675 del 1996 sulla riservatezza.
A fondamento della pretesa illustrava che in data 27-1-1999, sul quotidiano.
Il **** era apparso un articolo che riferiva degli esiti di un procedimento disciplinare a suo carico la cui decisione finale era ignota finanche all’attore che aveva ricevuto notifica del provvedimento emesso dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Trieste appena in data 7-4-1999. Ne desumeva la violazione del segreto tutelato dagli art 323 e 326 c.p., e l’acquisizione indebita ex art 621 c.p. Della notizia che, il responsabile della pubblicazione aveva trattato in maniera difforme al dettato del L. n 675 del 1996, art. 21.
Rimarcava il contenuto manifestamente diffamatorio della notizia divulgata che non poteva essere scriminato dal diritto di cronaca per la non veridicità del fatto rivelato in quanto egli aveva subito una sanzione disciplinare per altre vicende, ma era stato prosciolto dalle accuse mossegli da una sua famosa cliente. Concludeva chiedendo condanna della convenuta al risarcimento del danno, compreso quello alla reputazione per la diffusione nazionale e internazionale che la notizia aveva ricevuto.
Quantificava il risarcimento nella somma di mezzo miliardo di lire Con comparsa depositata in data 21-11-02 si costituiva la s.p.a. Editoriale F V.G. Contestando la domanda avversaria.
Sosteneva l’insussistenza della diffamazione perchè l’articolo, con termini continenti, si era limitato a riportare una notizia vera e cioè l’esito di un processo disciplinare a carico del B. iniziato in seguito ad una denuncia presentata da una sua cliente particolarmente famosa a livello nazionale .
Rappresentava la continenza e correttezza dei testo dell’articolo che aveva illustrato al pubblico lo stato della vicenda intercorrente fra due personaggi, molto noti, venuti in contesa fra loro stigmatizzando i vari aspetti della notizia divulgata con atteggiamento equidistante fra i due contendenti.
Richiamava la rileribilità dei reati ai soli pubblici ufficiali e non al giornalista che non aveva acquisito la notizia illecitamente, ma attraverso normali canali informativi concernenti i procedimenti a carico di un componente dell’ordine professionale.
Respingeva la tesi della non veridicità della notizia perchè il nucleo centrale della stessa era veritiero. Concludeva chiedendo reiezione della domanda con vittoria di spese.
La causa veniva istruita esclusivamente con acquisizione documentale e decisa con sentenza del Tribunale depositata in data 28-3-03.
Il primo giudice respingeva la domanda dell’attore ritenendo sussistere il diritto di cronaca legittimamente esercitato con la diffusione di una notizia che era vera perchè il professionista aveva subito una sanzione disciplinare per un procedimento iniziato in base ad una denuncia di una determinata persona .
Avverso la predetta sentenza proponeva appello il B. con atto di citazione notificato in data 23-6-03.
Con motivo unico criticava il ragionamento del primo giudice che non aveva tenuto in alcun conto la valenza diffamatoria, oltre che offensiva, del fatto in veritiero che era stato comunicato al pubblico e cioè che l’avvocato B. era stato sanzionato per addebiti mossi da quella cliente, mentre il professionista era stato assolto da quelle accuse, ma, per altre vicende, aveva subito una sanzione pari a quella divulgata dal giornale. Ripresentava gli argomenti relativi agli altri reati anch’essi fonte del danno e le violazioni alla normativa sulla riservatezza per l’indebita acquisizione della notizia. Concludeva chiedendo, nel merito, totale riforma dell’impugnata sentenza con accoglimento della domanda attrice che limitava a Euro 51.645,00, ed, in via istruttoria l’acquisizione ex art. 213 c.p.c., di informazioni presso il Consiglio dell’Ordine dell’esito del procedimento contro l’avvocato B.. Si costituiva l’appellata società editrice con comparsa depositata in data 31-3-04 chiedendo il rigetto dell’appello.
Richiamava le forme di lecita pubblicità delle decisioni del consiglio dell’ordine ed corretto diritto di cronaca esercitato con continenza e imparzialità. La causa, senza istruttoria veniva decisa nell’odierna camera di consiglio sulle conclusioni rassegnate dalle parti all’udienza, ex art. 352 c.p.c., di data 12-1-05”.
Con sentenza 6 – 16.4.05 la Corte, definitivamente pronunciando, cosi provvedeva:
• rigetta l’appello proposto da B.L. Avverso la sentenza n. 391/03 del Tribunale di Trieste che, per l’effetto conferma in ogni sua parte b) condanna l’appellante B.L. Alla rifusione delle spese sostenute dall’appellata società che liquida per il presente grado in complessivi L. 5.695,00 di cui Euro 127,00, per spese Euro 1.068,00, per diritti ed L. 4.500,00 per onorari (inclusi rimborsi forfettari) oltre IVA e CNA come per legge”.
Contro questa decisione ha proposto ricorso per cassazione B.L. (che ha anche depositato memoria).
Ha resistito con controricorso l’EDITORIALE F.V.G. s.p.a..
Motivi della decisione
I motivi di ricorso vanno esaminati insieme in quanto connessi.
Con il primo motivo il ricorrente denuncia “art. 360 c.p.c., nn. 1 e 5 – Violazione o falsa applicazione di norme di diritto – Omessa insufficiente contraddittoria motivazione” esponendo doglianze da riassumere come segue la sentenza impugnata è stata pronunciata in violazione dei più elementari principi in materia di prova ed in particolare della previsione di cui all’art. 2697 c.c., comma 3; “…Chi eccepisce … che il diritto si è modificato o estinto deve provare i fatti su cui l’eccezione si fonda.”. L’avv. B.L. Ha comprovato la diffusione di una notizia oggettivamente diffamatoria. Invero, la pubblicazione di un articolo, che riferisce di una sanzione disciplinare inflitta ad un professionista, con accostamento di foto, costituisce sicuramente lesione dell’onore e della reputazione. “…Ancor di più, tali beni appaiono lesi, laddove nell’articolo si legge che il professionista venne accusato da D.R.D. E M.A. Di aver sollecitato la propria nomina a difensore, essendosi impegnato a prestare attività professionale gratuitamente, in quanto pago della pubblicità che la vicenda avrebbe procurato per avere in seguito preteso giudizialmente un compenso…”. Invece controparte non ha assolto l’onere di dimostrare di aver legittimamente esercitato il diritto di cronaca. L’avv. B. ha sempre contestato la veridicità della notizia, chiedendo, in via istruttoria e con ciò facendosi carico di un onere probatorio a lui non diretto, l’acquisizione di informazioni presso il C.O.A. Di Trieste ex art. 213 c.p.c., in ordine al suo proscioglimento, per i fatti indicati nell’articolo oggetto di causa. Afferma la Corte che, essendo i ricorrente in possesso della decisione del Consiglio dell’Ordine, sarebbe stato suo onere provvedere al deposito della stessa.
L’assunto, oltre a dar vita a un vizio di contraddittorietà della motivazione, stravolge i principi stabiliti dall’art. 2697 c.c., comma 2, in tema di onere della prova. Mai potrà essere imposto a parte attrice l’onere di produrre in giudizio un documento asseritamente attestante la modificazione o l’estinzione del diritto da lui vantato. Oltretutto, trattandosi di documento riservato e segreto, nonché relativo a fatti che nulla hanno a che vedere con l’esposto cui fa cenno l’articolista de “****”, non potrà mai formare onere di prova attorea la produzione dello stesso. Proprio al fine di evitare la produzione di documenti riservati l’attore richiedeva l’assunzione di informazioni presso il C.O.A., relative unicamente al suo proscioglimento, con riferimento ai fatti pubblicati sulla stampa, evitando con ciò di rendere pubbliche notizie coperte da segreto e non pervenute agli organi di stampa stessi, nonché riguardanti persone estranee eventualmente coinvolte nella vicenda. Neppure appare invocabile il disposto dell’art. 16 c.p.c., comma 2, che consente al Giudice di desumere argomenti di prova dal contegno processuale delle parti. Invero, tale norma sicuramente non inficia i principi relativi all’onere della prova e non rientra sicuramente in un atteggiamento valutabile negativamente, la mancata produzione di documenti di cui deve farsi carico parte avversa.
Con il secondo motivo il ricorrente denuncia “Art. 360 c.c., nn. 3 e 5 – Violazione o falsa applicazione di norma di diritto – Omessa insufficiente contraddittoria motivazione” esponendo doglianze da riassumere nel modo seguente. Afferma la Corte d’Appello che non sarebbe stato in alcun modo dimostrata la violazione del segreto d’Ufficio, che ha comportato successivamente l’indebita diffusione della notizia. L’art. 621 c.p., sanziona chiunque essendo venuto abusivamente a cognizione del contenuto, che debba ritenere segreto, di altrui atti o documenti, lo rivela. Non appare importante a tal punto fornire la prova di chi e come abbia posto in essere la violazione del contenuto di documenti segreti, apparendo sufficiente la prova della abusiva rivelazione degli stessi. Del fatto che si tratti di documenti coperti da segretezza e riservatezza non viene posto alcun dubbio neppure dalla Corte d’Appello di Trieste , nella motivazione della sentenza impugnata. D’altra parte, conformi sono i pareri del Consiglio Nazionale forense (n. 6 del 19.04.1998, parere dd. 24.09.1992) che ribadiscono la segretezza e riservatezza delle decisioni disciplinari. Connessa alla natura segreta di tale documento è pure la violazione della privacy, nonché la natura diffamatoria della notizia indipendentemente dalla veridicità della medesima.
Il ricorso non può essere accolto in quanto l’impugnata decisione si basa su una motivazione sufficiente, logica, non contraddittoria e rispettosa della normativa in questione.
In particolare, con riferimento alla “…violazione del segreto…” va rilevato che nell’impugnata sentenza si legge quanto segue: “…Dal canto suo la convenuta appellata ha contestato la caratteristica di segretezza della notizia riguardante il professionista condannato a sanzione disciplinare indicando negli R.D. n. 1578 del 1933, artt. 16 e 46, e R.D. n. 37 del 1934, artt. 51 e 64, le forme di pubblicità legale che consentono a coloro che intendano consultare gli albi professionali di conoscere i provvedimenti disciplinari presi a carico degli iscritti. La tesi alternativa proposta dalla convenuta appellata esclude in radice ripotizzabililà di una illegittima acquisizione di notizia segreta perchè le modalità di apprendimento della notizia possono essere state , assolutamente lecite ed incombe a chi invoca il reato, quale fonte del risarcimento, di dimostrarne l’esistenza anche in termini vaghi e senza indicazione dell’autore, ma pur sempre nel concreto verificarsi del crimine. Nell’ipotesi in esame manca totalmente anche il più piccolo indizio sull’appropriazione indebita della notizia la cui segretezza non può desumersi dalla segretezza delle udienze del Consiglio dell’Ordine posto che le decisioni anche non definitive hanno una pur limitata forma di diffusione. Chiuso l’argomento segretezza…”.
Da tale brano (specie se inquadrato nel contesto della decisione) appare palese che la Corte di merito ha precisamente negato la caratteristica di segretezza della notizia riguardante il professionista condannato a sanzione disciplinare; e che lo ha fatto sulla base di una motivazione del tutto adeguata (immune da vizi logici o da violazioni dello normativa sopra citata).
Di fronte a tale negazione ed a tale motivazione della medesima la parte ricorrente ha esposto censure decisamente generiche (e quindi inammissibili prima ancora che prive di pregio) poiché non prendono in rituale considerazione il reale contenuto della sentenza sui punto.
Anche la residua motivazione esposta dalla Corte è ineccepibile sotto tutti i profili in esame; tra cui quelli riguardanti l’onere probatorio.
In particolare, con riferimento all’art. 116 c.p.c., appare inidonea a suffragare l’assunto del ricorrente l’affermazione del medesimo che “… tale norma sicuramente non inficia i principi relativi all’onere della prova…”.
E’ infatti indubbio che l’art. 316 c.p.c., non inficia detti principi; ma è altrettanto indubbio che, nel pieno rispetto dei principi medesimi, il Giudice può ritenere raggiunta la prova (anche a favore del soggetto in capo ai quale incombe all’onere probatorio) allorquando ritiene di applicare il seguente principio di diritto (implicitamente utilizzato nell’impugnata sentenza); “Il comportamento processuale (nel cui ambito rientra anche il sistema difensivo adottato dal suo procuratore) o extraprocessuale delle parti, può costituire , ai sensi dell’art. 116 c.p.c., non solo elemento di valutazione delle risultanze acquisite ma anche unica e sufficiente fonte di prova” (v. tra le altre Cass. n. 14748 del 26/06/2007, Cass. n. 09279 del 04/05/2005; e Cass. n. 12145 del 10.08.2002).
Non rimane dunque che rigettare il ricorso.
Le spese seguono la soccombenza e vengono liquidate come esposto nel dispositivo.
P.Q.M.
La Corte:
Rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente a rifondere alla parte controricorrente le spese del giudizio di cassazione liquidate in Euro 8.000,00, (Euro ottomila) per onorario oltre Euro 200,00, (Euro duecento) per spese vive ed oltre spese generali ed accessori come per legge.
Così deciso in Roma, il 25 giugno 2009.
Depositato in Cancelleria il 29 settembre 2009.