Non risponde di calunnia l’avvocato che insinua che il giudice potrebbe essere corrotto, e lo accusa velatamente di abuso d’ufficio. L’erronea insinuazione sulla possibile rilevanza penale dei fatti contestati non basta a condannare il difensore.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione nella sentenza 37795 di oggi, annullando la sentenza con cui la Corte d’Appello di Ancona confermava la condanna per il reato di calunnia inflitta a un avvocato. Il legale, nel contestare la legittimità di un decreto ingiuntivo, aveva accusato il giudice di “comportamento anomalo che non si addice certo a un organo di giustizia e che lascia la porta aperta a ogni possibile ipotesi”. Non solo. Il difensore accusava il suo collega, avvocato della controparte, “di possibili illegittime connivenze”, quasi sottintendendo l’abuso di ufficio se non addirittura la corruzione del giudice, in concorso con l’avvocato della controparte. L’imputato si difendeva sottolineando che si era limitato a patrocinare, in veste di legale, gli interessi del proprio cliente nella causa civile di opposizione a decreto ingiuntivo, un decreto emesso in seguito a una serie di pesanti irregolarità che lo avevano portato a criticarlo così aspramente nella sua linea difensiva. La sesta sezione penale della Cassazione gli ha dato ragione, secondo il giudice di legittimità infatti l’atto di opposizione insinuava in modo malizioso dubbi sulla correttezza dell’operato del magistrato, ma in maniera così vaga da non poter configurare il reato di calunnia. Infatti, ha concluso la Suprema Corte, “deve escludersi il reato di calunnia nell’ipotesi che siano portate a conoscenza dell’autorità giudiziaria circostanze di fatto che, per come esposte e documentate, non sono idonee ad indicare taluno come colpevole di fatti costituenti reato, anche se l’agente, sulla base dei dati esposti, manifesti l’erronea convinzione di denunciare, sia pure in forma dubitativa, un reato: la calunnia, infatti, non può essere incolpazione di un reato putativo.”