Può ottenere in Italia la protezione internazionale l’immigrato di fede cristiana che teme persecuzioni nel suo Paese “a prevalenza islamica”.
Lo ha stabilito la Corte di cassazione che, con la sentenza n. 26056 del 23 dicembre 2010, ha accolto il ricorso di un nigeriano cristiano, scappato dal suo Paese per il timore di persecuzioni.
La prima sezione penale, bocciando la decisione del Tribunale di Torino con la quale era stata respinta l’istanza di protezione, ha precisato nelle brevi motivazioni, che “coglie certamente nel segno la censura rivolta alla sommaria ed inappropriata valutazione “assorbente” delle insufficienze e delle contraddizioni delle allegazioni probatorie del richiedente la protezione internazionale: la Corte di merito, condividendo la valutazione del primo giudice, ha esaminato la domanda di protezione sotto l\’ottica prevalente della credibilità soggettiva del richiedente, totalmente dimenticando di adempiere ai doveri di ampia indagine, di completa acquisizione documentale anche officiosa e di complessiva valutazione anche della situazione reale del Paese di provenienza , doveri imposti dall\’art. 8 comma 3 del d.lgs. n. 25 del 2008 (emanato in attuazione della direttiva 2005/85/CE), norma alla stregua della quale ciascuna do-manda deve essere esaminata alla luce di informazioni aggiornate sulla situazione del Paese di origine del richiedente asilo, informazioni che la Commissione Nazionale fornisce agli organi giurisdizionali chiamati a pronunciarsi su impugnazioni di decisioni negative”. Insomma, la Corte di Milano ha del tutto ignorato tale norma ed il chiaro indirizzo delle Sezioni Unite di Piazza Cavour, secondo cui “anche il giudice deve svolgere un ruolo attivo nella istruzione della domanda di protezione internazionale, del tutto prescindendo dal principio dispositivo proprio del giudizio civile e dalle relative preclusioni, e di contro fondandolo sulla possibilità di acquisizione officiosa di informazioni e documentazione necessarie”.
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