No alle missioni impossibili, anche in chirurgia. È contrario alle norme deontologiche, oltre che inutile, operare i malati terminali che, disposti a tutto, accettano di sottoporsi all’intervento per ottenere un improbabile beneficio alla qualità della vita. I sanitari che decidono di mettere ugualmente sotto i ferri l’ammalato in fin di vita violano il codice deontologico e versano dunque in una situazione di colpa. Soltanto la prescrizione salva tre chirurghi romani dopo la doppia condanna per omicidio colposo in sede di merito. Lo stabilisce una sentenza emessa il 7 aprile 2011 dalla quarta sezione penale della Cassazione.
Decisione censurabile
La Suprema corte dichiara l’estinzione del reato: sono passati più di sette anni e mezzo dal delitto. Nel caso dei tre medici, infatti, non sono riscontrabili elementi di giudizio idonei a integrare la prova evidente della loro innocenza, anzi: nelle sentenze di merito sono contenute valutazioni di segno diametralmente opposto, che condurrebbero all’accertamento della responsabilità dei professionisti. I quali, insomma, si salvano solo grazie alla prescrizione. Costituisce un vero e proprio accanimento terapeutico la scelta compiuta dai sanitari che decidono di sottoporre a un intervento invasivo una donna di circa quarant’anni affetta da tumore al pancreas con diffusione generalizzata: la signora, cui restavano pochi mesi di vita, era insomma da ritenersi inoperabile. La decisione di entrare comunque in sala operatoria rappresenta una violazione delle regole di prudenza che devono ispirare i professionisti che operano in scienza e coscienza.
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