Distrarre gli utili dell’impresa, a maggior ragione quando lo fa un terzo in concorso con un manager, non configura il reato di bancarotta fraudolenta perché questa ricchezza è dei soci e non dei creditori. Al contrario, determinare il dissesto economico con la consapevolezza di nuocere a questi ultimi è penalmente perseguibile. È quanto affermato dalla Corte di cassazione che, con una sentenza del 26 aprile 2011, ha respinto il ricorso della Procura di Roma diretto a far condannare un noto imprenditore che, mediante un giro di leasing fittizi, aveva contribuito a determinare il fallimento di un’azienda che faceva affari con lui. In queste interessanti motivazioni la quinta sezione penale ha prima di tutto precisato che sul piano teorico può rispondere di bancarotta fraudolenta anche l’estraneo alla società che, insieme al manager, ha determinato il dissesto finanziario. Ma deve aver depauperato l’asse patrimoniale dei creditori, non essendo sufficiente aver genericamente intaccato la ricchezza dell’azienda. “Più che soffermarsi sull\’elemento soggettivo, – si legge a un certo punto delle motivazioni – il Collegio ritiene pregiudiziale la disamina della ricorrenza del dato obiettivo, sotteso dalla fattispecie di bancarotta fraudolenta patrimoniale, cioè l\’effettiva connotazione di fraudolenza dell\’azione nel contesto dell\’ illecito fallimentare”. Infatti, l\’offesa provocata dal reato non può ridursi “al mero impoverimento dell\’asse patrimoniale dell\’impresa, ma si restringe alla diminuzione della consistenza patrimoniale idonea a danneggiare le aspettative dei creditori. Questi ultimi, quali persone offese, sono invero — l\’indispensabile referente per lo scrutinio in discorso”. In sostanza, “è integrativa del reato non già la sottrazione di ricchezza che costituisce l\’offesa del reato, ma soltanto quella che reca danno alle pretese dei creditori”. E per i giudici di legittimità non si tratta affatto di una precisazione di poco conto: l\’azione distrattiva che cade sugli utili prodotti dalla società, pur riducendo l\’oggettiva consistenza del patrimonio dell\’organismo, non è idonea ad integrare il reato, postoché il profitto generato dalla gestione, ove non reinvestito, appartiene ai soci e non ai creditori”. https://www.giovannifalcone.it/upload/uno.pdf
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