Criptovalute: Ancora nebbia fitta!
Di acqua sotto i ponti ne è passata davvero tanta da quando per la prima volta, nel lontano 2009 si è iniziato a parlare di criptovaluta. Era l’anno in cui un individuo anonimo, presentatosi con lo pseudonimo di Satoshi Nakamoto ha integrato la tecnologia blockchain al progetto di una valuta digitale decentralizzata. Già nell’agosto precedente ne preannunciava la nascita con la divulgazione di un white paper dal titolo “ Bitcoin, a Peer to Peer electronic cash system” (https://bitcoin.org/bitcoin.pdf).
La produzione delle criptovalute, che non hanno mai natura fisica (banconote o monete) bensì solamente digitale, viene definita mining e si sviluppa attraverso l’esecuzione di un algoritmo di calcolo.
Ogni algoritmo di calcolo o codice sorgente che regola la generazione della criptovaluta è disegnato prevedendo un numero minimo o massimo di criptovaluta da immettere sul mercato.
Teoricamente, chiunque dotato di un apposito elaboratore elettronico, può iniziare a creare moneta elettronica mettendo a disposizione della piattaforma registro, tipicamente una blockchain, la propria potenza di calcolo per processare dei blocchi e validare le transazioni.
La generazione di criptovaluta rappresenta proprio la ricompensa ricevuta per aver messo a disposizione la propria potenza di calcolo.
Man mano che aumenta la partecipazione al processo di mining, presumibilmente perché la criptovaluta da minare si apprezza e diventa popolare, cresce la complessità di calcolo e quindi la difficoltà di minare.
Dalla nascita ad oggi il mondo delle valute basate su tecnologia crittografica (da qui il nome criptovaluta) ha subito profonde evoluzioni, non sempre positive, attirando spesso l’attenzione dei Governi che ad oggi non sono ancora stati in grado di regolamentare un settore così importante e con impatto potenzialmente vasto per l’economia e la legalità di una nazione.
Anonimato delle operazioni
Una delle principali caratteristiche delle criptovalute è il loro completo anonimato. Anonimato garantito in qualsiasi transazione che può essere facilmente eseguita in frazioni di secondi e con costi pari allo zero.
Infatti dal momento della genesi di una criptovaluta (mining) che si presenta sottoforma di codice informatico digitale al momento del suo impiego non è necessaria alcuna fase K.Y.C. salvo in alcuni casi di utilizzo di alcuni wallet o exchange che operano sul mercato legale.
Anche in quei casi le procedure KYC servono maggiormente a tutelare la sicurezza dei clienti che affidano alla piattaforma il deposito e la custodia delle proprie criptovalute piuttosto che a controllare eventuali movimenti sospetti ovvero ad accertare la reale identità delle parti coinvolte nel processo di scambio.
Va sottolineato che per importi esigui anche le piattaforme più accreditate e reputate più serie permettono lo scambio senza alcuna identificazione delle parti attrici.
Attualmente l’unica reale possibilità di identificare il possessore di una criptovaluta è al momento dell’impiego della stessa per l’acquisto di un bene fisico per cui si richiede una consegna fisica.
Individuazione delle parti contraenti
Con non pochi sforzi è possibile un processo di indagine a ritroso e seguire il flusso fino all’origine – quando possibile – della criptovaluta impiegata. E’ evidente che chi ha cattive intenzioni si guarda bene dall’impiegare le criptovalute per usi legali.
L’euforia dopo la nascita del bitcoin e le repentine oscillazioni della quotazione di questa stessa criptovaluta oltre ad aver attratto l’attenzione degli speculatori hanno fatto nascere numerose altre criptovalute, raggruppate in una categoria che porta il nome di Altcoin.
In particolare tra le tante si fa notare quella denominata Monero, il cui impiego è divenuto popolare proprio perché garantisce il più completo e totale anonimato non lasciando traccia alcuna neanche delle transazioni di scambio avvenute. Questa stessa criptovaluta pare sia stata e sia ancora la più impiegata nei circuiti “dark web” e per ogni forma di commercio illegale, si legga tra le righe: traffico di sostanze vietate, traffico di armi, corruzione, riciclaggio mediante la conversione in altra criptovaluta e di poi in valuta Fiat.
Purtroppo i criminali, da sempre attenti a ricercare nuove strade per ripulire i propri denari frutto di operazioni illegali, hanno subito individuato nelle criptovalute una strada “sicura” per agevolare i propri traffici illegali non essendo richiesta alcuna procedura di verifica ovvero laddove richiesta si limita alla semplice identificazione – senza neanche accurate verifiche – del soggetto.
Abbiamo spesso parlato in questo sito del problema legato alle procedure antiriclaggio da implementare nel mondo delle criptovalute, ma allo stato attuale il quadro normativo di riferimento, a livello internazione, è ancora molto nebuloso e povero.
Va inoltre considerato che vi sono iniziative denominate I.C.O. o S.T.O. rispettivamente Initial Coin Offering e Security Token Offering che prevedono l’acquisto per fini speculativi di token (assimilabili alle criptovalute e basati sulle stesse tecnologie informatiche) messe in piedi con estrema facilità e senza alcuna regolamentazione. Va operata un’eccezione per le S.T.O. che si distinguono dalle ICO proprio per il fatto di assimilare il token oggetto di pre-sale ad una security e pertanto sottoposta ad autorizzazioni legislative.
U.S.A. e Malta sono state le prime nazioni a regolamentare le STO in modo da tutelare gli investitori, informandoli appropriatamente sui rischi corsi, e limitare il fenomeno della tokenizzazione o digitalizzazione del denaro di provenienza illecita al fine di ripulirlo senza grandi rischi né costi.
Infatti il ricorso a queste procedure di fund raising ha avuto successo a dispetto del tradizionale metodo delle IPO o del crowdfunding proprio per la maggiore agilità e la totale mancanza di controlli e regolamentazioni. Tuttavia studi recenti di Ernst & Young affermano che solo il 25% delle ICO organizzate aveva come oggetto un reale prodotto o servizio erogato dalla start-up beneficiaria della raccolta fondi.
Tradizionalmente nelle ICO a vendere token è lo stesso soggetto emittente, quindi passiamo da un democratico processo di mining teoricamente aperto a tutti, ad una vendita di token pre-minati da un soggetto privato, difficilmente controllabile, spesso anonimo, che con investimenti promo pubblicitari attrae speculatori ad investire nella propria “idea”.
Si capisce bene che questo appena descritto è un meccanismo perfetto per il lavaggio di denaro dove un soggetto produce dei token il cui costo originario è solo quello di elaborazione informatica quindi molto irrisorio, li rivende ad un prezzo simbolico, vantaggioso e sicuramente scontato per un periodo di tempo limitato fa poi lievitare la quotazione con manovre di spoofing * e/o comunque artificialmente acquistando e rivendendo – spesso a sé stesso ma con account diverso – grossi volumi e registrando quindi un “capital gain” importantissimo tale da giustificare poi il trasferimento su un conto bancario di valuta fiat teoricamente frutto di speculazioni su criptovalute.
Restano ancora dubbi sulla tassazione o meno delle plusvalenze ottenute dal trading di criptovaluta che non avendo il riconoscimento formale di asset finanziario in linea di logica devono essere assimilate ad un qualsiasi bene (software) che può essere scambiato tra privati come merce usata.
16 Novembre 2019
Lettera firmata
* spoofing è una pratica che consiste in una manipolazione della quotazione delle criptovalute. In pratica essendo le criptovalute non ancora diffuse in modo numeroso ed essendo la maggior parte di esse concentrata nelle mani di pochi, basti pensare che il 40% di tutti i bitcoin in circolazione è detenuto in soli 1000 conti e che il 20% invece è detenuto in soli 100 conti (fonte: www.agcnews.eu). Ciò consente ai detentori di influenzare agevolmente le quotazioni inviando ordini di acquisto massicci e revocandoli un istante prima di concludere la transazione. Ciò è possibile e perfino “legale” in quanto i sistemi exchange dove avvengono questi scambi sono privati e deregolamentati ed i volumi di scambio sono ridotti al punto tale da consentire ed incentivare tali manovre che nella finanza tradizionale sarebbero punibili come reato.