mercoledì, Aprile 24, 2024
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FINTO POLIZIOTTO: Reato di truffa

 

Chi si finge
poliziotto per ottenere denaro non commette estorsione ma truffa per ingenerato
timore

 

 

La Corte di Cassazione, II sezione
penale, con sentenza 16/12/2014 n. 52121 ha statuito in ordine a un caso
singolare ma vero.

Erano in due
i falsi poliziotti, infatti, che, indossando la divisa degli agenti, hanno
indotto un cittadino a versare loro una somma di denaro
.

In realtà,
come si evince dalla lettura della sentenza, chi si finge poliziotto non
commette reato di estorsione. Secondo la Cassazione
una simile fattispecie integra infatti il reato di truffa.

La
differenza tra i due reati (truffa per ingenerato timore ed estorsione) ha natura meramente oggettiva.

La prima
ricorre se il danno prospettato è soltanto immaginario (e non reale, certo e
sicuro così come avviene nel secondo caso).

L\’estorsione
ha poi una caratteristica: la vittima non cede volontariamente alla richiesta
del reo. La sua volontà è coartata mediante violenza o minaccia.

L\’estorsione
infatti sussiste quando un soggetto con violenza o minaccia, “costringendo
taluno a fare o ad omettere qualche cosa, procura a sé o ad altri un ingiusto
profitto con altrui danno” (v. art. 629 codice penale).

Sono i
raggiri e gli artifizi, invece, che caratterizzano ilreato di truffa(Art. 640 del codice penale).

La norma
punisce proprio chi, “con artifizi o raggiri, inducendo taluno in
errore
, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui
danno”.

Insomma, in
linea generale violenza o minaccia da un lato, artifizi e raggiri dall\’altro
sono le caratteristiche distintive delle due fattispecie di reato: “si
ha truffa aggravata quando il danno immaginario viene indotto nella persona
offesa tramite raggiri o artifizi; si ha estorsione, invece, quando il danno è
certo e sicuro ad opera del reo o di altri ove la vittima non ceda alla
richiesta minatoria
“.

La valutazione
sulla sussistenza del danno (immaginario o reale che sia), va effettuata ex
post, a nulla rilevando la fonte del danno prospettato o lo stato soggettivo
della persona offesa.

Per altri
dettagli si rimanda al testo della sentenza qui sotto allegato.


Fonte: Chi si finge poliziotto per ottenere denaro non commette
estorsione ma truffa per ingenerato timore

(www.StudioCataldi.it)

SENTENZA INTEGRALE

Cassazione penale sentenza 16 dicembre 2014, n. 52121
Fatto
1.
Con sentenza del 05/12/2014, la Corte di Appello di Milano confermava
la sentenza pronunciata in data 06/02/2013 dal giudice dell’udienza
preliminare del tribunale della medesima città nella parte in cui aveva
ritenuto D.C.D. (in concorso con G.C. non ricorrente) colpevole dei
seguenti reati: “Capo A) artt. 110-629 comma 1 e 2 in rei. 628 comma 3
n. 61 n. 5 C.P. perché, presentandosi a I.F. come agenti di polizia in
borghese dopo averlo inseguito e fermato con la minaccia di elevare
verbale di contravvenzione per un importo di 1.300,00 Euro, lo
costringevano a consegnare loro la somma di Euro 500,00 prelevati da uno
sportello bancomat, procurandosi cosi un ingiusto profitto con altrui
danno. Fatto commesso in […] . Capo B) artt. 110 – 347 – 61 n. 2 C.P.
perché in concorso tra loro usurpavano la posizione pubblica di agente
di polizia, mostrando un distintivo e presentandosi a I.F. come Polizia
Antidroga. Fatto commesso in […] ”.
Il fatto veniva
ricostruito dalla Corte territoriale nei seguenti termini: “Il
procedimento trae origine dalla denuncia sporta in data […] da I.F. il
quale dichiarava che la notte del […] mentre era alla guida della
propria autovettura veniva inseguito da un una Ford Focus da cui
scendeva un uomo che gli mostrava un distintivo, e si qualificava come
appartenente alla Polizia Antidroga e gli contestava tre violazioni del
codice della strada a suo dire memorizzate in una memory card che gli
esibiva, comportanti sanzioni pecuniarie per Euro 1.300,00 ed il ritiro
della patente ed il sequestro del mezzo. Nel medesimo contesto il
secondo uomo rimaneva a bordo della Focus, dalla quale proveniva il
cicalio tipico delle trasmissioni via radio. Quindi il sedicente agente
operante prospettava al I. la possibilità di annullare la sanzione,
stracciando la memory card, in cambio di Euro 250,00 per lui e per il
collega. Visto che lo I. non aveva contanti, gli stessi falsi poliziotti
lo accompagnavano ad uno sportello bancomat per ritirare la cifra
pattuita, quindi intascato il contante accartocciavano e gettavano in un
cestino la memory card. Una volta giunto a casa la parte lesa decideva
di tornare sul posto per recuperare la memory card e quindi constatava
che il presunto cicalio della polizia sentito nella Ford Focus non era
altro che una mera registrazione. A seguito delle indagini degli organi
di Polizia gli operanti individuavano i due presunti agenti negli
odierni imputati che di seguito venivano con certezza riconosciuti dalla
parte lesa. Nel corso del giudizio immediato il G. , pur cercando di
sminuire le proprie responsabilità e senza fare il nome del complice,
nella sostanza ammetteva l’incontro con lo I. , l’inseguimento, la
qualificazione come agente di polizia e la circostanza di aver giocato
sull’equivoco nato fino al ricevimento della somma di 500,00 Euro”.
2. Avverso la suddetta sentenza, l’imputato, in proprio, ha proposto ricorso per cassazione deducendo i seguenti motivi:
2.1.
illogicità della motivazione nella parte in cui la Corte territoriale
aveva ritenuto che il complice del G. fosse esso ricorrente. La Corte
territoriale, infatti, non aveva risposto alle molteplici osservazioni
indicate nell’atto di appello con le quale si erano analiticamente
criticate tutte le contraddizioni in cui era incorso il primo giudice.
Non poteva essere ritenuto un valido elemento di prova il riconoscimento
fotografico effettuato dalla parte offesa in quanto era stato
effettuato con un margine di incertezza atteso che aveva affermato che
esso ricorrente “era comunque dimagrito rispetto alla fotografia
mostratagli”. Privo di valenza, poi, doveva ritenersi il riconoscimento
dell’autovettura Ford Focus con la quale la parte offesa era stata
fermata trattandosi di un modello abbastanza comune e, quindi, non
individualizzante.
2.2. errata qualificazione giuridica del
fatto: sostiene il ricorrente che, nel fatto addebitatogli, sarebbe
configurabile, al più, il reato di truffa aggravata e non quello di
estorsione come ritenuto peraltro da una parte della giurisprudenza di
legittimità;
2.3. violazione dell’art. 61 n. 5 cod. pen. per
avere la Corte omesso di motivare sulla sussistenza dell’aggravante del
tempo di notte;
2.4. violazione dell’art. 62 bis cod. pen. per
non avere la Corte concesso le suddette attenuanti nonostante ne
sussistessero i presupposti (incensuratezza e corretto comportamento
processuale).
Diritto
1.
illogicità della motivazione in ordine alla responsabilità: il
ricorrente sostiene di non aver partecipato all’azione delittuosa.
Sennonché,
la sua responsabilità è stata affermata da entrambi i giudici di merito
(cfr pag. 7 sentenza impugnata) sulla base del suo certo riconoscimento
fotografico avvenuto ad opera della parte offesa.
Il
ricorrente sostiene che il suddetto riconoscimento sarebbe inattendibile
solo perché la parte offesa aveva dichiarato che, rispetto alla foto
segnaletica, esso imputato risultava più magro: ma, si tratta di un
circostanza che, lungi dal minare l’attendibilità del riconoscimento, al
contrario, paradossalmente, la rafforza perché è indice del fatto che
la parte offesa aveva avuto modo di vedere molto bene il complice del G.
(reo confesso) tanto da notare che il medesimo era più magro di quanto
risultasse in foto.
A tale riconoscimento, va aggiunto che la
parte offesa aveva dichiarato che i due imputati si trovavano a bordo di
una Ford Focus verde scuro con i cerchi in lega, ossia la stessa auto a
bordo della quale i due erano stati visti insieme a seguito di un
controllo effettuato dalle Forze dell’Ordine (cfr pag. 3 ricorso).
Il
compendio probatorio, quindi, può ritenersi ampiamente sufficiente a
far ritenere incensurabile la conclusione alla quale entrambi i giudici
di merito sono pervenuti.
Infatti, le censure dedotte vanno
ritenute null’altro che un tentativo di introdurre in questa sede di
legittimità una nuova ed alternativa valutazione di quegli stessi
elementi fattuali ampiamente presi in esame da entrambi i giudici di
merito: il che rende la doglianza manifestamente infondata.
2. errata qualificazione giuridica del fatto: la censura è fondata per le ragioni di seguito indicate.
La
Corte territoriale, ha respinto la medesima doglianza con la seguente
testuale motivazione: “Per quanto riguarda il capo A), va escluso possa
parlarsi di truffa in luogo di estorsione, in quanto la consegna del
denaro da parte della vittima, come ben veniva già illustrato in primo
grado, non derivava da un mero inganno realizzato dai finti poliziotti,
ma dalla minaccia posta in essere dagli stessi di sottoposizione a una
grave sanzione amministrativa. Valga solo, per quanto riguarda il
criterio distintivo tra il reato di estorsione e il reato di truffa
aggravata, riportare l’insegnamento costante della Corte di legittimità
secondo cui la differenza risiede nelle modalità in cui viene
prospettato alla vittima il danno e, nel caso, gli agenti certamente
conseguivano l’ingiusto profitto attraverso un atteggiamento di palese
minaccia con la prospettazione del danno certo e reale costituito dalla
sanzione pecuniari”.
L’art. 640/2 n. 2 cod. pen. prevede
l’aggravamento della pena “se il fatto è commesso ingenerando nella
persona offesa il timore di un pericolo immaginario o l’erroneo
convincimento di dovere eseguire un ordine dell’autorità”.
Poiché
la prospettazione di un pericolo – sebbene immaginario – determina
nella vittima una forma di coartazione della volontà, si è posto il
problema di identificare gli elementi che consentano di differenziare la
truffa aggravata dall’estorsione.
Il suddetto problema era
già presente all’attenzione del legislatore: infatti, al § 750 voi V,
parte II della Relazione sui Libri II e III del Progetto dei Lavori
preparatori del cod. pen. e del cod. proc. pen. si legge: “Si è
domandato da alcuno perché è stato considerato come un ipotesi di truffa
il fatto di chi, con un artificio o raggiro, tende ad ingenerare nella
persona offesa il timore di un pericolo immaginario o l’erroneo
convincimento di dovere eseguire un ordine dell’Autorità, sembrando che
tale fatto debba piuttosto costituire delitto di estorsione.
L’osservazione non tiene presente che il Progetto si riferisce all’uso
di artifici o raggiri, ossia a mezzi, che non realizzano una costrizione
della volontà ma una induzione in errore, e perciò la definizione
giuridica del fatto non può essere che quella di truffa”.
La
ratio legis va, quindi, individuata nel fatto che il legislatore, nella
sua insindacabilità, ha ritenuto che quella determinata modalità di
raggiro o artifizio, fosse particolarmente pericolosa ed insidiosa e
che, pertanto, meritasse di essere qualificata come una aggravante.
In
altri termini, mentre il legislatore, per la truffa semplice di cui al
primo comma dell’art. 640 cod. pen., si è limitato ad enunciare come
elemento oggettivo del reato, “gli artifizi o raggiri”, lasciando
all’interprete di stabilire, di volta in volta, se un determinato
comportamento sia qualificabile come artifizio o raggiro, al contrario,
ha tipizzato una particolare categoria di artifizi e raggiri, stabilendo
che, appunto, quando l’agente, induce taluno in errore procurando a sé o
ad altri un ingiusto profitto con altrui danno, mediante artifizi o
raggiri consistenti nell’ingenerare nella persona offesa il timore di un
pericolo immaginario, questa ipotesi dev’essere considerata aggravata.
La
peculiarità dell’ipotesi in esame consiste, quindi, nella circostanza
che ingenerare nella persona offesa il timore di un pericolo
immaginario, costituisce il particolare mezzo (rectius: artifizio o
raggiro) grazie al quale l’agente induce in errore la parte offesa.
I
chiarimenti offerti dallo stesso Guardasigilli, non hanno però
dissipato tutti i dubbi sull’individuazione della linea di demarcazione
fra truffa aggravata e estorsione.
Infatti, nell’ambito della giurisprudenza di questa stessa Corte di legittimità, si registrano due opinioni.
2.1.
Secondo una prima tesi, “uno dei criteri distintivi tra l’estorsione e
la truffa per ingenerato timore è da ravvisare nella particolare
posizione dell’agente nei rapporti con lo stato d’animo del soggetto
passivo. Nella estorsione, infatti, l’agente incute direttamente od
indirettamente, il timore di un danno che fa apparire certo in caso di
rifiuto e proveniente da lui (o da persona a lui legata da un rapporto
qualsiasi), di guisa che l’adesione della vittima è il frutto di una
determinazione per volontà coartata; l’attuazione del male minacciato
deve presentarsi in forma di possibilità concreta dipendente dalla
volontà dell’agente o di persona legata allo stesso. Nella truffa
vessatoria, invece, il danno è prospettato solo in termini di
eventualità obiettiva e giammai derivante in modo diretto od indiretto
dalla volontà dell’agente, di guisa che l’offeso agisce non perché
coartato, ma tratto in inganno, anche se il timore contribuisce ad
ingenerare l’errore nel processo formativo della volontà”: ex plurimis
Cass. 5244/1975 riv 133309; Cass. 11622/1982 riv 156497; Cass. 710/1986
riv 174914; Cass. 5845/1995 riv 201333; Cass. 4180/2000 riv 215705;
Cass. 29704/2003 riv 226057; Cass. 35346/2010 riv 248402; Cass.
36906/2011 riv 251149.
La suddetta opinione, quindi, individua i seguenti criteri differenziali:
a)
lo stato d’animo del soggetto passivo, il quale, nell’estorsione agisce
con la volontà coartata, mentre nella truffa vessatoria agisce perché
tratto in inganno, sia pure attraverso l’eccitazione di un timore: Cass.
5244/1975 RV 133309;
b) la realizzazione del danno
minacciato: infatti, si ha estorsione, quando il danno viene minacciato
come una possibilità concreta, che dipende direttamente o indirettamente
dallo stesso agente, il quale si mostra in grado di determinare, o
meno, la situazione prospettata, mentre si ha truffa per ingenerato
timore, quando il male rappresentato non dipende, neppure in parte
dall’agente, il quale resta del tutto estraneo all’evento, artatamente
rappresentato, sì che il soggetto passivo si determina all’azione
versando in stato di errore: Cass. Sez. I, 6693/1979 RV 142629; Sez. II,
1616/1987 RV 175101; 5838/1995 RV 201514; 7889/1996 RV 205606.
In
altri termini, la tesi illustrata, pone il baricentro del criterio
distintivo fra i due reati, sul diverso modo di atteggiarsi della
condotta lesiva e sulla sua incidenza nella sfera soggettiva del
soggetto passivo: ricorre la truffa se il male viene ventilato come
possibile ed eventuale e comunque non proveniente direttamente o
indirettamente da chi lo prospetta in modo che l’offeso non è coartato
nella sua volontà, ma si determina alla prestazione, costituente
l’ingiusto profitto dell’agente, perché tratto in errore dalla
esposizione di un pericolo inesistente; mentre si configura l’estorsione
se il male viene indicato come certo e realizzabile ad opera del reo o
di altri, onde l’offeso è posto nella ineluttabile alternativa di far
conseguire all’agente il preteso profitto o di subire il male
minacciato.
Si tratta, quindi, di una tesi che, da una parte,
guarda alle modalità della condotta lesiva (nell’estorsione, il male
viene indicato come certo e realizzabile ad opera del reo o di altri;
nella truffa, il male viene ventilato come possibile ed eventuale e
comunque non proveniente direttamente o indirettamente da chi lo
prospetta), dall’altra, all’atteggiamento psicologico della vittima
(nell’estorsione, l’offeso è posto nella ineluttabile alternativa di far
conseguire all’agente il preteso profitto o di subire il male
minacciato; nella truffa, l’offeso non è coartato nella sua volontà, ma
si determina alla prestazione, costituente l’ingiusto profitto
dell’agente, perché tratto in errore dalla esposizione di un pericolo
inesistente).
Questa tesi, poi, comporta due corollari:
a) l’indagine va effettuata ex ante e cioè al momento della consumazione del reato;
b)
del sintagma “pericolo immaginario” è data un’interpretazione
restrittiva. Si è, infatti, affermato che “Il significato proprio
dell’aggettivo immaginario indica tutto ciò che è effetto
dell’immaginazione, ossia che esiste soltanto nell’immaginazione e non
ha alcun fondamento nella realtà. Di conseguenza, nell’estorsione
l’agente rappresenta un pericolo dato come reale e da lui dipendente;
nella truffa vessatoria l’agente crea un pericolo immaginario, costruito
come fatto a sé stante separato dalle determinazioni del truffatore,
tale che un comune discernimento potrebbe essere in grado di individuare
come non reale. In genere, ma non necessariamente, il pericolo
immaginario è correlato a forze occulte o a credenze superstiziose”:
Cass. 4180/2000 riv 215705 (in motivazione).
Sulla base di
questa interpretazione, pertanto, si è, sostenuto che “Integra il reato
di truffa aggravata il comportamento di colui che, sfruttando la fama di
mago, chiromante, occultista o guaritore, ingeneri nelle persone offese
la convinzione dell’esistenza di gravi pericoli gravanti su di esse o
sui loro familiari e, facendo loro credere di poter scongiurare i
prospettati pericoli con i rituali magici da lui praticati, le induca in
errore, così procurandosi l’ingiusto profitto consistente
nell’incameramento delle somme di denaro elargitegli con correlativo
danno per le medesime”: Cass. 5265/1996 riv 205106; Cass. 1862/2005 riv
233361; Cass. 1910/2004 riv 230694; Cass. 26107/2003 riv 225872; Cass.
42445/2012 riv 253647.
Al contrario, integra il reato di estorsione, a nulla rilevando che la minaccia, se credibile, non sia concretamente attuabile:

la richiesta di una somma di danaro per la restituzione di un motociclo
rubato formulata da un soggetto che aveva tratto in inganno il derubato
falsamente affermando di avere la disponibilità del mezzo: Cass.
7889/1996 riv 205606;
– il caso in cui l’agente, falsamente
qualificandosi come vigile urbano, si era fatto corrispondere una somma
di denaro dal proprietario di un immobile minacciando di sospendere
l’esecuzione dei lavori di ristrutturazione che ivi si svolgevano: Cass.
4180/2000 riv 215705;
– il caso in cui gli imputati si fecero
consegnare varie somme da due extracomunitari, con la minaccia di
sottoporli, simulando la qualità di agenti della P.S., a controlli
amministrativi e di verificare l’addotta provenienza delittuosa del
denaro posseduto dai predetti: Cass. 35346/2010 riv 248402;

la condotta di colui che con l’esibizione di un (falso) tesserino USL
costringa due ristoratori ad acquistare merce onde scongiurare future
ispezioni, in quanto il male ingiusto è prospettato tramite una minaccia
e non attraverso un inganno: Cass. 36906/2011 riv 251149.
2.2.
La seconda tesi, invece, giunge, in fattispecie simili, ad opposta
conclusione ritenendo che il criterio distintivo fra i due reati debba
essere di natura oggettiva in quanto ciò che rileva è solo il mezzo
utilizzato (ossia gli artifizi e raggiri) e non gli effetti che i
medesimi hanno sulla volontà della vittima.
Si è, infatti,
sostenuto che “mentre gli elementi caratterizzanti la condotta estorsiva
sono la violenza e la minaccia, quelli qualificanti il comportamento
truffaldino – anche nell’ipotesi aggravata della prospettazione del
“pericolo immaginario” – sono, pur sempre, gli artifizi e raggiri: in
quest’ultima ipotesi infatti la minaccia, poiché riguarda un male non
reale, ma immaginario, assume i contorni dell’inganno perché
contribuisce alla induzione in errore della parte offesa del reato
attraverso la prospettazione del falso pericolo”: nella specie, è stato
ritenuto configurabile il reato di truffa nel fatto di un soggetto che,
spacciandosi per ufficiale della guardia di finanza, aveva richiesto ed
ottenuto una somma di danaro per non procedere ad una verifica fiscale:
Cass. 8456/1995 riv 202347; Cass. 8974/1996 riv 206281 secondo la quale
il ventilato asporto dei beni mobili dall’abitazione prospettato da
soggetti falsamente qualificatisi come ufficiali giudiziari, in quanto
deve escludersi il carattere “immaginario” del male così minacciato,
risultando il predetto asporto consentito dalla normativa di cui agli
artt. 520 e 521 cod. proc. civ., i quali espressamente prevedono che ai
fini della conservazione delle cose pignorate l’ufficiale giudiziario
autorizza il custode a trasportarle altrove; Cass. 28390/2013 riv 256459
secondo la quale “integra gli estremi del delitto di truffa, e non di
estorsione, la condotta di chi, al fine di procurarsi un ingiusto
profitto, rappresenti falsamente alla vittima un pericolo immaginario
proveniente da terzi, in sé non ingiusto ma anzi astrattamente legittimo
(nella specie, la possibile revoca della pensione da parte dell’INPS ed
il mancato pagamento degli arretrati), e si offra di adoperarsi per
evitargli tale conseguenza in cambio di denaro”.
2.3. Questa Corte ritiene di aderire a quest’ultimo orientamento per le ragioni di seguito indicate.
Il punto di partenza non può che essere l’esegesi della norma.
Ora,
in ordine al significato da attribuire al sintagma “pericolo
immaginario”, si può pienamente concordare con quanto si è sostenuto
nella giurisprudenza di questa Corte e cioè che la nozione di “pericolo
immaginario” corrisponde a quella di “pericolo inesistente” (Cass.
8974/1996 cit.), ovvero a tutto ciò che è effetto dell’immaginazione,
ossia che esiste soltanto nell’immaginazione e non ha alcun fondamento
nella realtà (Cass. 4180/2000 cit.).
La norma, però, qui si
arresta e non dice – neppure per implicito -quello che le si vuoi far
dire e cioè che la configurabilità del reato dipende dall’atteggiamento
psicologico della vittima e che, per essere la truffa aggravata il danno
prospettato non deve mai provenire direttamente o indirettamente
dall’imputato.
In realtà, a ben vedere, questa concezione
soggettiva e psicologica, non solo urta contro la lapidaria ed asettica
formulazione della norma, ma anche contro la ratio legis ben evidenziata
dal Guardasigilli che, a fronte delle medesime obiezioni, si limitò a
rilevare che la differenza fra il reato di truffa aggravata e
l’estorsione consisteva in un dato puramente oggettivo e cioè “nell’uso
di artifici o raggiri, ossia a mezzi, che non realizzano una costrizione
della volontà ma una induzione in errore”.
In secondo luogo, è
proprio sul piano fattuale, che la tesi qui non condivisa, mostra tutti
i suoi limiti rendendo inafferrabile, in concreto, la differenza fra i
due reati.
Infatti, se è vero – come pure sostiene la tesi
contraria – che il “pericolo immaginario” è sia il pericolo
oggettivamente inesistente sia quello frutto della mera immaginazione, è
allora evidente che tale indagine non può essere effettuata ex ante
(ossia dal punto di vista della parte offesa nel momento in cui resta
vittima del reato) per la semplice ed ovvia ragione che, nel momento in
cui il reato si consuma, la vittima in tanto è indotta in errore in
quanto, per effetto di quella particolare forma di raggiro o artifizio
prevista dall’art. 640/2 n. 2 cod. pen., crede effettivamente e
realmente che l’agente (direttamente o indirettamente non importa) sia
in grado di realizzare il pericolo (immaginario) prospettatole perché,
se così non fosse (e cioè se si accorgesse che il pericolo è, appunto
“immaginario” o inesistente in quanto l’agente non è in grado di
realizzarlo), è chiaro che non cadrebbe nella rete truffaldina tesagli
dall’agente.
È evidente, allora, che l’indagine sul “pericolo
immaginario” va condotta ex post, sia perché non vi è motivo di
discostarsi dall’insegnamento tradizionale secondo il quale l’induzione
in errore va giudicata ex post (in terminis Cass. 26107/2003 riv 225872,
in motivazione), sia perché questo è il solo metodo che consente, in
modo oggettivo, di valutare se il fatto addebitato all’imputato sia
sussumibile nell’ambito della truffa aggravata ovvero dell’estorsione
secondo il tradizionale criterio distintivo dei raggiri o artifizi
(truffa) o della violenza o minaccia (estorsione).
In altri
termini, l’atteggiamento psicologico della vittima a fronte del
“pericolo immaginario” (che può essere indotto anche con minacce)
prospettato dall’agente, è identico sia che si tratti di estorsione che
di truffa aggravata proprio perché, per la vittima, la minaccia
prospettatagli dall’agente è come se fosse reale ed attuabile da parte
dello stesso agente direttamente o indirettamente: la volontà della
vittima, cioè, ove valutata ex ante, risulta sempre, per assioma,
coartata perché si trova di fronte ad una minaccia che egli crede seria
proprio perché, è perfettamente identica sia che si tratti di estorsione
che di truffa.
La vittima, invero, proprio a causa del
raggiro, pensa di trovarsi di fronte ad una richiesta estorsiva
essendole del tutto indifferente che il male minacciato (rectius: il
pericolo immaginario) sia attuabile dall’agente direttamente o
indirettamente: la truffa, infatti, consiste proprio nella simulazione,
da parte dell’agente, di un’estorsione.
Solo successivamente,
con valutazione ex post, invece, si può verificare se la minaccia era
immaginaria (inesistente) in quanto l’agente, né direttamente né
indirettamente, era in grado di realizzarla, ovvero, era reale perché
l’agente, ove la vittima non avesse ceduto alla richiesta minatoria, era
in grado – direttamente o indirettamente – di attuarla.
È
chiaro, poi, che seguendo l’avversa tesi, si finirebbe per svuotare, per
gran parte, il campo di applicazione dell’art. 640/2 n. 2 cod. pen.
che, in pratica, rimarrebbe confinato ai residuali casi in cui l’agente
(mago, fattucchiere e simili) prospetti mali immaginari dipendenti da
forze esterne ed occulte (quindi indipendenti dalla volontà dell’agente)
sulle quali egli, dietro compenso, può intervenire.
Ma la
norma non consente una tale soluzione per la semplice ragione che quel
tipo particolare di pericolo immaginario indotto da abili truffatori
(maghi, chiromanti et similia) è solo una delle modalità con le quali
può realizzarsi la truffa.
Non senza considerare che il
suddetto approdo ermeneutico, non appare coerente con la definizione che
quella stessa giurisprudenza ha dato del sintagma pericolo immaginario
ossia pericolo inesistente ovvero frutto dell’immaginazione, “in genere,
ma non necessariamente, correlato a forze occulte o a credenze
superstiziose”.
In conclusione, il problema interpretativo che
pone la norma in esame, può essere racchiuso nel seguente quesito:
l’agente dev’essere sanzionato per ciò che ha progettato e realizzato
(truffa) o per quello che appare alla vittima (estorsione)?
La
risposta, ad avviso di questa Corte, non può che essere nel senso del
primo corno del dilemma perché è l’unica interpretazione che appare
conforme al principio di legalità di cui all’art. 1 cod. pen. a norma
del quale l’agente va sanzionato per il reato che ha commesso (nella
specie: la truffa che simula un’estorsione) e non per quello che non ha
mai commesso né intendeva commettere ma che la parte offesa credeva
essere stato perpetrato nei propri confronti (l’estorsione) e di cui è
rimasta vittima.
Pertanto, nel caso di specie, il reato di
estorsione va riqualificato come truffa aggravata alla stregua del
seguente principio di diritto: “il criterio differenziale fra il delitto
di truffa aggravato dall’ingenerato timore di un pericolo immaginario e
quello di estorsione, risiede solo ed esclusivamente nell’elemento
oggettivo: si ha truffa aggravata quando il danno immaginario viene
indotto nella persona offesa tramite raggiri o artifizi; si ha
estorsione, invece, quando il danno è certo e sicuro ad opera del reo o
di altri ove la vittima non ceda alla richiesta minatoria.
La
vantazione circa la sussistenza del danno immaginario (e, quindi, del
reato di truffa aggravata) o del danno reale (e, quindi, del reato di
estorsione) va effettuata ex post e non ex ante essendo irrilevante ogni
valutazione in ordine alla provenienza del danno prospettato ovvero
allo stato soggettivo della persona offesa.
Pertanto, risponde
del reato di truffa aggravata e non di estorsione, chi, al fine di
procurarsi un ingiusto profitto, spacciandosi alla parte offesa come un
agente di polizia in borghese ed esibendo un falso distintivo, dopo
averla inseguita e fermata con la minaccia di elevare verbale di
contravvenzione per un importo di 1.300,00 Euro, lo induce a
consegnargli la minor somma di Euro 500,00”.
3. violazione
dell’art. 61 n. 5 cod. pen.: la censura è fondata in quanto, a fronte di
uno specifico motivo di appello (cfr pag. 10 ss dell’atto di appello)
la Corte ha omesso ogni motivazione.
4. violazione dell’art.
62 bis cod. pen. la censura deve ritenersi assorbita. Infatti, la Corte
territoriale, nel giudizio di rinvio, anche alla stregua della diversa
qualificazione giuridica del fatto, rivaluterà la richiesta di
concessione della suddetta attenuante.
5. In conclusione, la
sentenza impugnata va annullata limitatamente alla qualificazione
giuridica del fatto e alla sussistenza o meno dell’aggravante di cui
all’art. 61 n. 5 cod. pen.: resta ferma, invece, la penale
responsabilità per il reato di cui al capo sub b).
Di
conseguenza, in sede di rinvio, la Corte territoriale – valutata
nuovamente la richiesta di applicazione delle attenuanti generiche, e
verificata la configurabilità o meno dell’aggravante di cui all’art. 61
n. 5 cod. pen. – provvederà alla sola rideterminazione della pena per i
reati di cui agli artt. 640/2 n. 2 (capo sub a, così come riqualificato)
e 347 – 61 n. 2 cod. pen. (capo sub b) la cui penale responsabilità, in
capo al ricorrente, deve ritenersi definitivamente accertata.
P.Q.M.
Qualificato
il reato di cui al capo sub a) dell’imputazione come truffa aggravata
ex art. 640/2 n. 2 cod. pen. annulla la sentenza impugnata limitatamente
all’omessa motivazione sull’aggravante di cui all’art. 61 n. 5 cod.
pen. con rinvio ad altra sezione della Corte di Appello di Milano per
nuovo giudizio sul predetto punto e per la rideterminazione della pena
rigetta nel resto.

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