venerdì, Marzo 29, 2024
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LIBERTA’ DI STAMPA: Le fonti del giornalista sono inviolabili

 
Il difensore di M.A.M. ha proposto ricorso per cassazione avverso l\’ordinanza
del 22 dicembre 2010, non notificata all\’indagato, con la quale il Giudice per
le indagini preliminari del Tribunale di Trani rigettava la richiesta di
restituzione di supporti telefonici ed informatici, dei quali i pubblici
ministeri titolari delle indagini avevano in precedenza autorizzato la
restituzione previa, peraltro, la cancellazione dei dati in memoria. L\’ordinanza
del giudice preliminare, dopo aver sottolineato come qualsiasi diritto
costituzionalmente protetto, quale quello del libero esercizio della professione
di giornalista, che nella specie veniva dedotto dall\’istante, dovesse “cedere il
passo, in alcune circostanze, all\’immanente necessità di tutela della
collettività, compito che in primo luogo il diritto penale interno s\’incarica di
assolvere”, rilevava come il sequestro in questione non avesse natura meramente
“esplorativa” ma era stato operato sulla base di una specifica imputazione che
qualificava i beni sottoposti a sequestro probatorio come corpo di reato. Posto,
assumeva l\’ordinanza impugnata, che “in tema di sequestro probatorio non è
richiesta la dimostrazione, in relazione alle cose che costituiscono corpo di
reato, della necessità del sequestro in funzione dell\’accertamento dei fatti,
dal momento che l\’esigenza probatoria del corpus delieti è in re ipsa”, la
richiesta di restituzione veniva rigettata. L\’ordinanza impugnata, deduce il
ricorrente, oltre a porsi in contrasto con gli enunciati della Corte europea dei
diritti dell\’uomo in tema di tutela delle fonti giornalistiche e di cautele che
devono presiedere al sequestro di materiale posseduto dal giornalista,
risulterebbe in contrasto con i principi affermati da questa stessa Corte,
laddove non rispetta i limiti funzionali che il sequestro deve presentare
rispetto alle esigenze probatorie, visto l\’esaurimento delle indagini, ed in
particolare degli accertamenti tecnici, e la mancata configurazione di
specifiche finalizzazioni probatorie del vincolo reale mantenuto sulle “memorie”
dei supposti informatici e telefonici in sequestro. Le deduzioni del ricorrente
sono state, poi, diffusamente sviluppate in una documentata memoria, in replica
alla requisitoria del procuratore generale presso questa Corte, nella quale si è
fra l\’altro segnalato l\’epilogo di un recente ricorso proposto in riferimento
alla parallela questione riguardante altra persona.

 

 

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE II PENALE

Sentenza 9 – 29
dicembre 2011, n. 48587

Svolgimento del processo –
Motivi della decisione

Il difensore di M.A.M. ha proposto ricorso per cassazione avverso l\’ordinanza
del 22 dicembre 2010, non notificata all\’indagato, con la quale il Giudice per
le indagini preliminari del Tribunale di Trani rigettava la richiesta di
restituzione di supporti telefonici ed informatici, dei quali i pubblici
ministeri titolari delle indagini avevano in precedenza autorizzato la
restituzione previa, peraltro, la cancellazione dei dati in memoria. L\’ordinanza
del giudice preliminare, dopo aver sottolineato come qualsiasi diritto
costituzionalmente protetto, quale quello del libero esercizio della professione
di giornalista, che nella specie veniva dedotto dall\’istante, dovesse “cedere il
passo, in alcune circostanze, all\’immanente necessità di tutela della
collettività, compito che in primo luogo il diritto penale interno s\’incarica di
assolvere”, rilevava come il sequestro in questione non avesse natura meramente
“esplorativa” ma era stato operato sulla base di una specifica imputazione che
qualificava i beni sottoposti a sequestro probatorio come corpo di reato. Posto,
assumeva l\’ordinanza impugnata, che “in tema di sequestro probatorio non è
richiesta la dimostrazione, in relazione alle cose che costituiscono corpo di
reato, della necessità del sequestro in funzione dell\’accertamento dei fatti,
dal momento che l\’esigenza probatoria del corpus delieti è in re ipsa”, la
richiesta di restituzione veniva rigettata.

L\’ordinanza impugnata, deduce il ricorrente, oltre a porsi in contrasto con
gli enunciati della Corte europea dei diritti dell\’uomo in tema di tutela delle
fonti giornalistiche e di cautele che devono presiedere al sequestro di
materiale posseduto dal giornalista, risulterebbe in contrasto con i principi
affermati da questa stessa Corte, laddove non rispetta i limiti funzionali che
il sequestro deve presentare rispetto alle esigenze probatorie, visto
l\’esaurimento delle indagini, ed in particolare degli accertamenti tecnici, e la
mancata configurazione di specifiche finalizzazioni probatorie del vincolo reale
mantenuto sulle “memorie” dei supposti informatici e telefonici in sequestro. Le
deduzioni del ricorrente sono state, poi, diffusamente sviluppate in una
documentata memoria, in replica alla requisitoria del procuratore generale
presso questa Corte, nella quale si è fra l\’altro segnalato l\’epilogo di un
recente ricorso proposto in riferimento alla parallela questione riguardante
altra persona.

Il ricorso è fondato. Come ha puntualmente rammentato il ricorrente, la Corte
europea dei diritti dell\’uomo, chiamata a scrutinare la portata del principio
sancito dall\’art. 10, comma 1, della Convenzione, ha in più occasioni avuto modo
di sottolineare come la libertà d\’espressione costituisce uno dei fondamenti
essenziali di una società democratica e le garanzie da accordare alla stampa
rivestono una importanza particolare. A tal fine, il diritto del giornalista di
proteggere le proprie fonti fa parte della libertà di “ricevere o di comunicare
informazioni o idee senza ingerenza alcuna da parte delle autorità pubbliche”:
garanzia, questa, assicurata dall\’art. 10 della Convenzione e che costituisce un
presidio essenziale, al fine di consentire alla stampa di giocare il proprio
ruolo di “cane da guardia”. Da qui l\’assunto secondo il quale il provvedimento
di una autorità giudiziaria che dispone il sequestro di materiale posseduto da
un giornalista, che può condurre alla individuazione delle fonti alle quali il
reporter aveva garantito l\’anonimato, può costituire una violazione della
libertà di espressione garantita dalla Convenzione, anche perchè pregiudica la
futura attività del giornalista e del giornale la cui reputazione sarebbe lesa
anche agli occhi delle future fonti. Un provvedimento di tal genere, si è
affermato, non sarebbe compatibile con la Convenzione neanche nei casi in cui
l\’acquisizione di documenti possa condurre alla individuazione degli autori di
altri reati. Nel caso sottoposto al suo esame, la Corte ha rilevato che
qualsiasi ingerenza nel diritto alla tutela delle fonti giornalistiche e delle
informazioni atte a condurre alla loro identificazione, per non vulnerare la
Convenzione, in quanto “prevista dalla legge”, deve essere accompagnata da
garanzie proporzionate all\’importanza del principio in questione, ed in primo
luogo, dalla garanzia del controllo da parte di un organo terzo ed imparziale,
investito del potere di determinare se il requisito dell\’interesse pubblico,
prevalente sul principio della protezione delle fonti giornalistiche, possa
ritenersi sussistente prima della consegna del materiale pertinente, impedendo,
in caso contrario, ogni acceso non necessario ad informazioni idonee a rivelare
l\’identità delle fonti. (C.E.D.U., Grande Camera, sentenza del 14 settembre
2010, Sanoma Uitgevers B.V. contro Paesi Bassi e la numerosa giurisprudenza ivi
citata). Alla stregua di tali principi si comprende anche l\’assunto, posto in
luce dalla giurisprudenza di questa Corte, secondo il quale il sequestro
probatorio nei confronti di un giornalista professionista deve rispettare con
particolare rigore il criterio di proporzionalità tra il contenuto del
provvedimento ablativo di cui egli è destinatario e le esigenze di accertamento
dei fatti oggetto delle indagini, evitando quanto più è possibile indiscriminati
interventi invasivi nella sua sfera professionale (Cass., Sez. 6, 31 maggio
2007, Sarzanini; v. anche Cass., Sez. 1, 16 febbraio 2007, P.M. in proc.
Pomarici ed altri).

Tutto ciò sta dunque a significare che è compito del giudice procedere ad un
cauto ed al tempo stesso rigoroso bilanciamento fra le contrapposte esigenze,
rappresentate, da un lato, dal doveroso accertamento dei fatti e delle
responsabilità in presenza di accadimenti che integrino una ipotesi di reato; e
dall\’altro, dalla necessità, in ipotesi antagonista, di preservare il diritto
del giornalista a cautelare le proprie fonti, in vista dell\’espletamento della
funzione informativa, riguardata come uno dei pilastri fondamentali delle
libertà democratiche, secondo quello che – nella consolidata giurisprudenza
della CEDU – è stata ormai da tempo riassunta, come s\’è fatto cenno, nel noto
slogan di “cane da guardia” delle libertà stesse: tale essendo, appunto, il
compito della critica e della informazione giornalistica. D\’altra parte, i
limiti legali che devono preservare la legittimità degli atti di “interferenza”
che l\’autorità giudiziaria è abilitata ad esercitare rispetto a quei diritti,
risultano adeguatamente espressi dallo stesso tenore dell\’art. 200 c.p.p., comma
3, in base al quale il giudice può ordinare al giornalista di indicare la fonte
delle sue informazioni solo in presenza delle due condizioni previste dalla
legge, le quali – per quel che si è detto – introducendo previsioni derogatorie
rispetto ad un limite posto a salvaguardia di libertà fondamentali, devono
essere intese in senso rigoroso. Anzitutto occorre, infatti, che la rivelazione
della fonte sia indispensabile per la prova del reato per il quale si procede,
prendendo a riferimento fatti specifici in ordine ai quali si sviluppa
l\’attività di indagine, e non semplicemente riconducibili all\’astratto nomen
iuris; inoltre, è necessario che le notizie non possano essere altrimenti
accertate. Non basta, dunque, un semplice nesso di “pertinenzialità” tra le
notizie ed il generico tema dell\’indagine, così come per poter legittimare
l\’attività di “ingerenza” rispetto alle fonti, occorre che tale ingerenza
rappresenti la extrema ratio cui ricorrere per poter conseguire la prova
necessaria per perseguire il reato. E ciò, come è ovvio, proietta i suoi
riverberi – per ciò che qui interessa – non soltanto nella fase per così dire
genetica della attività di “ingerenza”, vale a dire al momento in cui deve
essere applicato un vicolo di natura reale su cose del giornalista dalle quali
possa risalirsi alla fonte cautelata; ma anche sotto il profilo “funzionale”
della cautela stessa: nel senso che, in tanto il sequestro può essere mantenuto,
in quanto lo stesso risulti indispensabile ai fini delle esigenze probatorie;
con gli ovvii corollari di specificità, che devono correlare il nesso tra la res
cautelata ed il soddisfacimento di quelle stesse esigenze.

Ebbene, nella vicenda in esame non emergono in alcun modo esigenze
investigative che impongano il mantenimento del sequestro probatorio, posto che
risultano essere stati da tempo disposti i relativi accertamenti tecnici e
considerato che di eventuali ulteriori “necessità” probatorie che abbiano una
qualche specificità, non soltanto non v\’è traccia negli atti trasmessi, ma di
esse – soprattutto – non è stato offerto alcun cenno nel provvedimento oggetto
di ricorso. Nella decisione oggetto di impugnazione, infatti, il Giudice si è
limitato a precisare che l\’esigenza probatoria risulterebbe, nella specie, in re
ipsa, in quanto oggetto del sequestro sarebbero cose riconducibili al concetto
di corpo del reato: dunque, secondo tale prospettiva, non restituibili durante
il procedimento, perchè “perennemente” funzionali a soddisfare il fine
probatorio. Si tratta, però, di un assunto palesemente erroneo, in quanto la
giurisprudenza di questa Corte è da tempo consolidata nell\’affermare l\’opposto
principio, secondo il quale anche per le cose che costituiscono il corpo di
reato è necessario che a base del sequestro e, come è ovvio, del relativo
mantenimento, siano in concreto ravvisabili esigenze di carattere probatorio e
che di esse venga dato conto attraverso una idonea motivazione, che non si
limiti a formule di stile (v., per tutte, Cass., Sez. un., 28 gennaio 2004, P.C.
Ferazzi in proc. Bevilacqua).

Alla stregua dei riferiti rilievi il provvedimento impugnato deve pertanto
essere annullato senza rinvio e deve essere disposta la restituzione di quanto
in sequestro all\’avente diritto.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio l\’ordinanza impugnata con conseguente cessazione del
provvedimento cautelare e restituzione di quanto in sequestro all\’avente
diritto. Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di cui all\’art. 626
c.p.p.

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