venerdì, Maggio 17, 2024
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CASO ABU OMAR E GEN.LE POLLARI: Intervento della Consulta



consulta

Caso Abu Omar: la Consulta bacchetta Cassazione e Corte d\’Appello di Milano


La
sentenza n. 24 pronunciata il 10 febbraio 2014 dalla Corte
Costituzionale trae origine dal noto caso del sequestro del cittadino
egiziano nonché Imam di Milano Abu Omar ad opera di diversi funzionari del SISMI, tra cui il Generale Nicolò Pollari.




Dato primario importante della sentenza è la disposizione con cui la Consulta “annulla nelle corrispondenti parti, la sentenza della Corte di Cassazione (n. 46340/12) e quella della Corte d\’Appello di Milano (n. 985/2013)”.

La
Corte Costituzionale nell\’esame della questione ha valutato,
obbligatoriamente, i fatti processuali del grado di appello e di
legittimità in quanto considerati necessari al fine della apprezzabilità
costituzionale del sollevato conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato promosso dal Presidente del Consiglio dei Ministri in merito alla
violazione degli artt. 1,5,52,94 e 95 della Cost. con riguardo agli
artt. 1, 39, 40 e 41 della legge n. 124/2007 in materia di informazione per la Sicurezza della Repubblica e disciplina del Segreto di Stato.

Emblematica
e significativa è la sentenza n. 24/2014 nella parte in cui la Corte
ammonisce la magistratura di legittimità allorquando dice chenon
spettava alla Corte di Cassazione reputare che il segreto fosse
limitato alle sole operazioni ufficiali dei Servizi e che pertanto non
si potesse ritenere estraneoall\’oggettodel
segreto il tema dei rapporti tra il Servizio italiano e la CIA e degli
interna corporis ove nonriconducibili ad attività regolarmente
approvate dai vertici dei Servizi”
e questo ben
spiega il successivo dispositivo della sentenza quando la Corte
ribadisce il concetto affermando la non spettanza della Cassazione
nell\’annullare “il proscioglimento degli imputati Pollari Nicolò,
Ciorra Giuseppe, Di Troia Raffaele, Di Gregori Luciano e Mancini Marco e
le relative ordinanze emesse con le quali la Corte d’appello di Milano
aveva ritenuto inutilizzabili le dichiarazioni rese dagli indagati nel
corso delle indagini preliminari, sul presupposto che il segreto di
Stato apposto in relazione alla vicenda del sequestro Abu Omar
concernerebbe solo i rapporti tra il Servizio italiano e la CIA, nonché
gli interna corporis che hanno tratto ad operazioni autorizzate dal
Servizio, e non anche al fatto storico del sequestro in questione”.

Tutto
questo fa evincere uno stretto collegamento con quanto fatto nel
secondo grado di merito dalla Corte d\’Appello di Milano. Difatti la
Consulta totalmente boccia il lavoro della Procura e bacchetta l\’assise
giudicante affermando in sentenza che ad essa “non spettava ammettere
la produzione, da parte della Procura generale della Repubblica presso
la medesima Corte, dei verbali relativi agli interrogatori resi nel
corso delle indagini da Mancini, Ciorra, Di Troia e Di Gregori; non
spettava omettere l’interpello del Presidente del Consiglio dei ministri
ai fini della conferma del segreto di Stato opposto dagli imputati”
ed in ultimo“affermare
la penale responsabilità degli imputati Pollari Nicolò, Di Troia
Raffaele, Ciorra Giuseppe, Mancini Marco e Di Gregori Luciano, in
ordine al fatto-reato costituito dal sequestro di Abu Omar, sul
presupposto che il segreto di Stato apposto dal Presidente del Consiglio
dei ministri, in relazione alla relativa vicenda, concernerebbe solo i
rapporti tra il Servizio italiano e la CIA, nonché gli interna
corporis che hanno tratto ad operazioni autorizzate dal Servizio e non
anche quelli che attengono comunque al fatto storico del sequestro in
questione”.

In merito al
mancato interpello del Presidente del Consiglio dei Ministri, la Corte
Costituzionale reputa la condotta della Corte d\’Appello di Milano come
assolutamente omissiva laddove non ha proceduto all\’accertamento dell\’esistenza del segreto di Stato.

È
chiara, pertanto, la posizione assunta dal giudice costituzionale nel
delegittimare l\’operato della magistratura penale, sia di legittimità
sia di appello, e le rispettive condanne a 10 anni di reclusione Nicolò Pollari e 9 anni il suo vice Mancini.

Prosegue
la Corte nella sentenza precisando che la responsabilità penale degli
imputati non può poggiare sull\’utilizzazione di verbali relativi agli
interrogatori resi dagli imputati stessi nel corso delle indagini
preliminari senza che si fosse dato corsoall\’interpellodel Presidente del Consiglio dei ministri ai fini della conferma delsegreto di Stato perché
“la disciplina sul segreto
di Stato involge il supremo interesse della sicurezza dello
Stato-comunità alla propria integrità ed alla propria indipendenza,
interesse che trova espressione nell\’art. 52 della Cost. in relazione
agli artt. 1 e 5 della stessa Carta
”.

Quest\’ultimo
passaggio della sentenza rende l\’idea di come la Corte Costituzionale
abbia ancora una volta confermato il proprio ruolo di garante e custode
giuridico-istituzionale.


Fonte: Caso Abu Omar: ecco perché la Consulta bacchetta Cassazione e Corte d\’Appello di Milano. In allegato il testo della sentenza
(www.StudioCataldi.it)

SENTENZA INTEGRALE

CORTE COSTITUZIONALE -SENTENZA N. 24ANNO 2014

composta
dai signori: Presidente: Gaetano SILVESTRI; Giudici : Luigi MAZZELLA,
Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe
FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI, Aldo
CAROSI, Marta CARTABIA, Sergio MATTARELLA, Mario Rosario MORELLI,
Giancarlo CORAGGIO,

ha pronunciato la seguente
SENTENZA

nei
giudizi per conflitti di attribuzione tra poteri dello Stato sorti a
seguito della sentenza della Corte di cassazione, quinta sezione penale,
del 19 settembre 2012, n. 46340, delle ordinanze della Corte d’appello
di Milano, quarta sezione penale, del 28 gennaio 2013 e del 4 febbraio
2013 e della sentenza della Corte d’appello di Milano, quarta sezione
penale, del 12 febbraio 2013, n. 985, promossi dal Presidente del
Consiglio dei ministri con ricorsi notificati il 24 aprile ed il 24
ottobre 2013, depositati in cancelleria il 9 maggio e il 31 ottobre 2013
ed iscritti ai numeri 4 e 8 del registro conflitti tra poteri dello
Stato 2013, fase di merito.
Udito nell’udienza pubblica del 14 gennaio 2014 il Giudice relatore Paolo Grossi;
uditi gli avvocati dello Stato Massimo Giannuzzi e Raffaele Tamiozzo per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1.
– Con ricorso depositato, per la fase di ammissibilità, l’11 febbraio
2013, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso
dalla Avvocatura generale dello Stato, ha proposto ricorso per conflitto
di attribuzione tra poteri dello Stato nei confronti della Corte di
cassazione in riferimento alla sentenza n. 46340 del 19 settembre 2012,
con la quale la quinta sezione penale della medesima Corte – in
accoglimento dei ricorsi proposti dal Procuratore generale presso la
Corte d’appello di Milano e, parzialmente, dalle parti civili – ha
annullato con rinvio la sentenza pronunciata dalla Corte d’appello di
Milano il 15 dicembre 2010, con la quale era stata confermata la
declaratoria di improcedibilità della azione penale, ai sensi dell’art.
202 del codice di procedura penale, nei confronti di Pollari Nicolò, Di
Troia Raffaele, Ciorra Giuseppe, Mancini Marco e Di Gregori Luciano. La
sentenza della Corte di cassazione viene censurata anche nella parte in
cui – puntualizza il ricorso – aveva annullato «le ordinanze del 22 e 26
ottobre 2010, con cui la Corte d’appello di Milano aveva ritenuto
l’inutilizzabilità delle dichiarazioni rese dagli allora indagati
Ciorra, Di Troia, Di Gregori e Mancini nel corso degli interrogatori cui
erano stati sottoposti nella fase delle indagini preliminari».
Il
ricorso viene proposto anche contro la Corte d’appello di Milano, quale
giudice di rinvio, in riferimento, anzitutto, alla ordinanza emessa il
28 gennaio 2013, con la quale è stata accolta la richiesta di produzione
dei verbali degli interrogatori resi dai predetti imputati, avanzata
dalla locale Procura generale, in ossequio alla sentenza della Corte di
cassazione di cui si è detto, ammettendo altresì la produzione, da parte
della difesa dell’imputato Mancini, della nota dell’Agenzia
informazioni e sicurezza esterna (AISE) del 25 gennaio 2013, prot. n.
15631/2.24/GG.02, recante la comunicazione al predetto imputato del
contenuto della nota del Dipartimento informazioni della sicurezza
(DIS). In tale nota – sottolinea il ricorrente –, il DIS aveva
rappresentato che il Presidente del Consiglio dei ministri aveva
rilevato «la perdurante vigenza del segreto di Stato, così come apposto,
opposto e confermato nel corso del procedimento penale avente ad
oggetto il fatto storico del sequestro di Abu Omar dai Presidenti del
Consiglio dei ministri pro tempore, su tutti gli aspetti attinenti a
qualsiasi rapporto intercorso tra Servizi di intelligence nazionali e
stranieri, ancorché in qualche modo collegati o collegabili con il fatto
storico costituito dal sequestro in questione, nonché agli interna
corporis, intesi quali modalità organizzative ed operative».
Rievocate
le articolate vicende che avevano contrassegnato l’iter del
procedimento penale, il ricorrente osserva come tanto la sentenza della
Corte di cassazione quanto l’ordinanza pronunciata dalla Corte d’appello
di Milano, quale giudice di rinvio, il 28 gennaio 2013 (nella parte in
cui ha ammesso la produzione degli atti di cui era stata disposta la
restituzione al Procuratore generale da parte della stessa Corte con le
ordinanze del 22 e 26 ottobre 2010) nonché l’ordinanza con cui, il 4
febbraio 2013, la medesima Corte territoriale ha omesso di procedere
all’interpello del Presidente del Consiglio dei ministri ai fini della
conferma del segreto di Stato opposto dagli imputati, a norma dell’art.
41 della legge 3 agosto 2007, n. 124 (Sistema di informazione per la
sicurezza della Repubblica e nuova disciplina del segreto),
risulterebbero «gravemente lesive delle attribuzioni del Presidente del
Consiglio dei ministri, quale autorità preposta all’apposizione, alla
tutela ed alla conferma del segreto di Stato, ai sensi dell’art. 1,
comma 1, lettere b) e c) della legge n. 124/2007».
Da qui il
ricorso per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato proposto
per violazione degli artt. 1, 5, 52, 94 e 95 della Costituzione e con
riguardo agli artt. 1, comma 1, lettere b) e c), 39, 40 (sostitutivo
dell’art. 202 cod. proc. pen.) e 41 della richiamata legge n. 124 del
2007.
In punto di ammissibilità, il ricorrente rievoca la
giurisprudenza della Corte costituzionale in tema di legittimazione
attiva del Presidente del Consiglio dei ministri, mentre, quanto alla
legittimazione delle altre parti del conflitto – certamente competenti a
manifestare in via definitiva la volontà del potere cui appartengono –,
si sottolinea la funzione costituzionale della Corte di cassazione come
organo di ultima istanza cui è deputato il controllo della legittimità
delle sentenze e dei provvedimenti in materia di libertà personale, e la
competenza della Corte d’appello ad adottare provvedimenti istruttori
destinati a diventare definitivi.
Quanto alla ammissibilità
del ricorso sotto il profilo oggettivo, si rivendica il ruolo del
Presidente del Consiglio dei ministri in tema di sicurezza dello Stato –
nella specie concretizzatosi nella apposizione del segreto di Stato e
nella conferma di esso con riferimento ai rapporti tra i Servizi
italiani e la Central intelligence agency (CIA) nonché agli interna
corporis del Servizio, anche in ordine al fatto storico del sequestro di
Nasr Osama Mustafà, alias Abu Omar – che nella specie sarebbe stato
leso dai provvedimenti giurisdizionali oggetto di censura.
Nel
merito, si osserva come, a far tempo dalla sentenza n. 86 del 1977, la
Corte costituzionale, nell’evidenziare il livello supremo dei valori
tutelabili con il presidio del segreto di Stato, ha individuato nel
Presidente del Consiglio dei ministri il titolare del potere, di natura
squisitamente politica, di segretazione: la strumentalità di tale potere
alla salvaguardia dei valori supremi per la salus rei publicae
giustifica, poi, la «non segretabilità dei fatti eversivi dell’ordine
costituzionale». Di ciò è espressione la legge n. 124 del 2007 che,
all’art. 1, attribuisce appunto al Presidente del Consiglio dei ministri
la responsabilità generale della politica della informazione per la
sicurezza ed il compito di apporre e tutelare il segreto di Stato e di
confermarne la opposizione. Il ricorrente puntualizza, poi, il contenuto
degli artt. 39, 40 e 41 della stessa legge, segnalandone i profili di
rilevanza agli effetti dell’oggetto del ricorso.
Ebbene, alla
luce del richiamato quadro normativo, la Corte di cassazione, mentre
afferma correttamente – secondo quanto precisato dalla Corte
costituzionale nella sentenza n. 106 del 2009 – che il segreto di Stato è
stato apposto su documenti e notizie riguardanti i rapporti tra Servizi
italiani e stranieri e sugli interna corporis, anche se relativi alla
vicenda delle renditions e del sequestro di Abu Omar, erra nel ritenere
che il segreto sia limitato ai rapporti tra Servizi che si siano
estrinsecati nella realizzazione di operazioni comuni, dal momento che
una simile conclusione non può fondarsi sulla circostanza – risultante
da una nota dell’11 novembre 2005 – della assoluta estraneità del
Governo italiano e del Servizio al sequestro di Abu Omar. Sarebbe dunque
arbitrario circoscrivere il segreto alle sole operazioni cogestite dai
Servizi e legittimamente approvate dai vertici dei Servizi italiani, con
conseguente lesione della sfera delle attribuzioni spettanti in materia
al Presidente del Consiglio dei ministri, in particolare per ciò che
attiene alla determinazione in concreto dell’ambito di operatività del
segreto di Stato.
Risulterebbe a sua volta lesivo di tali
prerogative, ancorché sotto altro profilo, anche l’annullamento delle
statuizioni con cui la Corte d’appello di Milano aveva dichiarato
l’improcedibilità dell’azione penale esercitata nei confronti degli
imputati italiani che avevano opposto il segreto di Stato, nonché delle
ordinanze del 22 e 26 ottobre 2010, con le quali la medesima Corte
d’appello aveva ritenuto inutilizzabili le dichiarazioni rese, quali
indagati, da Mancini, Ciorra, Di Troia e Di Gregori, malgrado il segreto
di Stato da loro opposto fosse stato confermato; annullamento cui ha
fatto seguito, da parte del giudice del rinvio, la pronuncia della
ordinanza del 28 gennaio 2013, con la quale è stata ammessa la
produzione di tali dichiarazioni. Ciò avrebbe determinato la arbitraria
esclusione della operatività del segreto in ordine ai rapporti tra
Servizio italiano e CIA e in merito alle direttive impartite dal
direttore del SISMI circa il fatto storico del sequestro di Abu Omar,
dal momento che era precluso per l’autorità giudiziaria utilizzare,
anche indirettamente, le notizie coperte dal segreto. Non sarebbe
corretta l’affermazione – contenuta nella richiamata ordinanza del 28
gennaio 2013 – secondo la quale la restituzione dei verbali degli
interrogatori resi nel corso delle indagini sarebbe stata disposta in
quanto irrilevanti ai fini del decidere: ciò riguarderebbe, infatti, le
sole circostanze che nel caso specifico non fossero coperte da segreto
di Stato, nei termini innanzi detti e ricostruiti dalla sentenza della
Corte costituzionale n. 106 del 2009, la cui vigenza – ribadita dal
Presidente del Consiglio dei ministri in sede di interpello formulato
dal Giudice della udienza preliminare – è stata da ultimo riaffermata
dalla nota AISE prodotta dalla difesa di Mancini nel corso della udienza
del 28 gennaio 2013.
La sentenza della Corte di cassazione –
puntualizza ancora il ricorrente – sarebbe censurabile anche nella parte
in cui afferma la tardività dell’apposizione del segreto agli atti ed
ai documenti acquisiti in riferimento al sequestro di Abu Omar, essendo
una simile affermazione in contrasto con la citata sentenza n. 106 del
2009. La Cassazione, infatti, avrebbe stravolto il significato di tale
ultima pronuncia, nel senso che, avendo i soggetti tenuti alla
opposizione del segreto formulato tale opposizione solo successivamente
alla acquisizione dei documenti da parte della autorità giudiziaria, gli
atti, essendo stati legittimamente acquisiti, non sarebbero
inutilizzabili, ma comporterebbero l’uso di cautele atte ad impedire la
divulgazione del segreto. La Corte costituzionale, infatti, pur avendo
negato la portata di una retroattiva demolizione della attività di
indagine, aveva puntualizzato come l’opposizione del segreto successiva
alla acquisizione non fosse una evenienza processualmente indifferente:
tanto che si dichiarò che non spettava alla autorità procedente porre i
documenti non “omissati” a fondamento della richiesta di rinvio a
giudizio e del decreto che dispone il giudizio. Ciò risulterebbe anche
da altro passo della sentenza della Corte costituzionale n. 106 del
2009, ove si è puntualizzato come anche la legittima acquisizione di
elementi di prova – nella specie riferita alle intercettazioni
telefoniche disposte “a tappeto” su utenze intestate al SISMI – non
escludesse la necessità di non utilizzare quegli elementi che dovessero
risultare coperti dal segreto, posto che questo funge da «sbarramento al
potere giurisdizionale, nel senso di “inibire all’Autorità giudiziaria
di acquisire e conseguentemente di utilizzare gli elementi di conoscenza
e di prova coperti dal segreto”».
Da qui lo iato tra la
sentenza della Corte di cassazione ed i princípi affermati dalla Corte
costituzionale, con conseguente lesione delle prerogative del
ricorrente, «mantenendo all’interno del circuito divulgativo del
processo documenti in relazione ai quali era stato opposto e confermato
il segreto di Stato».
La sentenza della Corte di cassazione
sarebbe censurabile anche laddove ha limitato l’inutilizzabilità delle
testimonianze, delle dichiarazioni e degli altri elementi di prova sugli
interna corporis, facendo salva la utilizzabilità di quegli elementi in
relazione alle condotte poste in essere a titolo individuale dagli
agenti del Servizio, al di fuori di operazioni riconducibili al SISMI.
Ciò risponde, infatti, alla già confutata tesi secondo la quale il
segreto avrebbe coperto soltanto le operazioni approvate dal Servizio.
Da
tutto ciò, la lesione delle prerogative del ricorrente, anche in
relazione alla ordinanza del 28 gennaio 2013, con la quale la Corte
d’appello aveva accolto, proprio in ossequio alla sentenza della Corte
di cassazione, la produzione dei verbali di interrogatorio degli
indagati già menzionati, trattandosi di fonti di prova certamente
coperte da segreto di Stato. Lesione che si lamenta anche in relazione
alla ordinanza del 4 febbraio 2013, con la quale la Corte milanese ha
omesso di chiedere la conferma del segreto di Stato, opposto dagli
imputati, senza conseguentemente sospendere ogni iniziativa volta ad
acquisire la notizia oggetto di segreto, consentendo così al Procuratore
generale di svolgere la propria requisitoria, ripresa dagli organi di
informazione, utilizzando ampiamente le fonti di prova coperte dal
segreto di Stato.
Conclusivamente, viene formulata istanza di
sospensione della sentenza della Corte di cassazione e del giudizio di
rinvio, al fine di non aggravare la lesione delle attribuzioni
costituzionali del Presidente del Consiglio dei ministri.
Il ricorrente chiede, dunque, dichiararsi che:
a)
non spettava alla Corte di cassazione annullare i proscioglimenti degli
imputati Pollari, Ciorra, Di Troia, Di Gregori e Mancini nonché le
ordinanze del 22 e 26 ottobre 2010, con le quali la Corte d’appello di
Milano aveva ritenuto l’inutilizzabilità delle dichiarazioni rese dagli
indagati nel corso delle indagini preliminari, sul presupposto che il
segreto di Stato apposto in relazione alla vicenda del sequestro di Abu
Omar concernerebbe solo i rapporti tra Servizio italiano e CIA, nonché
gli interna corporis che hanno tratto ad operazioni autorizzate dal
Servizio, e non anche quelli che attengono comunque al fatto storico del
sequestro in questione, e che sarebbe tutt’ora utilizzabile la
documentazione legittimamente acquisita dall’autorità giudiziaria nel
corso del procedimento avente ad oggetto il sequestro in questione,
sulla quale era stato successivamente opposto il segreto di Stato;
b)
non spettava alla Corte d’appello di Milano né ammettere la produzione,
da parte della Procura generale, dei verbali relativi agli
interrogatori resi nel corso delle indagini da Mancini, Ciorra, Di Troia
e Di Gregori – atti dei quali era stata disposta la restituzione al
Procuratore generale da parte della stessa Corte d’appello con ordinanze
del 22 e 26 ottobre 2010 – né omettere l’interpello del Presidente del
Consiglio dei ministri ai fini della conferma del segreto di Stato
opposto dagli imputati Pollari, Mancini, Ciorra, Di Troia e Di Gregori
nel corso della udienza del 4 febbraio 2013, invitando il Procuratore
generale a concludere, consentendogli in tal modo di svolgere la sua
requisitoria utilizzando fonti di prova coperte dal segreto di Stato.
Correlativamente,
si domanda l’annullamento, in parte qua, previa sospensione della
relativa efficacia, della sentenza della Corte di cassazione n. 46340
del 2012, nonché, previa sospensione della relativa efficacia, delle
ordinanze pronunciate dalla Corte d’appello di Milano in data 28 gennaio
2013 e 4 febbraio 2013, in riferimento ai profili e per le parti
innanzi indicate.
1.1.– Il ricorso è stato dichiarato
ammissibile con l’ordinanza n. 69 del 2013 e poi nuovamente depositato
presso la cancelleria di questa Corte, dopo le rituali notifiche, il 9
maggio 2013.
2.– Con ricorso depositato, per la fase di
ammissibilità, il 3 luglio 2013, il Presidente del Consiglio dei
ministri, rappresentato e difeso dalla Avvocatura generale dello Stato,
ha proposto conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato nei
confronti della Corte d’appello di Milano, in persona del Presidente pro
tempore, in riferimento alla sentenza n. 985 del 12 febbraio 2013, con
la quale la medesima Corte (nel processo penale a carico di Pollari
Nicolò, Di Troia Raffaele, Ciorra Giuseppe, Mancini Marco e Di Gregori
Luciano, per sequestro di persona in danno di Abu Omar), pur resa edotta
dell’intervenuto deposito in data 11 febbraio 2013 di un ricorso per
conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, ha affermato la
responsabilità di detti imputati, non ravvisando la sussistenza di una
causa di sospensione del processo in corso.
Rievocate le
articolate vicende che hanno contrassegnato l’iter del procedimento
penale in esame, il ricorrente osserva che anche la sentenza della Corte
d’appello di Milano risulterebbe «gravemente lesiva delle attribuzioni
del Presidente del Consiglio dei ministri, quale autorità preposta
all’opposizione, alla tutela ed alla conferma del segreto di Stato, ai
sensi dell’art. 1, comma 1, lettere b) e c) della legge n. 124/2007»;
per cui risulterebbero violati gli artt. 1, 5, 52, 94 e 95 Cost., in
riferimento agli artt. 1, comma 1, lettere b) e c), 39, 40 (sostitutivo
dell’art. 202 cod. proc. pen.) e 41 della richiamata legge n. 124 del
2007.
In punto di ammissibilità, il ricorrente – richiamata la
giurisprudenza della Corte costituzionale in tema di legittimazione
attiva e passiva –, quanto alla sussistenza del requisito oggettivo del
conflitto, rivendica le prerogative del Presidente del Consiglio dei
ministri in tema di sicurezza dello Stato – nella specie concretizzatesi
nella apposizione del segreto di Stato e nella conferma di esso con
riferimento ai rapporti tra i Servizi italiani e la CIA nonché agli
interna corporis del Servizio, anche in ordine al fatto storico del
sequestro di Abu Omar – che sarebbero state lese dai provvedimenti
giurisdizionali impugnati.
Nel merito, il ricorrente –
rilevato come da molto tempo la giurisprudenza costituzionale abbia
evidenziato il livello supremo dei valori tutelabili col presidio del
segreto di Stato, individuando nel Presidente del Consiglio dei ministri
il titolare del potere di segretazione, di natura squisitamente
politica – ha osservato come a questo orientamento si conformi la
ricordata legge n. 124 del 2007, dei cui articoli 39, 40 e 41 segnala i
profili di rilevanza agli effetti del thema decidendum.
Secondo
il Presidente del Consiglio la sentenza impugnata con il presente
ricorso è affetta da illegittimità derivata, in primo luogo in quanto ha
applicato alla fattispecie concreta i criteri seguiti dalla Corte di
cassazione nella sentenza del 19 febbraio 2012, impugnata con il già
menzionato ricorso per conflitto di attribuzione, depositato l’11
febbraio 2013 (ammesso da questa Corte con ordinanza n. 69 del 2013).
Alla
luce del richiamato quadro normativo, la Corte di cassazione avrebbe
correttamente affermato che il segreto di Stato è stato apposto su
documenti e notizie riguardanti i rapporti tra Servizi italiani e
stranieri e sugli interna corporis, anche se relativi alla vicenda delle
renditions e del sequestro di Abu Omar; e avrebbe, invece, errato nel
ritenere il segreto limitato ai rapporti tra Servizi, tendenti alla
realizzazione di operazioni comuni. Proprio questo, infatti, sarebbe
all’origine della lesione della sfera delle attribuzioni spettanti al
Presidente del Consiglio dei ministri, in particolare per ciò che
attiene alla determinazione del concreto ambito di operatività del
segreto.
Si ribadisce altresì che risulterebbe, a sua volta,
lesivo di tali prerogative, ancorché sotto altro profilo, anche
l’annullamento delle statuizioni con cui la Corte d’appello di Milano
aveva dichiarato l’improcedibilità dell’azione penale esercitata nei
confronti degli imputati italiani che avevano opposto il segreto di
Stato, nonché delle ordinanze del 22 e 26 ottobre 2010, con le quali la
medesima Corte d’appello aveva ritenuto inutilizzabili le dichiarazioni
rese, quali indagati, da Mancini, Ciorra, Di Troia e Di Gregori,
malgrado il segreto di Stato da loro opposto fosse stato confermato;
annullamento cui ha fatto seguito, da parte del giudice del rinvio, la
pronuncia della ordinanza del 28 gennaio 2013, con la quale è stata
ammessa la produzione di tali dichiarazioni. Risulterebbero, infatti,
così, esclusi dall’operatività del segreto i rapporti tra Servizio
italiano e CIA e le direttive impartite dal direttore del SISMI circa il
fatto storico del sequestro di Abu Omar, essendo precluso all’autorità
giudiziaria utilizzare, anche indirettamente, le notizie coperte dal
segreto. Né sarebbe corretta l’affermazione secondo cui la restituzione
dei verbali degli interrogatori resi nel corso delle indagini sarebbe
stata disposta sul presupposto che questi fossero irrilevanti ai fini
del decidere: ciò riguarderebbe, infatti, soltanto le circostanze, nel
caso specifico, non coperte dal segreto di Stato, nei termini innanzi
detti.
La sentenza impugnata sarebbe inoltre censurabile nella
parte in cui riafferma (in conformità a quanto statuito dalla Corte di
cassazione) la tardività della apposizione del segreto di Stato agli
atti ed ai documenti acquisiti in riferimento al sequestro di Abu Omar,
essendo una simile affermazione in contrasto con la sentenza n. 106 del
2009. La Cassazione, infatti, avrebbe stravolto il significato della
pronuncia della Corte costituzionale, nel senso che, avendo i soggetti
tenuti alla opposizione del segreto formulato tale opposizione solo
successivamente alla acquisizione dei documenti da parte della autorità
giudiziaria, gli atti, essendo stati legittimamente acquisiti, non
sarebbero inutilizzabili, ma comporterebbero l’uso di cautele atte ad
impedire la divulgazione del segreto. In realtà la Corte costituzionale,
pur avendo negato la portata di una retroattiva demolizione della
attività di indagine, aveva puntualizzato come l’opposizione del segreto
successiva alla acquisizione non fosse una evenienza processualmente
indifferente. Su questa base, del resto, si affermò che il segreto funge
da «sbarramento al potere giurisdizionale, nel senso di “inibire
all’Autorità giudiziaria di acquisire e conseguentemente utilizzare gli
elementi di conoscenza e di prova coperti dal segreto”».
Sarebbe
altresì censurabile la decisione impugnata là dove ha limitato
l’inutilizzabilità delle testimonianze, delle dichiarazioni e degli
altri elementi di prova sugli interna corporis, facendo salva la
utilizzabilità di quegli elementi in relazione alle condotte poste in
essere a titolo individuale dagli agenti del Servizio, al di fuori di
operazioni riconducibili al SISMI, giacché ciò risponderebbe alla già
confutata tesi secondo la quale il segreto avrebbe coperto soltanto le
operazioni approvate dal Servizio.
La sentenza, ancora,
sarebbe viziata per effetto della illegittimità della ricordata
ordinanza del 28 gennaio 2013 e parimenti lesiva risulterebbe
l’ordinanza del 4 febbraio 2013, con la quale la Corte milanese ha
omesso di chiedere la conferma del segreto di Stato, opposto dagli
imputati, consentendo di utilizzare ampiamente le fonti di prova coperte
dal segreto di Stato.
Infine, il ricorrente lamenta la
violazione del principio di leale collaborazione tra poteri dello Stato
(al quale non sfugge neppure l’ordine giudiziario: sentenze n. 87 del
2012, n. 149 del 2007, n. 110 del 1998 e n. 403 del 1994), in cui
sarebbe incorsa la Corte d’appello di Milano, per avere omesso di
sospendere il procedimento penale in corso di celebrazione, in attesa
della decisione del ricorso per conflitto di attribuzione tra poteri
dello Stato, del cui deposito presso la cancelleria della Corte
costituzionale, la Corte d’appello era stata informata dall’Avvocatura
dello Stato il giorno prima della emissione della sentenza impugnata.
Viene,
altresì, formulata istanza di sospensione della impugnata sentenza
della Corte d’appello di Milano, al fine di non aggravare la lesione
delle attribuzioni costituzionali del Presidente del Consiglio dei
ministri.
Il ricorrente chiede, dunque, dichiararsi che:
a)
non spettava alla Corte d’appello di Milano affermare la penale
responsabilità degli imputati del fatto-reato costituito dal sequestro
di Abu Omar, sul presupposto che il segreto di Stato apposto dal
Presidente del Consiglio dei ministri, in relazione alla vicenda del
sequestro di Abu Ornar, concernerebbe solo i rapporti tra Servizio
italiano e CIA, nonché gli interna corporis che hanno tratto ad
operazioni autorizzate dal Servizio, e non anche quelli che attengono
comunque al fatto storico del sequestro in questione, e che sarebbe
tuttora utilizzabile la documentazione legittimamente acquisita
dall’autorità giudiziaria, nel corso del relativo procedimento, sulla
quale era stato successivamente apposto il segreto di Stato, nonché
tutti gli elementi di prova ritenuti coperti dal segreto di Stato dalla
Corte costituzionale, con la sentenza n. 106 del 2009;
b) non
spettava alla Corte d’appello di Milano emettere la sentenza impugnata
in questa sede sulla base dell’utilizzazione dei verbali relativi agli
interrogatori resi dagli allora indagati nel corso delle indagini
preliminari Mancini, Ciorra, Di Troia e Di Gregori – di cui era stata
disposta la restituzione al Procuratore generale da parte della stessa
Corte d’appello con ordinanze del 22 e 26 ottobre 2010 – senza che si
sia dato corso all’interpello del Presidente del Consiglio dei ministri
ai fini della conferma del segreto di Stato opposto dagli imputati
Pollari, Mancini, Ciorra, Di Troia e Di Gregori nel corso dell’udienza
del 4 febbraio 2013, essendosi invitato il Procuratore generale a
concludere, in modo tale da consentirgli di svolgere la sua requisitoria
utilizzando fonti di prova coperte dal segreto di Stato;
c)
non spettava alla Corte d’appello di Milano emettere la sentenza
impugnata in questa sede, senza aver sospeso il processo penale in
questione fino alla definizione del giudizio sul conflitto di
attribuzione.
Chiede altresì che si annulli – previa
sospensione dell’efficacia della sentenza n. 985 del 2013 della Corte
d’appello di Milano e conseguente sospensione del processo penale
attualmente pendente dinanzi alla Corte di cassazione – la predetta
sentenza della Corte ambrosiana.
2.1. – Il ricorso è stato
dichiarato ammissibile con l’ordinanza n. 244 del 2013 e poi nuovamente
depositato presso la cancelleria di questa Corte, dopo la rituale
notifica, il 31 ottobre 2013.
2.2.– La Corte di cassazione e la Corte d’appello di Milano non si sono costituite in giudizio.

Considerato in diritto

1.–
I ricorsi proposti dal Presidente del Consiglio dei ministri – la cui
ammissibilità va preliminarmente confermata –, ancorché indirizzati
contro distinti atti giurisdizionali – assunti come lesivi delle
prerogative costituzionali del ricorrente in tema di esercizio delle
attribuzioni relative al segreto di Stato e alla determinazione in
concreto del relativo ambito di operatività – presentano un nucleo
comune, riguardando entrambi la stessa vicenda processuale e fondandosi
su censure in larga parte convergenti.
Tenuto conto dei
profili di evidente connessione soggettiva ed oggettiva, appare
necessario procedere alla trattazione congiunta dei relativi giudizi:
gli stessi vanno pertanto riuniti per essere definiti con un’unica
pronuncia.
2.– A proposito della sentenza pronunciata dalla
Corte di cassazione il 19 settembre 2012, il ricorrente reputa essersi
realizzata – attraverso la pronuncia di annullamento con rinvio delle
statuizioni di proscioglimento adottate dai giudici di entrambi i gradi
di merito, che avevano, al contrario, riconosciuto l’esistenza di una
preclusione processuale derivante dal vincolo del segreto, secondo le
puntualizzazioni offerte, nell’ambito dello stesso procedimento, dalla
sentenza di questa Corte n. 106 del 2009 – una menomazione del munus
spettante al Presidente del Consiglio dei ministri in tema di segreto di
Stato, sotto più profili ed in rapporto a diversi punti del decisum.
Sarebbe
infatti anzitutto arbitrario, e dunque invasivo delle prerogative del
ricorrente, l’assunto – centrale agli effetti della decisione
rescindente – secondo il quale il vincolo del segreto dovrebbe
intendersi circoscritto alle sole operazioni che avessero coinvolto
ufficialmente i Servizi nazionali e stranieri, legittimamente approvate
dai vertici dei Servizi italiani: una simile affermazione – fondata
esclusivamente su una nota dell’11 novembre 2005, con la quale era stata
affermata la assoluta estraneità del Governo italiano e del Servizio al
sequestro di Abu Omar – finirebbe per incidere direttamente sul potere
di determinazione di quale fosse il reale àmbito dei fatti e delle
notizie coperte dal segreto, da parte di un organo diverso da quello cui
è riservato detto cómpito.
Strettamente collegata a tale
rivendicazione è quella che deduce il medesimo vulnus anche in
riferimento all’annullamento della sentenza pronunciata dalla Corte
d’appello di Milano il 15 dicembre 2010 (con la quale era stata
confermata la declaratoria di improcedibilità della azione penale nei
confronti degli imputati italiani che avevano opposto il segreto di
Stato), nonché delle ordinanze pronunciate il 22 e 26 ottobre 2010,
nelle quali la medesima Corte territoriale aveva ritenuto inutilizzabili
le dichiarazioni rese nel corso delle indagini preliminari da Mancini,
Ciorra, Di Troia e Di Gregori.
Considerato, dunque – assume il
ricorrente – che non spettava alla Corte di cassazione reputare che il
segreto fosse limitato alle sole operazioni ufficiali dei Servizi, e che
pertanto non si potesse ritenere estraneo all’oggetto del segreto il
tema dei rapporti tra il Servizio italiano e la CIA e degli interna
corporis ove non riconducibili ad attività regolarmente approvate dai
vertici dei Servizi, risulterebbe illegittima la decisione anche nella
parte in cui ha limitato la inutilizzabilità delle testimonianze e delle
altre acquisizioni in merito agli interna corporis, affermando la
utilizzabilità processuale di quegli elementi in relazione alle condotte
poste in essere a titolo individuale, in quanto realizzate senza
l’approvazione del SISMI.
Sarebbe per tale ragione lesiva
delle prerogative del ricorrente anche l’ordinanza pronunciata, in sede
di giudizio di rinvio, dalla Corte d’appello di Milano il 28 gennaio
2013, con la quale – aderendo ai dicta della Corte di cassazione – era
stata accolta la produzione dei verbali di interrogatorio resi nel corso
delle indagini dagli imputati di cui si è detto, trattandosi di fonti
certamente coperte dal segreto.
Detta lesione viene denunciata
anche in riferimento alla ordinanza del 4 febbraio 2013, con la quale
la Corte milanese aveva omesso di chiedere la conferma del segreto di
Stato opposto dagli imputati, senza sospendere ogni attività volta ad
acquisire la notizia oggetto di segreto, permettendo così la
discussione, diffusa dagli organi di informazione, nel corso della quale
il Procuratore generale ampiamente utilizzava fonti di prova coperte
dal segreto di Stato.
Si ritiene infine menomativo delle
attribuzioni del ricorrente anche l’assunto secondo il quale la sentenza
n. 106 del 2009 di questa Corte andrebbe interpretata nel senso che non
era inibita la utilizzazione processuale degli atti successivamente
coperti da “omissis”, salva l’adozione delle opportune cautele volte ad
impedire la divulgazione delle parti occultate: reputa, infatti, il
ricorrente che una simile affermazione consentirebbe comunque di
mantenere – in contrasto con quanto affermato da questa Corte nella
richiamata sentenza – «all’interno del circuito divulgativo del processo
documenti in relazione ai quali era stato opposto e confermato il
segreto di Stato».
3.– L’intera gamma delle censure è stata
poi ripresa anche nel secondo ricorso, rivolto contro la sentenza
pronunciata all’esito del giudizio di rinvio dalla Corte d’appello di
Milano il 12 febbraio 2013 e con la quale gli imputati Pollari, Di
Troia, Ciorra, Mancini e Di Gregori erano stati condannati per il
sequestro Abu Omar, nonché contro le già richiamate ordinanze con le
quali erano stati acquisiti gli interrogatori resi dagli imputati nel
corso delle indagini, senza procedere all’interpello del Presidente del
Consiglio dei ministri per la conferma del segreto di Stato opposto
dagli imputati medesimi nel corso della udienza del 4 febbraio 2013.
L’unica
censura nuova, posta a base di tale secondo ricorso, ha riguardato la
pretesa violazione del principio di leale collaborazione, che sarebbe
stata posta in essere dalla Corte d’appello di Milano laddove aveva
omesso di sospendere il procedimento in corso di celebrazione, in attesa
della decisione sul primo ricorso per conflitto di attribuzione tra
poteri dello Stato proposto dal Presidente del Consiglio dei ministri, e
del cui deposito presso la cancelleria di questa Corte era stata data
contezza al giudice procedente, da parte della Avvocatura dello Stato,
il giorno prima della pronuncia della sentenza impugnata.
4.–
Il nucleo centrale delle doglianze proposte dal ricorrente in entrambi i
ricorsi ruota, dunque, essenzialmente, attorno all’assunto cui
conclusivamente è pervenuta la Corte di cassazione, nella parte in cui
ha pronunciato, in parte qua, l’annullamento con rinvio della sentenza
pronunciata dalla Corte d’appello di Milano il 15 dicembre 2010 (con la
quale veniva fra l’altro – e per ciò che qui interessa – confermata la
sentenza di primo grado nella parte in cui , nei confronti degli
imputati di cui si è detto, veniva dichiarata la improcedibilità della
azione penale a norma dell’art. 202 cod. proc. pen. per la sussistenza
del segreto di Stato) sul rilievo che «l’opposizione e la conferma del
segreto avevano creato una sorta di indecidibilità perché sul materiale
probatorio raccolto era calato un “sipario nero”» (pag. 16 della
sentenza della Corte di cassazione).
È del tutto evidente,
infatti, che le “conclusioni” cui è pervenuta la Corte di cassazione
nella pronuncia rescindente, hanno poi costituito il “principio di
diritto” al quale si è conformata la Corte d’appello di Milano quale
giudice di rinvio nell’adottare le ordinanze e la sentenza di condanna,
parimenti oggetto di ricorso.
Secondo i giudici di
legittimità, dunque, il segreto di Stato sarebbe stato apposto «su
documenti e notizie che riguardino i rapporti tra i Servizi italiani e
quelli stranieri […] e sugli interna corporis del Servizio, ovvero sulla
organizzazione dello stesso e sulle direttive impartite dal direttore
dei Servizi, anche se relative alla vicenda delle renditions e del
sequestro di Abu Omar» (pag. 121 della sentenza).
Il segreto,
peraltro, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte di merito, non
sarebbe stato apposto «sull’operato di singoli funzionari che abbiano
agito al di fuori delle proprie funzioni» (pag. 122 della sentenza).
Considerato, dunque, che il Presidente del Consiglio dei ministri aveva
proclamato, nella propria nota dell’11 novembre 2005, la estraneità del
Governo e del SISMI ai fatti relativi al sequestro di Abu Omar, se ne
doveva concludere che la partecipazione di agenti del Servizio a quella
azione era avvenuta «a titolo personale» (pag. 123 della sentenza in
esame ).
Da ciò il corollario per il quale «sulle fonti di
prova afferenti ad eventuali singole e specifiche condotte criminose
poste in essere da agenti del SISMI, anche in accordo con appartenenti a
Servizi stranieri, ma al di fuori dei doveri funzionali ed in assenza
di autorizzazione da parte dei vertici del SISMI non [sarebbe] stato
apposto alcun segreto, che, invece, riguardava i rapporti tra Servizi
italiani e stranieri e gli scambi di informazione e gli atti di
reciproca assistenza posti in essere in relazione a singole e specifiche
operazioni, dovendosi intendere per operazioni le azioni legittimamente
approvate dai vertici del SISMI» (pagg. 123-124 della sentenza).
Contro
tale tesi – che, come già si è detto, ha costituito la “base” della
pronuncia di annullamento con rinvio, refluendo, poi, sulle
consequenziali decisioni adottate in sede “rescissoria” – la Presidenza
del Consiglio dei ministri insorge contestandone il fondamento.
Si
sottolinea, infatti, la circostanza che la sentenza n. 106 del 2009 ha
correttamente riferito il segreto di Stato ai rapporti tra SISMI e CIA,
anche se relativi alle extraordinary renditions, con la conseguenza che
risulterebbe arbitrario circoscrivere l’ambito di operatività del
segreto «ai soli rapporti tra Servizi che si siano estrinsecati nella
partecipazione ad operazioni gestite da entrambi i Servizi,
legittimamente approvate dai vertici del Servizio italiano». L’autorità
giudiziaria avrebbe, in tal modo, finito per sostituirsi «all’autorità
politica nella concreta determinazione di ciò che costituisce oggetto
del segreto di Stato in relazione alla vicenda del sequestro Abu Omar».
5.–
L’assunto del ricorrente è fondato. Come, infatti, puntualmente
ricordato dalla difesa erariale, nella sentenza n. 106 del 2009 – con la
quale (va nuovamente rammentato) sono stati decisi ben cinque conflitti
di attribuzione fra poteri dello Stato sollevati da varie autorità
giudiziarie e dallo stesso Presidente del Consiglio dei ministri in
riferimento alla medesima vicenda processuale – questa Corte ha avuto
modo di sottolineare come dovesse affermarsi la perdurante attualità dei
princípi tradizionalmente enunciati dalla giurisprudenza
costituzionale, a far tempo dalla sentenza n. 86 del 1977, in materia di
segreto di Stato, pur a seguito della introduzione delle nuove
disposizioni di cui alla legge 3 agosto 2007, n. 124 (Sistema di
informazione per la sicurezza della Repubblica e nuova disciplina del
segreto). In particolare, si è ribadito che la disciplina del segreto
involge il supremo interesse della sicurezza dello Stato-comunità alla
propria integrità ed alla propria indipendenza, interesse che trova
espressione nell’art. 52 della Costituzione in relazione agli artt. 1 e 5
della medesima Carta. D’altra parte, tenuto conto della ampiezza e
della intensità del vincolo che consegue alla apposizione e conferma di
tale particolare figura di segreto, scaturiscono necessariamente dal
relativo regime profili di interferenza con altri princípi
costituzionali, inclusi quelli che reggono la funzione giurisdizionale.
In questo specifico àmbito, si è più volte osservato, da parte di questa
Corte, come l’apposizione del segreto da parte del Presidente del
Consiglio dei ministri – cui spetta in via esclusiva l’esercizio della
relativa attribuzione di rango costituzionale (salve le attribuzioni di
cui agli artt. 30 e seguenti e 41 della legge n. 124 del 2007), in
quanto afferente la tutela della salus rei publicae, e, dunque, tale da
coinvolgere un interesse preminente su qualunque altro, perché
riguardante «la esistenza stessa dello Stato, un aspetto del quale è la
giurisdizione» (sentenza n. 86 del 1977) – non può impedire che il
pubblico ministero indaghi sui fatti di reato, ma può inibire
all’autorità giudiziaria di acquisire ed utilizzare gli elementi di
conoscenza coperti dal segreto. Un àmbito, questo, nel quale il
Presidente del Consiglio dei ministri gode di un ampio potere
discrezionale, sul cui esercizio è escluso qualsiasi sindacato dei
giudici comuni, poiché il giudizio sui mezzi idonei a garantire la
sicurezza dello Stato ha natura politica.
D’altra parte,
quando pure la fonte di prova segretata risultasse essenziale e
mancassero altre fonti di prova – con conseguente applicabilità (come
correttamente avevano ritenuto i giudici, tanto di primo che di secondo
grado) delle disposizioni che impongono la pronuncia di una sentenza di
non doversi procedere per l’esistenza del segreto di Stato, a norma
degli artt. 202, comma 3, cod. proc. pen. e 41, comma 3, della legge n.
124 del 2007 – non potrebbe scorgersi in ciò alcuna antinomia con i
concorrenti princípi costituzionali, proprio perché un tale esito –
espressamente previsto dalla legge – non è altro che il portato della
già evidenziata preminenza dell’interesse della sicurezza nazionale,
alla cui salvaguardia il segreto di Stato è preordinato, rispetto alle
esigenze dell’accertamento giurisdizionale (sentenza n. 40 del 2012).
Il
fatto-reato resta, dunque, immutato in tutta la sua intrinseca carica
di disvalore, così come inalterato resta il potere-dovere del pubblico
ministero di svolgere le indagini in vista dell’eventuale esercizio
della azione penale: ciò che risulta inibito agli organi della azione e
della giurisdizione è l’espletamento di atti che incidano – rimuovendolo
– sul perimetro tracciato dal Presidente del Consiglio dei ministri,
nell’atto o negli atti con i quali ha indicato l’«oggetto» del segreto;
un oggetto che, come è evidente, soltanto a quell’organo spetta
individuare, senza che altri organi o poteri possano ridefinirne la
portata, adottando comunque comportamenti nella sostanza elusivi dei
vincoli che dal segreto devono – in relazione a quello specifico
“oggetto” – scaturire, anche nell’àmbito della pur doverosa persecuzione
dei fatti penalmente rilevanti.
6.– Ebbene, la affermazione
della Corte di cassazione, secondo la quale il segreto non coprirebbe le
condotte “extrafunzionali” che sarebbero state poste in essere dagli
agenti del SISMI, in quanto l’operazione Abu Omar non sarebbe
riconducibile né al Governo né al SISMI medesimo alla luce della
predetta nota dell’11 novembre 2005, equivale ad una sostanziale
modifica (di contenuto e di portata) di quello che, al contrario, era
stato il perspicuo “oggetto” del segreto. Considerato, infatti, che il
segreto era stato apposto su documenti e notizie riguardanti i rapporti
tra i Servizi italiani e quelli stranieri, nonché sugli interna corporis
del Servizio, ovvero sulla organizzazione dello stesso e sulle
direttive impartite dal direttore dei Servizi, anche se relative alla
vicenda delle renditions e del sequestro di Abu Omar, nessuna
limitazione poteva derivare in ordine a tali “fatti” in dipendenza di
una riconducibilità o meno degli stessi a formali “deliberazioni”
governative o dei vertici dei Servizi, posto che – a tacer d’altro –
l’esistenza o meno di tali deliberazioni avrebbe, a fortiori, formato
oggetto essa stessa di segreto.
D’altra parte, la tesi secondo
la quale il segreto non opererebbe, in quanto gli imputati avrebbero
agito «a titolo personale», e non nell’àmbito di un collegamento
funzionale con il Servizio, risulta contraddetta dal fatto che nei
confronti degli stessi è stata contestata e ritenuta l’aggravante di cui
all’art. 605, secondo comma, n. 2), del codice penale (sequestro di
persona aggravato se il fatto è commesso da un pubblico ufficiale, con
abuso di poteri inerenti alle sue funzioni): come emerge dal capo di
imputazione, l’aggravante stessa è stata, infatti, configurata in
ragione proprio del fatto che il delitto era stato commesso con abuso
dei poteri inerenti alle funzioni di appartenenti al SISMI.
Prospettare,
poi, la estraneità del Servizio ai fatti oggetto del procedimento
penale, appare, allo stesso modo, intimamente contraddetto dalle
circostanze evocate nel capo di imputazione, ove si formula un espresso
riferimento, non soltanto alle qualità soggettive dei singoli imputati e
al ruolo concretamente svolto in collegamento con la rete CIA in
Italia, ma, anche, all’utilizzo, per la relativa operazione, di una
struttura del SISMI, oltre che dell’apparato logistico di cui disponeva
la rete CIA.
Sembra opportuno, del resto, sottolineare un
ulteriore profilo sul quale la sentenza della Corte di cassazione non
pare essersi soffermata. A proposito della cosiddetta immunità
funzionale degli appartenenti ai Servizi, l’art. 204, comma 1-bis, del
codice di procedura penale (inserito dall’art. 40 della legge n. 124 del
2007, successiva al fatto-reato ma di gran lunga antecedente alla
sentenza di primo grado) stabilisce che non possono formare oggetto del
segreto i fatti, le notizie o i documenti relativi alle condotte poste
in essere da appartenenti ai Servizi di informazione per la sicurezza in
violazione della disciplina concernente la speciale causa di
giustificazione prevista per l’attività del personale dei Servizi di
informazione per la sicurezza. Puntualizza la norma che «si considerano
violazioni della predetta disciplina le condotte per le quali, essendo
stata esperita l’apposita procedura prevista dalla legge, risulta
esclusa l’esistenza della speciale causa di giustificazione».
Ebbene,
l’art. 18 della stessa legge n. 124 del 2007, nello stabilire le
«procedure di autorizzazione delle condotte previste dalla legge come
reato», espressamente prevede, al comma 6, che «nei casi in cui la
condotta prevista dalla legge come reato sia stata posta in essere in
assenza ovvero oltre i limiti delle autorizzazioni previste dal presente
articolo, il Presidente del Consiglio dei ministri adotta le misure
necessarie e informa l’autorità giudiziaria senza ritardo».
Il
divieto di segreto sulle attività “illecite” poste in essere dagli
agenti dei Servizi in assenza ovvero oltre i limiti tracciati dalle
direttive autorizzatorie – con il correlativo obbligo di informativa,
come si è appena osservato, da parte del Presidente del Consiglio dei
ministri – avrebbe dovuto, dunque, imporre – ove l’assunto della Corte
di cassazione fosse considerato corretto – una condotta del tutto
antitetica rispetto a quella mantenuta nella vicenda da parte del
ricorrente: la ribadita e confermata sussistenza del segreto, invece, ed
il correlativo promovimento dei vari conflitti, attestano, di per sé,
la implausibilità della tesi che vorrebbe ricondurre i fatti nel quadro
di una iniziativa adottata “a titolo personale” dai vari imputati; e
comunque escludono, anche sul piano logico, la possibilità che lo spazio
operativo del segreto possa essere “interpretato” nei sensi additati
dalla Corte di cassazione.
D’altra parte, la portata
“oggettiva” del segreto risulta già univocamente tracciata, con
riferimento alla vicenda di specie, dalla più volte ricordata sentenza
n. 106 del 2009. In essa si è, fra l’altro, ricordato (punto 12.3. del
Considerato in diritto), che il segreto di Stato non aveva mai avuto,
appunto, ad oggetto «il reato di sequestro in sé, accertabile
dall’Autorità giudiziaria competente nei modi ordinari, bensì, da un
lato, i rapporti tra i Servizi segreti italiani e quelli stranieri e,
dall’altro, gli assetti organizzativi ed operativi del SISMI, con
particolare riferimento alle direttive e agli ordini che sarebbero stati
impartiti dal suo Direttore agli appartenenti al medesimo organismo,
pur se tali rapporti, direttive ed ordini fossero in qualche modo
collegati al fatto di reato stesso; con la conseguenza […] dello
“sbarramento” al potere giurisdizionale derivante dalla opposizione e
dalla conferma, ritualmente intervenuti, del segreto di Stato».
In
tale prospettiva, quindi, pare arduo negare che la copertura del
segreto – il cui effettivo àmbito non può, evidentemente, che essere
tracciato dalla stessa autorità che lo ha apposto e confermato e che è
titolare del relativo munus – si proietti su tutti i fatti, notizie e
documenti concernenti le eventuali direttive operative, gli interna
corporis di carattere organizzativo e operativo, nonché i rapporti con i
Servizi stranieri, anche se riguardanti le renditions ed il sequestro
di Abu Omar. Ciò, ovviamente, a condizione che gli atti e i
comportamenti degli agenti siano oggettivamente orientati alla tutela
della sicurezza dello Stato.
7.– Alla stregua dei riferiti
rilievi deve pertanto essere dichiarato che non spettava alla Corte di
cassazione annullare il proscioglimento degli imputati Pollari, Ciorra,
Di Troia, Di Gregori e Mancini e di annullare le ordinanze pronunciate
il 22 ed il 26 ottobre 2010, con le quali la Corte d’appello di Milano
aveva ritenuto inutilizzabili le dichiarazioni rese dagli indagati nel
corso delle indagini preliminari. Conseguentemente, va pure dichiarato
che non spettava alla Corte d’appello di Milano, in sede di giudizio di
rinvio, affermare – in ottemperanza ai dicta della sentenza di
annullamento pronunciata dalla Corte di cassazione – la penale
responsabilità degli imputati anzidetti in relazione al sequestro di Abu
Omar; così come non spettava – tenuto conto della esistenza del segreto
di Stato – pronunciare la condanna sulla base della utilizzazione
processuale dei verbali relativi agli interrogatori resi dagli imputati
nel corso delle indagini (dei quali era stata disposta la restituzione
al Procuratore generale della Repubblica presso la medesima Corte con le
ordinanze del 22 e 26 ottobre 2010, poi annullate dalla Corte di
cassazione, senza che fosse dato corso all’interpello del Presidente del
Consiglio dei ministri ai fini della conferma del segreto di Stato,
opposto dagli imputati Pollari, Mancini, Ciorra, Di Troia e Di Gregori
nella udienza del 4 febbraio 2013: udienza nel corso della quale il
Procuratore generale era stato invitato a rassegnare le proprie
conclusioni, utilizzando fonti di prova coperte dal segreto di Stato).
A
questa dichiarazione di non spettanza consegue l’annullamento, in parte
qua, dei corrispondenti atti giurisdizionali, menomativi delle
attribuzioni del ricorrente Presidente del Consiglio dei ministri in
materia di apposizione del segreto di Stato. Parimenti menomativa deve
intendersi anche la surricordata condotta omissiva della Corte d’appello
di Milano, laddove ha mancato di procedere all’interpello del
Presidente del Consiglio dei ministri in ordine alla conferma del
segreto di Stato opposto da taluni imputati.
8.– Non appare,
per contro, fondata la censura secondo la quale la Corte d’appello di
Milano, quale giudice del rinvio, avrebbe violato il principio di “leale
collaborazione” tra poteri dello Stato, per aver omesso di sospendere
il procedimento penale in attesa della decisione della Corte
costituzionale sul conflitto già proposto in riferimento alla sentenza
di annullamento pronunciata dalla Corte di cassazione, e del cui
deposito la Corte d’appello era stata informata il giorno prima di
quello in cui aveva emesso la sentenza qui censurata.
Da un
lato, infatti, il principio di leale collaborazione non impone, di per
sé, in linea generale, la paralisi nell’esercizio delle attribuzioni
contestate; dall’altro, la sospensione del processo da parte della
autorità giudiziaria procedente non è prevista per tale ipotesi di
“contenzioso”; con la conseguenza che la stessa – ove disposta – si
sarebbe tradotta in un provvedimento praeter legem, se non, addirittura,
contra legem, avuto riguardo al regime tassativo che disciplina i casi
di sospensione del processo e che automaticamente coinvolgono, fra
l’altro, la disciplina di diritto sostanziale della prescrizione del
reato.
9.– All’accertamento dell’avvenuta lesione delle
attribuzioni del Presidente del Consiglio dei ministri segue
l’annullamento degli atti che hanno integrato la menomazione, nella
parte e per i profili che qualificano ciascuna dichiarazione di “non
spettanza”.
Competerà, poi, alla autorità giudiziaria valutare
le conseguenze che, sul piano processuale, scaturiscono dalla pronuncia
di annullamento.

Per Questi Motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,
dichiara
1)
che non spettava alla Corte di cassazione annullare – con la sentenza
n. 46340/12 del 19 settembre 2012 – il proscioglimento degli imputati
Pollari Nicolò, Ciorra Giuseppe, Di Troia Raffaele, Di Gregori Luciano e
Mancini Marco, nonché le ordinanze emesse il 22 ed il 26 ottobre 2010,
con le quali la Corte d’appello di Milano aveva ritenuto inutilizzabili
le dichiarazioni rese dagli indagati nel corso delle indagini
preliminari, sul presupposto che il segreto di Stato apposto in
relazione alla vicenda del sequestro Abu Omar concernerebbe solo i
rapporti tra il Servizio italiano e la CIA, nonché gli interna corporis
che hanno tratto ad operazioni autorizzate dal Servizio, e non anche al
fatto storico del sequestro in questione;
2) che non spettava
alla Corte d’appello di Milano, quale giudice del rinvio, ammettere –
con l’ordinanza del 28 gennaio 2013 – la produzione, da parte della
Procura generale della Repubblica presso la medesima Corte, dei verbali
relativi agli interrogatori resi nel corso delle indagini da Mancini,
Ciorra, Di Troia e Di Gregori – atti dei quali era stata disposta la
restituzione al Procuratore generale da parte della stessa Corte
d’appello con le ordinanze del 22 e 26 ottobre 2010, poi annullate dalla
Corte di cassazione con la sentenza innanzi indicata;
3) che
non spettava alla Corte d’appello di Milano – in riferimento alla
ordinanza pronunciata il 4 febbraio 2013 – omettere l’interpello del
Presidente del Consiglio dei ministri ai fini della conferma del segreto
di Stato opposto dagli imputati Pollari, Mancini, Ciorra, Di Troia e Di
Gregori nel corso della udienza dello stesso 4 febbraio 2013, invitando
il Procuratore generale a concludere e a svolgere la sua requisitoria
con l’utilizzo di fonti di prova coperte da segreto di Stato;
4)
che non spettava alla Corte d’appello di Milano – in relazione alla
sentenza n. 985 del 12 febbraio 2013 – affermare la penale
responsabilità degli imputati Pollari Nicolò, Di Troia Raffaele, Ciorra
Giuseppe, Mancini Marco e Di Gregori Luciano, in ordine al fatto-reato
costituito dal sequestro di Abu Omar, sul presupposto che il segreto di
Stato apposto dal Presidente del Consiglio dei ministri, in relazione
alla relativa vicenda, concernerebbe solo i rapporti tra il Servizio
italiano e la CIA, nonché gli interna corporis che hanno tratto ad
operazioni autorizzate dal Servizio, e non anche quelli che attengono
comunque al fatto storico del sequestro in questione;
5) che
non spettava alla Corte d’appello di Milano emettere la sentenza innanzi
indicata sulla base dell’utilizzazione dei verbali relativi agli
interrogatori resi dagli imputati nel corso delle indagini preliminari –
di cui era stata disposta la restituzione al Procuratore generale da
parte della stessa Corte d’appello con le ricordate ordinanze del 22 e
26 ottobre 2010 – senza che si fosse dato corso all’interpello del
Presidente del Consiglio dei ministri ai fini della conferma del segreto
di Stato opposto dagli anzidetti imputati nel corso della udienza del 4
febbraio 2013, essendosi invitato il Procuratore generale a concludere,
in modo tale da consentirgli di svolgere la sua requisitoria
utilizzando fonti di prova coperte dal segreto di Stato;
6)
che spettava alla Corte d’appello di Milano non sospendere il
procedimento penale a carico degli imputati Pollari, Mancini, Ciorra, Di
Troia e Di Gregori in pendenza del giudizio per conflitto di
attribuzione tra poteri dello Stato;
annulla, nelle
corrispondenti parti, la sentenza della Corte di cassazione e quella
della Corte d’appello di Milano, innanzi indicate, nonché le ordinanze
anzidette, anch’esse nelle rispettive parti.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 febbraio 2014.
F.to:
Gaetano SILVESTRI, Presidente
Paolo GROSSI, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 13 febbraio 2014.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Gabriella MELATTI

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