domenica, Maggio 19, 2024
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LAVORO: Giusto il licenziamento laddove si compiono atti sessuali in orario lavorativo

Per
la Cassazione (sentenza n. 23378 del 03 novembre 2014) è legittimo
licenziare un dipendente che durante l’orario di lavoro viene sorpreso
consumare un rapporto sessuale.


Il dipendente L.N., assunto con la
società M. s.p.a. dal 01 settembre 2014 con qualifica di operatore
presso la stazione metropolitana, veniva licenziato il 30 ottobre 2014
per giusta causa poiché, durante l’orario di lavoro si allontanava senza
preventiva autorizzazione dalla postazione lavorativa e veniva sorpreso
da un utente, presso un locale ad uso della ditta di pulizie,
intrattenere rapporti sessuali con una donna.

La Corte d’Appello, in conformità con
il giudizio del Tribunale di Napoli, respingeva l’atto di impugnazione
del licenziamento. Il Giudice sottolineava la palese violazione dei
diritti fondamentali del rapporto di lavoro nonché il mancato rispetto
di quanto previsto da codice disciplinare, a prescindere dall’obbligo di
affissione di quest’ultimo presso i locali dell’azienda, secondo la
previsione dell’articolo 7, comma 1 della Legge n. 300/1970. Il
lavoratore lamentava, tuttavia, irregolarità nella procedura di
licenziamento, poiché il provvedimento di recesso veniva intimato dal
direttore generale. Il Giudice non condannava tale procedura in quanto
il direttore generale era munito dei relativi poteri; d\’altro canto,
un’eventuale abuso o violazione in tal senso sarebbe dovuta essere
rilevata dalla società.


Il Giudice poneva in rilievo, inoltre,
la gravità dei fatti contestati al lavoratore, il quale, rivestiva un
ruolo importante, essendo l’unico addetto alla sicurezza dell’impianto
della stazione.


Contro la sentenza il dipendente proponeva ricorso per Cassazione.


Il lavoratore rilevava in particolare:


• Violazione
della legge e del CCNL autoferrotranvieri del 1976 e successive
modifiche con riferimento all’articolo 66, all’articolo 7 della Legge n.
300/1970, agli articoli 2119 e 2106 codice civile e articolo 1 della
Legge n. 604/1966. A parere del dipendente la Corte erroneamente
interpretava la sanzione disciplinare conseguente all’allontanamento dal
posto di lavoro senza preventiva autorizzazione, che doveva
corrispondere, secondo l’articolo 66 del CCNL ad una multa equivalente a
quattro ore della retribuzione. L’allontanamento era meramente
temporaneo e il magazzino, teatro del presunto rapporto sessuale, era un
locale non accessibile all’utenza e, pertanto, veniva rispettata la
regola della riservatezza. Inoltre, il lavoratore era inquadrato al
penultimo livello tra quelli previsti dal CCNL di riferimento, di
conseguenza, lo stesso non era né una guardia giurata né un addetto alla
vigilanza, pur avendo dei compiti generici di controllo. Si deduce,
pertanto, un difetto di motivazione poiché la mancata valorizzazione di
alcuni elementi ha determinato inevitabilmente un giudizio differente.


• Violazione
e falsa applicazione dell’articolo 7 della Legge n. 300/1970, poiché il
codice disciplinare che vietava il comportamento sanzionato non veniva
affisso in violazione di uno specifico obbligo.


• Violazione
e falsa applicazione dell’articolo 55 del Decreto Legislativo n.
165/2001 in quanto il datore di lavoro, essendo una società a totale
capitale pubblico, il caso di specie ricadeva nell’ambito di
applicazione delle disposizioni in materia di pubblico impiego.


• Violazione
e falsa applicazione dell’articolo 10 della Legge n. 300/1970 poiché il
provvedimento disciplinare non conteneva il nome e la qualifica del
soggetto che lo adottava. Secondo il codice etico, l’unico soggetto
deputato ad adottare il provvedimento era l’amministratore delegato.


• Violazione
del R.D. n. 148/1931 in riferimento agli articoli 40,41 e 42 in materia
di sanzione disciplinari e all’articolo 54 ove previsto che il
provvedimento di destituzione dal servizio debba essere adottato dal
consiglio di disciplina. Contrariamente la Corte non ha ritenuto di
applicare la norma.


La Cassazione, in primo luogo,
ribadisce che i motivi che hanno indotto il datore di lavoro a intimare
il licenziamento devono essere considerati nel loro complesso,
tralasciando la messa in evidenza di uno solo di essi. Il ricorrente
trascura elementi decisivi quali la causale dell’abbandono del servizio
e la natura dei compiti di vigilanza assegnati.

Quanto alla mancanza di motivazione,
la Corte di Cassazione sottolinea che al presente giudizio si applica la
previsione dell’articolo 360, comma 1 n. 5 codice di procedura civile,
introdotta dal Decreto Legge n. 83/2012 (convertito con modificazioni
nella Legge n. 134/2012) che ha modificato l’impostazione originaria
dell’articolo prevedendo come quarto motivo di ricorso per Cassazione
il seguente: “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che é
stato oggetto di discussione tra le parti”. L’attuale inciso non
riporta più la parola “motivazione”, presente invece nella precedente
locuzione; pertanto, secondo la Cassazione “l’eventuale difetto o
carenza di tale parte della sentenza può avere effetto solo ove trasmodi
in vizio processuale ex art. 360 n. 4) c.p.c.”

Si introduce dunque nell\’ordinamento,
come già enunciato con la sentenza n. 8053 del 07/04/2014, un vizio
specifico concernente l\’omesso esame di un fatto storico, principale o
secondario, risultante dal testo della sentenza o dagli atti
processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e
abbia carattere decisivo ai fini del giudizio; ossia, quand\’anche il
fatto omesso fosse stato oggetto d’esame nel giudizio e avesse
determinato un esito diverso della controversia.

Alla luce di tali affermazioni,
l’omesso esame di elementi istruttori, non inficia la regolarità del
giudizio quando il fatto storico rilevante ai fini della controversia
sia stato comunque considerato dal giudice. Ergo, la sentenza può
subire censura solo quando il decisum non sia supportato da un percorso
logico e manchi di elementi essenziali e fondanti.

Nel caso di specie, “le circostanze di
fatto valorizzate dalla parte ricorrente (la temporaneità
dell\’allontanamento, l\’ubicazione del magazzino, il livello di
inquadramento, l\’assenza di danni, l\’assenza di precedenti disciplinari)
sono circostanze che, pur prese in esame dalla Corte, non sono state
ritenute significative, considerata la posizione del N. – unico agente
presso l\’impianto della stazione S.R., con il conseguente dovere di
attenzione sotto il profilo della tutela della sicurezza degli utenti –
la potenzialità lesiva dell\’omissione, il fatto che l\’attività cui si
stava dedicando è stata effettivamente rilevata da un\’utente sicché il
magazzino era comunque raggiungibile.”

Anche la violazione scaturita dalla
mancata affissione del codice disciplinare risulta essere essere
infondata. Il comportamento perpetrato dal lavoratore è in palese
violazione dei precetti che derivano dall’obbligo generale di diligenza,
a prescindere dal ricorso o meno delle specifiche previsioni del
contratto collettivo.


Circa l’individuazione dell\’ufficio
competente per i procedimenti disciplinari in quanto ente di diritto
pubblico, la Cassazione chiarisce che si tratta di una circostanza non
esaminata dalla Corte di merito e mai proposta con i motivi del ricorso
in appello; né la parte attrice riferisce di averla sollevata nel
giudizio.



Con riferimento alla violazione
dell’articolo 55 del Decreto Legislativo n. 165/2001, la Suprema Corte
ne decreta l’inammissibilità e sottolinea che “nel giudizio di
cassazione […], che ha per oggetto solo la revisione della sentenza in
rapporto alla regolarità formate del processo ed alle questioni di
diritto proposte, non sono proponibili nuove questioni di diritto o temi
di contestazione diversi da quelli dedotti nel giudizio di merito, a
meno che si tratti di questioni rilevabili di ufficio o, nell\’ambito
delle questioni trattate, di nuovi profili di diritto compresi nel
dibattito e fondati sugli stessi elementi di fatto dedotti.”



Analogamente è inammissibile il motivo
riguardante la mancanza del nome e della qualifica del soggetto che ha
emesso il provvedimento disciplinare in quanto, il ricorrente lamenta un
errore di contenuto della lettera di intimazione del licenziamento
senza però allegarla al ricorso, riprodurla in giudizio e senza
riportare il contenuto della regolamentazione che limiterebbe
all\’amministratore delegato la legittimazione ad adottare le sanzioni
disciplinari.



Da ultimo, quanto alle disposizioni
richiamate dal R.D. n. 148/1931, la gravità dei fatti contestati al
lavoratore, che hanno generato una violazione degli obblighi di
diligenza e fedeltà e sono scaturiti nell’applicazione della massima
sanzione disciplinare prevista (il licenziamento), hanno loro
derivazione direttamente dalla legge; contrariamente le previsioni del
R.D. n. 148/1931, contemplano solo alcuni aspetti della condotta posta
in essere dal dipendente. Quanto alla violazione ex articolo 54, che
riconosce la competenza all\’irrogazione delle sanzioni disciplinari più
gravi ai consigli di disciplina, costituiti presso ciascuna azienda o
ciascuna dipendenza con direzione autonoma e dei quali prevede la
composizione e la nomina, anch’essa è inammissibile per vizio di
motivazione nel ricorso.



Alla stregua dei fatti, la Cassazione rigetta il ricorso del lavoratore.




Vincenzo Frandina



***



SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE


SEZIONE LAVORO


Sentenza 17 settembre – 3 novembre 2014, n. 23378



Svolgimento del processo



L.N., dipendente della società
Metronapoli s.p.a. dal 11912003 con qualifica di operaio e con le
mansioni di operatore presso la stazione metropolitana di S.R., veniva
licenziato con lettera del 30 ottobre 2007 per giusta causa, individuata
nel comportamento descritto nella lettera di contestazione disciplinare
del precedente 15 ottobre. Ivi si riferiva che il giorno 11 ottobre
2007 il lavoratore, nel normale orario di lavoro, non presenziava la sua
postazione lavorativa presso il banco agenti di stazione, senza avere
richiesta la preventiva autorizzazione al DCCIDCO come previsto dal
regolamento aziendale per gli agenti di stazione, e veniva sorpreso da
una utente nel locale in uso alla ditta di pulizie ubicato al piano
banchina in atto sessuale con una donna. Di tale circostanza la cliente
aveva sporto denuncia alle forze dell\’ordine dalla stessa chiamate ìn
loco.



L\’impugnativa proposta avverso il
licenziamento veniva respinta dal Tribunale di Napoli all\’esito della
fase cautelare con sentenza del 21/6/2011 e la Corte d\’Appello di Napoli
con sentenza n. 7890 del 2012 respingeva l\’appello proposto dal
lavoratore. La Corte disattendeva i motivi di gravame osservando che la
realizzata violazione dei doveri fondamentali connessi al rapporto di
lavoro, unitamente ad un comportamento manifestamente contrario agli
interessi dell\’impresa, rendeva irrilevante il rispetto (o meno) della
garanzia di affissione del codice disciplinare prevista dall\’art. 7
primo comma della L. n. 300 dei 1970; argomentava poi che il
provvedimento di recesso era stato sottoscritto dal direttore generale,
procuratore generale munito dei relativi poteri, con firma leggibile
apposta in calce al provvedimento. Un\’eventuale mancanza dei poteri di
intimazione avrebbe dovuto peraltro essere fatta valere dalla società,
che invece nel caso l\’aveva ratificata ai sensi dell\’articolo 1399 c.c.
con la memoria di costituzione in giudizio. Riteneva poi che l\’esito
dell\’istruttoria svolta avesse confermato la fondatezza dell\’addebito,
che si era concretato in un allontanamento dalla postazione di lavoro
per compiere un atto contrario ai doveri del servizio e con pericolo per
la sicurezza. Esso rendeva fondata la sanzione irrogata, considerato
anche che le mansioni cui il N. era addetto erano di particolare
responsabilità per la gestione della sicurezza dell\’impianto della
stazione di S.R., essendo egli l\’unico agente di stazione, il che
rendeva la condotta connotata da particolare gravità. Riteneva poi che
le previsioni del RD. n. 148 del 1931, in particolare con riferimento a
quelle che individuano le sanzioni disciplinari e la competenza della
commissione di disciplina ad irrogare la destituzione dal servizio,
dovessero ritenersi superate per effetto della successiva contrattazione
collettiva e dell\’art. 7 della L. n. 300 del 1970. Né poteva invocarsi
il codice etico di Metronapoli, afferendo la fattispecie non a
violazioni del codice etico, ma a licenziamento disciplinare derivante
dagli artt. 2118 e 2119 c.c.



Per la cassazione della sentenza L.N.
ha proposto ricorso, affidato a dodici motivi, cui ha resistito con
controricorso s.p.a. Metronapoli, che ha depositato memoria ex art. 378
c.p.c.


Motivi della decisione


Sintesi dei motivi di ricorso



1. Con i primi sette motivi il
ricorrente deduce la violazione di legge e di contratto collettivo, con
riferimento agli artt. 66 del C.C.N.L. autoferrotranvieri del 1976 e
successive modifiche, all\’art. 7 della L. n. 300 del 1970, agli artt.
2119 e 2106 c.c., all\’art. 1 della L. n. 604 del 1966, ed addebita alla
Corte d\’appello di avere erroneamente reinterpretato la contestazione
disciplinare, che gli imputava il temporaneo non presenziare nel posto
di lavoro senza avere ottenuto il necessario permesso; tale addebito
coinciderebbe con la previsione dell\’articolo 66 del CCNL, che vi
correla la sanzione della multa fino a un massimo di quattro ore
retribuzione.



Rileva che l\’allontanamento contestato
infatti era meramente temporaneo, né vi era prova del fatto che il N.
fosse ritornato al lavoro perché chiamato tramite interfono e non per
sua spontanea volontà. Aggiunge che il magazzino in cui si sarebbe
consumato l\’atto sessuale era un locale tecnico non accessibile
all\’utenza e che pertanto era stata rispettata la regola della
riservatezza, che egli era inquadrato nel penultimo gradino del CCNL,
che l\’agente di stazione non è una guardia giurata né un addetto alla
vigilanza pur avendo compiti generici di controllo, che la condotta non
aveva determinato conseguenze pregiudizievoli per l\’azienda né danno
all\’immagine, che non si sarebbe dato rilievo all\’ assenza di precedenti
disciplinari. Tali elementi, per la cui mancata valorizzazione ad opera
del giudice di merito deduce anche difetto di motivazione,
determinerebbero una diversa valutazione della condotta contestata e
della sua gravità.



2. Come ottavo motivo lamenta la
violazione e falsa applicazione dell\’art. 7 della L. n. 300 del 1970 e
ribadisce che il comportamento sanzionato è contemplato dal contratto
collettivo, per cui l\’affissione del codice disciplinare si rendeva
obbligatoria.



3. Come nono motivo lamenta la
violazione e falsa applicazione dell\’articolo 55 del D.lgs. n. 165 del
2001 e fa presente che Metronapoli s.p.a. è una società a totale
capitale pubblico, controllata dal Comune di Napoli, sicché avrebbero
dovuto applicarsi le disposizioni dettate in materia di pubblico impiego
e le correlate garanzie ivi riconosciute ai prestatori di lavoro, tra
cui l\’ art. 55 quarto comma che prevede che la parte datoriale debba
individuare l\’ufficio competente per i procedimenti disciplinari.
L\’azienda aveva nel caso affidato l\’istruttoria all\’organismo di
vigilanza, ma questo non risultava essere stato interessato dalla
vicenda in esame.



4. Come decimo motivo lamenta la
violazione e falsa applicazione dell\’articolo 10 della L. n. 300 del
1970 in quanto il provvedimento di irrogazione della sanzione non reca
il nominativo del soggetto che lo ha adottato né la funzione e la
qualità da questi ricoperta e lamenta che la sentenza, affermando il
contrario, negherebbe circostanze documentalmente evidenti. Sostiene poi
che l\’unico soggetto che in base al codice etico è legittimato ad
adottare il provvedimento di recesso è l\’amministratore delegato, in
mancanza di una comprovata delega di poteri.



5. Come undicesimo motivo lamenta la
violazione del R.D. n. 148 del 1931, recante il “Coordinamento delle
norme sulla disciplina giuridica dei rapporti collettivi del lavoro con
quelle sul trattamento giuridico-economico del personale delle ferrovie,
tranvie e linee di navigazione interna in regime di concessione”, ed in
particolare degli arti. 40,41 e 42 in materia di sanzioni disciplinari e
dell\’art. 54 che prevede che il provvedimenti di destituzione dal
servizio per ragioni disciplinari debba essere adottato dal consiglio di
disciplina. Contesta la motivazione della Corte che ha ritenuto
inapplicabile il RD. citato, facendo presente che non ne è intervenuta
alcuna espressa abrogazione.



6. Come dodicesimo motivo lamenta la
violazione e falsa applicazione dell\’art. 7 L. n. 300 del 1970 e la
nullità del procedimento di Licenziamento per violazione del codice
etico adottato dalla s.p.a. Metronapoli, ed in particolare delle
prescrizioni dell\’ art. 1.5, che richiama l\’art. 2104 c.c., richiamato
nel contratto collettivo, e dell\’art. 4.1., intitolato “Rilevazione
delle violazioni del codice etico per il personale non dirigente”.



II. Esame dei motivi di ricorso.



1. Esaminando le censure mosse alla
sentenza impugnata con i primi sette motivi di ricorso sotto il profilo
della violazione di legge e di contratto collettivo, si rileva che il
ricorrente, nel ricondurre l\’addebito alla fattispecie dell\’interruzione
temporanea del servizio, trascura elementi che invece sono stati
analizzati dalla Corte di merito e che essa ha considerato decisivi,
quali la causale (voluttuaria e contraria ai doveri d\’ufficio)
dell\’abbandono del servizio e la natura dei compiti (di vigilanza)
assegnati. Tale sottovalutazione appare in contrasto non solo con il
contenuto letterale della contestazione quale si legge nella narrativa
della sentenza impugnata, che riporta i diversi profili della condotta,
ma anche e soprattutto con i principi espressi da questa Corte in tema
di individuazione della giusta causa di recesso e del giudizio di
proporzionalità fra fatto addebitato e licenziamento, in ragione dei
quali tale valutazione va fatta considerando l\’addebito nel complesso
dei suoi elementi oggettivi e soggettivi (Cass. Sez. L, n. 2013 del
13/02/2012, Sez. L, n. 22798 del 12/12/2012).



Non è quindi consentito valorizzare
uno solo degli aspetti della condotta posta in essere al fine di
applicare la sanzione prevista dalla norma del contratto collettivo che
prevede quell\'(unico) aspetto.



2. Sotto il profilo del difetto di
motivazione, occorre premettere che al presente giudizio si applica
ratione temporis la formulazione dell\’art. 360 comma 1 n. 5 c.p.c.
introdotta dall\’ari. 54 del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, convertito con
modificazioni dalla L. 7 agosto 2012, n. 134, che prevede come quinto
motivo di ricorso per cassazione l\'”omesso esame circa un fatto decisivo
per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”. La
disposizione ha modificato la precedente locuzione, che contemplava
l\’omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto
controverso e decisivo per il giudizio”, introdotta dalla riforma del
giudizio di Cassazione operata con la legge n. 40 del 2006, che aveva a
sua volta sostituito il concetto di “punto decisivo della controversia”
con quello di “fatto controverso e decisivo”.



Gli aspetti salienti della riforma
consistono in primo luogo nell\’eliminazione del riferimento alla
motivazione, sicché si è rilevato che l\’eventuale carenza o difetto di
tale parte della sentenza può avere rilievo solo ove trasmodi in vizio
processuale ex art. 360 n. 4) c.p.c.



E\’ stato invece mantenuto il
riferimento al “fatto controverso e decisivo”, in relazione al quale
l\’elaborazione sviluppatasi nella giurisprudenza di questa Corte aveva
già chiarito che per tale deve intendersi “un vero e proprio “fatto”, in
senso storico e normativo, ossia un fatto principale, ex art. 2697 c.c.
(cioè un fatto costitutivo, modificativo impeditivo o estintivo) o
anche, secondo parte della dottrina e giurisprudenza, un fatto
secondario (cioè un fatto dedotto in funzione di prova di un fatto
principale), purché controverso e decisivo.” (così, Cass. 29 luglio
2011, n. 16655, conf., Sez. L, Sentenza n. 18368 del 31/07/2013; Cass.
(ord.) 5 febbraio 2011, n. 2805).



In coerenza con tali premesse, le
Sezioni Unite di questa Corte nella sentenza n. 8053 del 07/04/2014
hanno enunciato il seguente principio di diritto:



“a) La riformulazione dell\’art. 360,
n. 5), cod. proc. civ., disposta con l\’art. 54, d.l. 22 giugno 2012, n.
83, convertito con modificazioni, dalla L. 7 agosto 2012, n. 134,
secondo cui è deducibile esclusivamente l\’omesso esame circa un fatto
decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le
parti», dev\’essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici
dettati dall\’art. 12 disp. prel. cod. civ., come riduzione al minimo
costituzionale del sindacato sulla motivazione in sede di giudizio di
legittimità, per cui l\’anomalia motivazionale denunciabile in sede di
legittimità è solo quella che si tramuta in violazione di legge
costituzionalmente rilevante e attiene all\’esistenza della motivazione
in sé, come risulta dal testo della sentenza e prescindendo dal
confronto con le risultanze processuali, e si esaurisce, con esclusione
di alcuna rilevanza del difetto di “sufficienza”, nella “mancanza
assoluta di motivi sotto l\’aspetto materiale e grafico”, nella
“motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile fra affermazioni
inconciliabili”, nella “motivazione perplessa ed obiettivamente
incomprensibile”.



b) Il nuovo testo del n. 5) dell\’art.
360 cod. proc. civ. introduce nell\’ordinamento un vizio specifico che
concerne l\’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la
cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti
processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e
abbia carattere decisivo (vale a dire che se esaminato avrebbe
determinato un esito diverso della controversia).



c) L\’omesso esame di elementi
istruttori non integra di per sé vizio di omesso esame di un fatto
decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque
preso in considerazione dal giudice, benché la sentenza non abbia dato
conto di tutte le risultanze probatorie.



d) La parte ricorrente dovrà indicare –
nel rigoroso rispetto delle previsioni di cui agli artt. 366, primo
comma, n. 6), c.p.c. e 369, secondo comma, n. 4), c.p.c. – il “fatto
storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o
extratestuale, da cui ne risulti l\’esistenza, il “come” e il “quando”
(nel quadro processuale) tale fatto sia stato oggetto di discussione tra
le parti, e la “decisività” del fatto stesso”.



La “porta” attraverso la quale la
sentenza gravata deve oggi venire valutata sulla base di questo motivo
di ricorso è quindi divenuta più “stretta”, potendo la sentenza essere
censurata solo quando il decisum non sia sorretto da un percorso logico
in relazione ai suoi elementi essenziali e fondanti.



In tal senso, la lacunosità e la
contraddittorietà della motivazione possono essere censurate solo quando
il vizio sia talmente grave da ridondare in una sostanziale omissione,
né può fondare il motivo in questione l\’omesso esame di una risultanza
probatoria, quando essa attenga ad una circostanza che è stata comunque
valutata dal giudice del merito, a meno che l\’omissione della sua
valutazione non si sia tradotta nell\’omesso esame di una circostanza
impeditiva di un diverso risultato decisorio.



Nel caso in esame, le circostanze di
fatto valorizzate dalla parte ricorrente (la temporaneità
dell\’allontanamento, l\’ubicazione del magazzino, il livello di
inquadramento, l\’assenza di danni, l\’assenza di precedenti disciplinari)
sono circostanze che, pur prese in esame dalla Corte, non sono state
ritenute significative, considerata la posizione del N. – unico agente
presso l\’impianto della stazione S.R., con il conseguente dovere di
attenzione sotto il profilo della tutela della sicurezza degli utenti –
la potenzialità lesiva dell\’omissione, il fatto che l\’attività cui si
stava dedicando è stata effettivamente rilevata da un\’utente sicché il
magazzino era comunque raggiungibile. Il motivo tende quindi,
inammissibilmente, a sollecitare una diversa lettura delle medesime
risultanze.



3. Le considerazioni che precedono
determinano anche l\’infondatezza dell\’ottavo motivo di ricorso,
considerato che la valutazione complessiva del comportamento addebitato
impone di considerare realizzata una violazione dei precetti che
derivano dall\’obbligo generale di diligenza, senza ricorso alle
specifiche previsioni del contratto collettivo.



4. La mancata individuazione
dell\’ufficio competente per i procedimenti disciplinari ad opera di
Metronapoli, che vi sarebbe stata tenuta in quanto ente di diritto
pubblico, è una circostanza che non risulta esaminata dalla Corte di
merito, né è stata proposta con i motivi del ricorso in appello quali
risultano dalla narrativa alle pp. 3 e 4 della narrativa del ricorso, né
la parte riferisce di averla sollevata nel giudizio di merito.



Il nono motivo di ricorso è quindi
inammissibile per novità della censura. Nel giudizio di cassazione
infatti, che ha per oggetto solo la revisione della sentenza in rapporto
alla regolarità formate del processo ed alle questioni di diritto
proposte, non sono proponibili nuove questioni di diritto o temi di
contestazione diversi da quelli dedotti nel giudizio di merito, a meno
che si tratti di questioni rilevabili di ufficio o, nell\’ambito delle
questioni trattate, di nuovi profili di diritto compresi nel dibattito e
fondati sugli stessi elementi di fatto dedotti (Cass. Sez. 1, n. 23675
del 18/10/2013, Sez. 1, n. 4787 del 26/03/2012, Sez. 3, n. 3664 del
21/02/2006).



5. Il decimo motivo è parimenti
inammissibile, considerato che esso valorizza il contenuto della lettera
di intimazione del licenziamento senza riprodurla, né allegarla al
ricorso, né indicarne la collocazione negli atti processuali, né
riportare il contenuto della regolamentazione che limiterebbe
all\’amministratore delegato la legittimazione ad adottare le sanzioni
disciplinari.



Risultano quindi violate le
prescrizioni desumibili dagli arti. 366 c. I n. 6 e 369 c. 2 n. 4 c.p.c.
(nel testo che risulta a seguito delle modifiche apportate dal D.l.vo
n. 40 del 2006, operante ratione temporis), nell\’interpretazione che ne
ha in più occasioni ribadito questa Corte, secondo la quale qualora il
ricorrente per cassazione si dolga dell\’omessa od erronea valutazione di
un documento da parte del giudice del merito, per rispettare il
principio di specificità dei motivi del ricorso – da intendere alla luce
del canone generale “della strumentalità delle forme processuali” – ha
l\’onere di indicare nel ricorso medesimo il contenuto rilevante del
documento stesso, fornendo al contempo alla Corte elementi sicuri per
consentirne l\’individuazione e il reperimento negli atti processuali:
ciò allo scopo di porre il Giudice di legittimità in condizione di
verificare la sussistenza del vizio denunciato, senza compiere generali
verifiche degli atti ( v. Cass. Sez. L, n. 17168 del 2012, Sez. 6 – 3,
Ord. n. 1391 del 23/01/2014, Sez. L, n. 3224 del 12/02/2014).



Non vi è modo quindi nel caso di
esaminare la fondatezza e decisività della doglianze al fine di
confutare la motivazione della Corte d\’Appello, che ha affermato che la
lettera di licenziamento è stata fumata dal direttore generale,
procuratore generale munito dei relativi poteri, con sottoscrizione
perfettamente leggibile in calce al provvedimento.



5. L\’undicesimo motivo è inammissibile
e ciò preclude l\’esame della questione avente ad oggetto la perdurante
vigenza delle richiamate disposizioni del R.D. n. 148/1931.



La gravità della violazione
complessivamente considerata e la sua proporzionalità alla massima
sanzione espulsiva è stata infatti desunta dal Tribunale dalla
violazione degli obblighi di diligenza e fedeltà derivanti direttamente
dalla legge, sicché la doglianza in relazione alla mancata applicazione
delle previsioni degli artt. 40 ss. del RD. n. 148 del 1931, che
contemplano solo alcuni degli aspetti della condotta realizzata, non
attiene a profilo del contendere connotato dal requisito della
decisività.



Parimenti inammissibile è la denuncia
di violazione dell\’art. 54 (che riconosce la competenza all\’irrogazione
delle sanzioni disciplinari più gravi ai consigli di disciplina,
costituiti presso ciascuna azienda o ciascuna dipendenza con direzione
autonoma e dei quali prevede la composizione e la nomina). Nel caso,
infatti, si riferisce a p. 35 che il consiglio di disciplina non sarebbe
stato istituito, senza ancorare tuttavia tale conclusione a precise
circostanze di fatto emerse nel giudizio di merito. Non risulta quindi
ricavabile dal ricorso, così come imposto dal principio di
autosufficienza, la denunciata violazione della norma di cui si sostiene
l\’applicabilità.



7. II dodicesimo motivo infine è infondato.



II ricorrente per censurare
[\’affermazione della Corte d\’Appello secondo la quale le disposizioni
riportate agli artt. 1.5, 4.1. e 4.6. si riferirebbero alle sole
violazioni del codice etico, ne riporta il contenuto, la cui
interpretazione è stata tuttavia compiuta dalla Corte in coerenza con il
contenuto letterale che a tali violazioni fa specifico riferimento. Né
osta la circostanza che tali disposizioni integrerebbero la disciplina
in materia di sanzioni disciplinari, in quanto ciò è possibile anche
affiancando alla normativa una diversa regolamentazione correlata ad
ipotesi particolari.



III. Conclusioni.



1. Alle superiori considerazioni segue
il rigetto del ricorso e la condanna della parte ricorrente al
pagamento delle spese processuali, liquidate come da dispositivo.



2. Il ricorso è stato notificato il
30.9.2013 e dunque in data successiva a quella (31.1.2013) di entrata in
vigore della L. 24 dicembre 2012, n. 228, il cui art. 1, comma 17, ha
integrato il D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, aggiungendovi il
comma 1 quater, del seguente tenore: “Quando l\’impugnazione, anche
incidentale è respinta integralmente o è dichiarata inammissibile o
improcedibile, la parte che l\’ha proposta è tenuta a versare un
ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto
per la stessa impugnazione, principale o incidentale, a norma dell\’art. 1
bis. Il giudice da atto nel provvedimento della sussistenza dei
presupposti di cui al periodo precedente e l\’obbligo di pagamento sorge
al momento del deposito dello stesso”. Essendo il ricorso rigettato,
deve provvedersi in conformità.



P.Q.M.



La Corte rigetta il ricorso. Condanna
parte ricorrente al pagamento delle spese processuali del presente
giudizio di legittimità, che liquida in £ 3.000,00 per compensi
professionali, oltre ad £ 100,00 per esborsi, spese generali nella
misura del 15% ed accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del
2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art.
1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento,
da parte del ricorrente, dell\’ulteriore importo a titolo di contributo
unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del 1 bis dello
stesso art. 13.

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