Dare dei “neonazisti” o dei “nazifascisti” agli esponenti di un partito di destra, che si richiama, più o meno esplicitamente, all’ideologia fascista, non può essere considerato diffamatorio.
Lo ha affermato, nella sentenza 19449 di oggi, la Corte di Cassazione, chiamata a decidere sul ricorso di un cittadino di Trieste accusato di aver diffamato gli esponenti di un noto partito di estrema destra, che aveva svolto proprio nella città friulana il suo raduno annuale. L’uomo, scandalizzato dal fatto che le autorità cittadine avessero autorizzato lo svolgimento della manifestazione proprio a Trieste, città nelle cui vicinanze si trovava l’unico lager nazista in Italia, aveva scritto a un giornale locale una serie di lettere, poi pubblicate, dove esprimeva tutta la sua indignazione e definiva i partecipanti all’evento “nazifascisti” e “neonazisti”. Il leader del partito reagiva denunciandolo per diffamazione, sottolineando che gli epiteti in questione erano lesivi e offensivi della dignità politica del partito, e non costituivano una qualifica ideologica, bensì una squalifica morale e politica. Il segretario insisteva inoltre sulla separazione storica tra le due ideologie, non negando l’adesione del suo partito all’ideologia fascista, ma sottolineando la distanza tra quest’ultima e quella nazista e di conseguenza l’offensività dell’identificazione tra le due. La questione, giunta in Tribunale, veniva risolta dai giudici di primo grado che assolvevano l\’imputato, mentre la corte d\’appello lo aveva condannato. La Suprema Corte, dopo un’interessante ricostruzione storica, ha annullato la sentenza d’appello, riconoscendo che le frasi dell’accusato non si possono considerare diffamatorie e offensive, dal momento che corrispondono alla verità a cui è approdata la storiografia, e cioè quella della collusione tra i due regimi totalitari. I giudici di Piazza Cavour hanno quindi assolto l’uomo, concedendogli l’esimente del diritto di critica.
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