giovedì, Maggio 2, 2024
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IMMIGRAZIONE: Bocciato il reato di “clandestinità”

Cronaca di una sconfitta annunciata. La Corte di giustizia europea boccia il testo unico sull’immigrazione in vigore in Italia, pesantemente emendato dalla legge Bossi-Fini (la 189/02), perché contrario alla direttiva 2008/115/CE. È infatti quest’ultima a delineare la procedura di esecuzione dei provvedimenti di espulsione dello straniero extracomunitario che soggiorna irregolarmente nel territorio di uno Stato membro della Ue: la modalità normale di esecuzione del provvedimento espulsivo è l’intimazione a lasciare lo Stato entro un termine non inferiore a sette giorni; si prevede anche la possibilità di disporre il trattenimento dello straniero in un Cie per un periodo massimo di diciotto mesi solo se non possano essere applicate altre misure sufficienti ma meno coercitive. Tutto ciò è profondamente difforme dal sistema italiano, che invece impone come regola l’allontanamento coattivo dello straniero e non prevede alcuna misura coercitiva diversa dal trattenimento in un Cie. E in caso di inottemperanza all’ordine di allontanamento la configurabilità dei delitti di cui all’articolo 14 commi 5ter e 5quater consente una privazione della libertà personale dello straniero ben superiore a diciotto mesi: reclusione fino a quattro anni, addirittura fino a cinque in caso di reiterazione. Insomma: una sanzione penale come quella prevista dalla legislazione italiana può compromettere la realizzazione dell’obiettivo di instaurare una politica efficace di allontanamento e di rimpatrio nel rispetto dei diritti fondamentali. La direttiva sul rimpatrio dei migranti irregolari, dunque, osta ad una normativa nazionale che punisce con la reclusione il cittadino di un paese terzo in soggiorno irregolare che non si sia conformato a un ordine di lasciare il territorio nazionale. Lo stabilisce la sentenza emessa nella causa C-61/11 PPU dalla prima sezione della Corte di giustizia Ue.

Lex mitior
La vicenda risolta dai giudici comunitari comincia con l’ingresso illegale in Italia di un extracomunitario. Nei suoi confronti è stato emanato nel 2004 un decreto di espulsione, sul cui fondamento è stato spiccato nel 2010 un ordine di lasciare il territorio nazionale entro cinque giorni. Quest’ultimo provvedimento era motivato dalla mancanza di documenti di identificazione, dall’indisponibilità di un mezzo di trasporto nonché dall’impossibilità – per mancanza di posti – di ospitarlo in un centro di permanenza temporanea. Non essendosi conformato a tale ordine, il migrante irregolare è stato condannato dal tribunale di Trento ad un anno di reclusione.
La Corte d’appello di Trento, dinanzi alla quale egli ha impugnato la sentenza, chiede alla Corte di giustizia di verificare l’“eurocompatibilità” delle norme italiane. I giudici italiani rilevano che la direttiva rimpatri stabilisce le norme e le procedure comuni con le quali s’intende attuare un’efficace politica di allontanamento e di rimpatrio delle persone, nel rispetto dei loro diritti fondamentali e della loro dignità. Gli Stati membri non possono derogarvi applicando regole più severe. La direttiva 2008/115/CE definisce con precisione la procedura da applicare al rimpatrio dei cittadini di paesi terzi il cui soggiorno sia irregolare e fissa la successione delle diverse fasi di tale procedura. La prima fase consiste nell’adozione di una decisione di rimpatrio: va accordata priorità a una possibile partenza volontaria, per la quale all’interessato è di regola impartito un termine compreso tra sette e trenta giorni. Nel caso in cui la partenza volontaria non sia avvenuta entro il termine previsto, la direttiva impone allora allo Stato membro di procedere all’allontanamento coattivo, prendendo le misure meno coercitive possibili. Soltanto se l’allontanamento rischia di essere compromesso dal comportamento dell’interessato, lo Stato membro può procedere al suo trattenimento. Conformemente alla direttiva rimpatri, il trattenimento deve avere durata quanto più breve possibile ed essere riesaminato a intervalli ragionevoli: esso deve cessare appena risulti che non esiste più una prospettiva ragionevole di allontanamento e la sua durata non può oltrepassare i diciotto mesi. Inoltre gli interessati devono essere collocati in un centro apposito e, in ogni caso, separati dai detenuti di diritto comune. La direttiva, pertanto, comporta una gradazione delle misure da prendere per dare esecuzione alla decisione di rimpatrio nonché l’obbligo di osservare il principio di proporzionalità in tutte le fasi della procedura. E la gradazione va dalla misura meno restrittiva per la libertà dell’interessato, ossia la concessione di un termine per la sua partenza volontaria, alla misura che maggiormente limita la sua libertà nell’ambito di un procedimento di allontanamento coattivo, vale a dire il trattenimento in un apposito centro. Insomma: la norma conunitaria persegue l’obiettivo di limitare la durata massima della privazione della libertà nell’ambito della procedura di rimpatrio e di assicurare così il rispetto dei diritti fondamentali dei cittadini dei paesi terzi in soggiorno irregolare. In proposito il collegio dei giudici Ue tiene conto, in particolare, della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. E rileva, poi, che la direttiva rimpatri non è stata trasposta nell’ordinamento giuridico italiano e ricorda che, in questi casi, i singoli sono legittimati ad invocare, contro lo Stato membro inadempiente, le disposizioni di una direttiva che appaiano, dal punto di vista sostanziale, incondizionate e sufficientemente precise. È il caso, nella fattispecie, degli articoli 15 e 16 della direttiva rimpatri. Al riguardo la Corte considera che la procedura di allontanamento italiana differisce notevolmente da quella stabilita da detta direttiva. I giudici di Lussemburgo ricordano pure che, se è vero che la legislazione penale rientra in linea di principio nella competenza degli Stati membri e che la direttiva rimpatri lascia questi ultimi liberi di adottare misure anche penali nel caso in cui le misure coercitive non abbiano consentito l’allontanamento, gli Stati membri devono comunque fare in modo che la propria legislazione rispetti il diritto dell’Unione. Pertanto essi non possono applicare una normativa, sia pure di diritto penale, tale da compromettere la realizzazione degli obiettivi perseguiti da una direttiva e da privare quest’ultima del suo effetto utile. La Corte considera dunque che gli Stati membri non possono introdurre, al fine di ovviare all’insuccesso delle misure coercitive adottate per procedere all’allontanamento coattivo, una pena detentiva, come quella prevista dalla normativa nazionale in discussione nel procedimento principale, solo perché un cittadino di un paese terzo, dopo che gli è stato notificato un ordine di lasciare il territorio nazionale e che il termine impartito con tale ordine è scaduto, permane in maniera irregolare in detto territorio. Gli Stati membri devono continuare ad adoperarsi per dare esecuzione alla decisione di rimpatrio, che continua a produrre i suoi effetti. Una tale pena detentiva, infatti, segnatamente in ragione delle sue condizioni e modalità di applicazione, rischia di compromettere la realizzazione dell’obiettivo perseguito dalla direttiva, ossia l’instaurazione di una politica efficace di allontanamento e di rimpatrio dei cittadini di paesi terzi il cui soggiorno sia irregolare nel rispetto dei loro diritti fondamentali.
Il giudice del rinvio, incaricato di applicare le disposizioni del diritto dell’Unione e di assicurarne la piena efficacia, dovrà quindi disapplicare ogni disposizione nazionale contraria al risultato d

ella direttiva (segnatamente, la disposizione che prevede la pena della reclusione da uno a quattro anni) e tenere conto del principio dell’applicazione retroattiva della pena più mite, il quale fa parte delle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri.

Fallimento previsto
Fin qui la Corte di Giustizia. Ora facciamo un passo indietro. La direttiva rimpatri risale al 16 dicembre 2008: l’Italia ha tempo fino al 24 dicembre 2010 per adeguarsi, ma non lo fa. Le norme europee diventano autoapplicanti (self executing) e il giudice nazionale deve disapplicare le leggi interne laddove siano in contrasto con i principi Ue. Con l’avvento del 2011 sulla Bossi-Fini si abbatte un vero e proprio terremoto giuridico, ma pochi sembrano accorgersene. Primi, anzi unici, a uscire allo scoperto, i penalisti: «La Bossi-Fini? È carta straccia», dicono; almeno questo è il succo del documento pubblicato dell’Osservatorio Europa dell’Unione delle Camere penali italiane (cfr. la successiva intervista con il presidente nella sezione “Focus”, edizione di mercoledì 13 aprile 2011: “Spigarelli (Ucpi): «Bossi-Fini a rischio stop dalla Corte Ue: incompatibile con la direttiva rimpatri»”). Già ai primi di gennaio arrivano le prime sentenze delle giurisdizioni di merito. Sono vari i giudici del merito che ormai disapplicano la norma incriminatrice contro gli stranieri che non obbediscono all’ordine dell’amministrazione di allontanarsi dall’Italia (tribunale di Cagliari, 14 gennaio 2011). Tanto che le stesse Procure della Repubblica, o almeno alcune delle più importanti in Italia, chiedono ai loro pm di inoltrare il fascicolo al Gip con la richiesta di non convalidare l’arresto per i reato di cui all’articolo 14, comma 5 ter e quater del d.lgs 286/98 perché ormai la misura coercitiva va ritenuta come eseguita fuori dai casi previsti dalla legge: su questa linea sono schierate Roma, Milano e Firenze, oltre che Lecce. E c’è perfino chi sostiene che il contrasto fra la disciplina di cui all’articolo 14 comma 5 quater del d.lgs 286/98 con il contenuto delle norme direttamente applicabili della direttiva 2008/115/CE impone che anche l’ordine di allontanamento presupposto del reato deve essere disapplicato dal giudice penale (tribunale di Nola, 17 febbraio 2011). La Corte d’appello di Trento, allora, rompe gli indugi e solleva la questione pregiudiziale di fronte alla Corte di giustizia europea. E ottiene la procedura d’urgenza perché l’imputato, un nordafricano pregiudicato per spaccio di droga, è detenuto per questa causa. Poi la Cassazione ci mette il carico da undici investendo essa stessa i giudici del Lussemburgo e denunciando le carenze tutte italiane dei Cie, centri di identificazione ed espulsione (cfr. «La Bossi-Fini perde i pezzi sotto i colpi della Ue» nella sezione “Ordinamento giudiziario”, edizione di mercoledì 30 marzo 2011). Il tutto mentre Lampedusa rischia di sprofondare sotto il peso dell’emergenza-Nordafrica e il dibattito politico, fra barconi strapieni e permessi umanitari, è egemonizzato dai temi dell’immigrazione ma non avverte – o forse non vuole o può farlo, nell’imminenza delle Amministrative – il corto circuito degli strumenti legislativi che dovrebbero governare il fenomeno. E la deriva continua. C’è perfino chi si rivolge alla Consulta: la questione di legittimità è sollevata dal giudice unico di Modica (cfr. l’arretrato di 28 marzo 2011 nella sezione “Merito”: «Direttiva rimpatri, Italia inadempiente: a rischio-incostituzionalità il carcere ai clandestini espulsi»). È così, ad esempio, che il giudice di pace di Torino assolve lo straniero accusato di ingresso e soggiorno illegale «perché il fatto non costituisce reato» (sentenza 314 del 22 febbraio 2011). L’ultima tegola arriva dal tribunale di Bologna che dispone ex articolo 673 Cpp la revoca della sentenza di condanna allo straniero per l’inottemperanza all’ordine di allontanamento dall’Italia (16 marzo 2011). E oggi la Corte di giustizia Ue pronuncia la parola definitiva.
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