martedì, Maggio 14, 2024
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LAVORO & TANGENTI: Licenziamento per giusta causa

        

CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 08 novembre 2013, n.
25194

Lavoro – Lavoro subordinato – Licenziamento – Giusta causa –
Tangenti – Rapporto fiduciario

 

Svolgimento del processo

 

1. La Corte d’Appello di Milano, con la sentenza n. 8
del 19 ottobre 2010 – 25 gennaio 2011, pronunciando sull’impugnazione proposta
da P. C., nei confronti della società ABB spa (già ABB P. T. spa), avverso la
sentenza di Tribunale di Milano n. 2268/07, rigettava l’appello e condannava
l’appellante a rimborsare alla controparte le spese del grado, come liquidate
nel dispositivo.

2. Il Tribunale di Milano aveva rigettato sia la
domanda con la quale P. C., con la qualifica di dirigente e direttore,
licenziato per giusta causa dalla società ABB spa il 21 giugno 2004, aveva
chiesto la condanna della suddetta società, ex datrice di lavoro, al pagamento
delle indennità di preavviso e supplementare, oltre al risarcimento dei danni,
sia la domanda riconvenzionale proposta dalla società ABB spa per la legittimità
del recesso.

3. Per la cassazione della sentenza resa in grado di
appello ricorre C., prospettando sei motivi di ricorso,

4. Resiste con controricorso la società ABB spa (già
ABB P. Thec no logica spa), deducendo in via preliminare l’inammissibilità del
ricorso per tardività.

5. In prossimità dell’udienza pubblica entrambe le
parti hanno depositato memorie.

 

Motivi della decisione

 

1. Preliminarmente, deve essere disattesa l’eccezione
di inammissibilità del ricorso proposta dalla società ABB spa (già ABB P. T.
spa).

La controricorrente invoca l’art. 360-bis c.p.c.,
introdotto dall’art 47, comma 1, della legge 18 giugno 2009, n. 69, deducendone
l’applicabilità alla fattispecie in esame, atteso che la legge da ultimo
richiamata è entrata in vigore il 4 luglio 2009.

Detta norma stabilisce che “Il ricorso è
inammissibile:

1) quando il provvedimento impugnato ha deciso le
questioni di diritto in modo conforme alla giurisprudenza della Corte e l’esame
dei motivi non offre elementi per confermare o mutare l’orientamento della
stessa;

2) quando è manifestamente infondata la censura
relativa alla

violazione dei principi regolatori del giusto
processo”.

Va ricordato che ai sensi dell’art. 58, comma 1,
della medesima legge n. 69 del 2009: “Fatto salvo quanto previsto dai commi
successivi, le disposizioni della presente legge che modificano il codice di
procedura civile e le disposizioni per l\’attuazione del codice di procedura
civile si applicano ai giudizi instaurati dopo la data della sua entrata in
vigore”.

Il successivo comma 5 stabilisce: “Le disposizioni di
cui al l’articolo 47 si applicano alle controversie nelle quali il provvedimento
impugnato con il ricorso per cassazione è stato pubblicato ovvero, nei casi in
cui non sia prevista la pubblicazione, depositato successivamente alla data di
entrata in vigore della presente legge”.

L’eccezione non è fondata atteso che i motivi di
ricorso non si limitano ad una mera contestazione delle statuizioni della
sentenza di appello e dei principi della giurisprudenza di legittimità dalla
stessa applicati, ma svolgono una prospettazione difensiva critica (cfr., Cass.,
S.U., ord. 6 settembre 2010, n. 19051) che impinge, nella prospettazione del
ricorrente la sussistenza della giusta causa di licenziamento.

2. Con il primo motivo di ricorso è dedotta:

omessa e/o insufficiente e/o contraddittoria
motivazione della sentenza impugnata (art. 360, n. 5, c.p.c.) circa un fatto
controverso e decisivo per il giudizio, nella parte in cui la Corte d’Appello ha
affermato la responsabilità (e di conseguenza la legittimità del licenziamento)
di esso ing. P., in ordine alla contestazione (contenuta nella lettera di
licenziamento del 21 giugno 2004) della vicenda delle tangenti Enipower., per il
fatto che – a dire di essa Corte – “non sarebbe contestata la conclusione
dell’accordo corruttivo” e per il fatto che – sempre a dire della Corte — non
potrebbe “sostenersi da parte dell’appellante (P.) che egli fosse mero esecutore
di ordini”;

omessa valutazione da parte della Corte d’Appello del
coinvolgimento e del ruolo (delle prove e/o comunque degli indizi gravi, precisi
e concordanti presenti in giudizio in ordine al coinvolgimento ed al ruolo) del
superiore gerarchico nella vicenda del pagamento della tangente Enipower;

omessa valutazione da parte della Corte d’Appello
delle prove della (e/o comunque indizi gravi, precisi e concordanti acquisiti al
giudizio in ordine alla) conoscenza, consapevolezza, autorizzazione e consenso
della ABB quanto al pagamento della tangente e della prassi tangentizia in
generale.

La Corte d’Appello, nel confermare la sentenza di
primo grado in ordine alla ritenuta responsabilità dell’attuale ricorrente
quanto al pagamento della tangente Enipower, assumeva non contestata la
conclusione dell’accordo corruttivo per assicurare l’aggiudicazione di appalti
alla propria società, oltre al pagamento di due tranche, come, secondo la Corte,
confermato anche nell’interrogatorio in sede penale, laddove l’appellante aveva
patteggiato la pena – vantando di avere ottenuto una riduzione rispetto alla
richiesta dell’altra parte, ancorché il danaro fosse stato materialmente versato
da altro funzionario e che, non poteva sostenersi da parte dell’appellante che
esso fosse mero esecutore di ordini, in ragione della carica di amministratore
delegato da lui ricoperta al momento della conclusione dell’accordo corruttivo
in una delle società del gruppo, mentre all’atto del secondo pagamento non aveva
certo un superiore gerarchico.

Nel fare ciò, il giudice di secondo grado non avrebbe
tenuto conto di vari plurimi fatti dedotti e comprovati in causa da esso
ricorrente, come ampiamente illustrati nel presente ricorso, dai quali emergeva,
ad avviso di esso ricorrente, quanto segue.

Il coinvolgimento del superiore gerarchico del
ricorrente con il quale quest’ultimo accettava di pagare una commissione del 2%
al funzionario tecnico Enipower, come indicato nella lettera di licenziamento
del 21 giugno 2004, costituirebbe circostanza da cui, ad avviso di esso
ricorrente, sarebbe dimostrato che esso aveva agito con la piena consapevolezza
ed approvazione della ABB, rispettando il vincolo fiduciario.

L’accordo corruttivo con il funzionario Enipower era
stato ideato ed organizzato dal superiore gerarchico del P. come si rilevava
dall’interrogatorio reso dal funzionario Enipower davanti alla Procura della
Repubblica di Milano il 6 settembre 2004.

Il soggetto corruttore era il superiore gerarchico
del P. e quest’ultimo era stato coinvolto in tale vicenda per curare
l’esecuzione di un accordo corruttivo già concluso.

Assume il ricorrente la sussistenza di una prassi
tangentizia di ordinaria pratica in ABB e più in generale nell’aggiudicazione
degli appalti nei settori dell’energia, per cui esso ricorrente non aveva
disatteso una ipotetica metodologia di ABB, ma al contrario era stato coinvolto
da ABB in prassi usuali, come si poteva rilevare dalla documentazione prodotta
nei precedenti gradi di giudizio e riportata, illustrandola e riproducendola,
nell’odierno ricorso.

La società ABB, espone il ricorrente, era stata
indagata, sia in relazione all’episodio di corruzione che dava luogo al
licenziamento, sia in relazione agli ulteriori episodi di corruzione emersi, in
qualità di ente, ai sensi del d.lgs. n. 231 del 2001 per “non avere adottato ed
efficacemente attuato modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire
reati della specie di quello verificatosi, con ciò traendo dalla condotta
delittuosa del sottoposto – il quale non ha agito nell’interesse esclusivo
proprio o di terzi – un profitto di rilevante entità”. In ordine a tale
imputazione il P. espone che la ABB con sentenza di applicazione della pena ex
art. 444 c.p.c., del 27 aprile 2000, patteggiava la pena di euro 200.000,00.

La suddetta società, quindi, prospetta il ricorrente,
non era estranea ai fatti corruttivi commessi dai propri dipendenti.

Deduce il ricorrente che il pagamento di tangenti era
prassi diffusa in tutto il settore dell’energia.

Conclusivamente il ricorrente evidenzia che dalla
documentazione versata in atti, diversamente da quanto ritenuto dalla Corte
d’Appello, emerge che esso non aveva violato il vincolo fiduciario che, in
qualità di dirigente lo legava alla società ABB, ma al contrario aveva osservato
tale vincolo, eseguendo le direttive impartite dal superiore ed adeguandosi alle
prassi largamente invalse nel gruppo ABB e nel settore dell’energia.

3. Con il secondo motivo è dedotta violazione e falsa
applicazione degli artt. 1175, 1375, 1419 (in relazione all’art. 1420), 2094,
2104, comma 2, c.c. (in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c.). Vizio logico e di
motivazione (art. 360, n. 5, c.p.c.), nella parte in cui la Corte territoriale
afferma che “l’avere eseguito un ordine superiore illegittimo, addirittura
costituente reato, non può giustificare l’inadempimento”.

Espone il ricorrente che la nullità delle direttive
del datore di lavoro, impartite ai sensi dell’art. 2104, comma 2, cc, non
comporta, all’evidenza, la nullità del rapporto di lavoro nella sua interezza, e
la illiceità nell’esecuzione delle direttive in parola, intese alla dazione di
tangenti, non comporta inadempimento della prestazione lavorativa dovuta dal
lavoratore in forza del contratto, non pregiudicato da nullità parziale.

Nella sentenza non sarebbe contenuta alcuna
motivazione che giustifichi l’asserito inadempimento della prestazione
principale, per effetto dell\’adempimento della prestazione illecita richiesta
dal datore di lavoro.

4. Con il terzo motivo di ricorso è dedotta
contraddittoria, comunque, insufficiente motivazione riguardo un fatto
controverso e decisivo per il giudizio.

Violazione dell’art. 360, n. 5, c.p.c., nella parte
in cui la Corte territoriale afferma che “eventuali prassi invalse nel gruppo
(ancorché emergenti dagli atti penali, che vedono la società citata per la
responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, ai sensi del d.Igs. n.
231 del 2001), non possono far venir meno la responsabilità dell’appellante per
i fatti commessi – sia pure senza ritrarre alcun vantaggio personale, come pure
è emerso in sede penale – idonei, trattandosi pur sempre di reati, a far venire
meno la fiducia e a giustificare il recesso immediato”.

Ad avviso del ricorrente sarebbe viziata la
motivazione della Corte d’Appello che ritiene atto idoneo a far venire meno la
fiducia del datore di lavoro l’esecuzione da parte del dirigente di ordini
impartiti dal datore di lavoro, nell’interesse economico dell’impresa.

5. Con il quarto motivo di ricorso è prospettata
omessa e/o insufficiente e/o contraddittoria motivazione della sentenza
impugnata (in relazione all’art. 360, n. 5, c.p.c.) circa un fatto controverso e
decisivo per il giudizio, quanto all’affermata responsabilità dell’ing. P. in
ordine alle irregolarità contabili accertate nella Unità di Media Tensione di
ABB, sull’assunto che – a dire della Corte – esso P. “essendo al corrente delle
irregolarità, avrebbe omesso di intervenire nei confronti dei manager
coinvolti… e di informare il presidente della società se non in modo lacunoso
e parziale”.

Espone il ricorrente, ripercorrendo le difese svolte
nei precedenti gradi di giudizio, di aver impugnato il licenziamento
evidenziando, tra l’altro, di non essere a conoscenza già nella primavera del
2003 del buco di 70 milioni di euro della Unità di Media Tensione, e di avere
avuto conoscenza di tale buco solo nell’aprile 2004 e che aveva provveduto ad
informare i suoi superiori ed era divenuto responsabile della suddetta unità
solo dal 1° maggio 2002.

Il ricorrente impugna, per vizio di motivazione,
anche la statuizione della Corte d’Appello relativa alle manipolazioni
contabili. La Corte d’Appello, in proposito non avrebbe preso in considerazione
plurime circostanze documentate in giudizio e non aveva accolto la richiesta di
prova testimoniale.

In particolare il ricorrente richiama le prove
illustrate nelle difese dei diversi gradi di giudizio, della esistenza delle
manipolazioni contabili (recte: della esistenza di una vera e propria prassi
riguardo alle manipolazioni contabili) nella Unità di Media Tensione, molto
prima che esso ricorrente divenisse responsabile di detta unità dal 1° maggio
2002, nonché le prove del coinvolgimento (e o comunque della conoscenza di) tali
manipolazioni (recte: di tale prassi) da parte dei superiori gerarchici di esso
ricorrente; le prove che esso ricorrente era stato tenuto all’oscuro e non era
dunque a conoscenza della (anzi era stato ingannato nonostante le sue richieste
di chiarimenti e trasparenza riguardo alla) reale situazione della suddetta
Unità fino all’aprile 2004 e che pertanto le iniziative dallo stesso intraprese,
sia intermini di informazione sia in termini di provvedimenti, prima di detta
data, erano state del tutto adeguate alla posizione dall’esponente ricoperta e
alle false rappresentazioni dei fatti allo stesso fomite e delle quali (sole),
lo stesso P. era a conoscenza.

6. Con il quinto motivo di ricorso è prospettata
omessa motivazione (in relazione all’art. 360, n. 5, c.p.c.) su un fatto
decisivo per il giudizio, quanto alla non ammissione delle istanze istruttorie
di prova per testimoni formulate da esso P. nelle difese depositate nel corso
del giudizio di primo grado (non ammesse) e riproposte davanti alla Corte
territoriale.

Esso ricorrente, sin dal primo grado di giudizio,
aveva chiesto prova testimoniale su capitoli di prova aventi ad oggetto la
esatta ricostruzione dei fatti in relazione alle contestazioni in base alle
quali la società ABB aveva intimato il licenziamento.

In particolare, il ruolo del superiore gerarchico di
esso ricorrente e il fatto che in ABB e in generale nel settore dell’energia,
fosse prassi il pagamento di tangenti per acquisire appalti. Sia il giudice di
primo grado che la Corte d’Appello non ammettevano le prove richieste senza
offrire motivazione in merito.

7. Con il sesto motivo di ricorso è dedotta erroneità
della sentenza nella parte in cui la Corte d’Appello ha affermato che “risultano
assorbite le domande risarcitorie dell’appellante, che, a differenza delle
indennità contrattuali, non sembrano essere state riproposte”. Violazione e
falsa applicazione (ai sensi dell’art. 360, n. 3, c.p.c.) (tra l’altro) delle
norme di cui all’art. 277 c.p.c., in relazione agli artt. 434 e 414, n. 4
c.p.c.. Omessa e/o insufficiente motivazione (ai sensi dell’art. 360, n.5.
c.p.c.).

II ricorrente rileva come nella motivazione della
sentenza la Corte d’Appello afferma che le domande risarcitorie non sembrano
essere state riproposte. Ciò non troverebbe riscontro negli atti processuali
tenuto conto del contenuto del ricorso in appello le cui conclusioni sono
riportate nell’’odierno ricorso, da cui la dedotta violazione delle norme sopra
indicate e del vizio di motivazione.

8. Il primo, il secondo, il terzo, il quarto ed il
quinto motivo di ricorso, come esposti in ricorso, devono essere trattati
congiuntamente in ragione della loro connessione. Gli stessi non sono fondati e
devono essere rigettati.

Questa Corte (Cass, n. 7838 del 2005, n. 18247 del
2009) ha affermato – e qui ribadisce- che la giusta causa di licenziamento,
quale fatto il che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del
rapporto”, è una nozione che la legge – allo scopo di un adeguamento delle norme
alla realtà da disciplinare, articolata e mutevole nel tempo – configura con una
disposizione (ascrivibile alla tipologia delle c.d. clausole generali) di
limitato contenuto, delineante un modulo generico che richiede di essere
specificato in sede interpretativa, mediante la valorizzazione sia di fattori
esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa
disposizione tacitamente richiama; tali specificazioni del parametro normativo
hanno natura giuridica e la loro disapplicazione è quindi deducibile in sede di
legittimità come violazione di legge, mentre l\’accertamento della concreta
ricorrenza, nel fatto dedotto in giudizio, degli elementi che integrano il
parametro normativo e le sue specificazioni, e della loro concreta attitudine a
costituire giusta causa di licenziamento, si pone sul diverso piano del giudizio
di fatto, demandato al giudice di merito e incensurabile in cassazione se privo
di errori logici o giuridici.

Quindi, occorre distinguere; è solo l\’integrazione
giurisprudenziale a livello generale ed astratto della nozione di giusta causa
che si colloca sul piano normativo e consente una censura per violazione di
legge; mentre l\’applicazione in concreto del più specifico canone integrativo,
così ricostruito, rientra nella valutazione di fatto devoluta al giudice di
merito e non è censurabile in sede di legittimità se non per vizio di
motivazione insufficiente o contraddittoria.

Nel caso di specie, il ricorrente non estrae dalla
applicazione che la sentenza impugnata fa della nozione di “giusta causa” una
puntualizzazione generale ed astratta per poi censurarla (ex art. 360 c.p.c.,
comma 1, n. 3) come errata in diritto e quindi sub specie del vizio di
violazione di legge, ma si limita a ripercorrere la valutazione degli addebiti
contestati al lavoratore al fine di prospettare a questa Corte che la
valutazione (di merito) operata dalla Corte d’Appello – e prima ancora (in
termini conformi) dal tribunale – è stata contraddittoria o insufficiente e che
viceversa i comportamenti in questione non sarebbero potuti rientrare nella
nozione di “giusta causa” di licenziamento.

Questo tipo di critica alla sentenza impugnata rimane
nell’ambito del merito, laddove, sotto i diversi profili illustrati nei motivi
di ricorso, si espone che la condotta contestata al P., sia per gli accordi
corruttivi che per le irregolarità contabili, non poteva ledere il vincolo
fiduciario, in particolare, in ragione della riferibilità al superiore
gerarchico e delle assunte prassi aziendali, e quindi le censure mosse dalla
ricorrente con i primi cinque motivi di ricorso, pur se rubricate anche e
soprattutto come vizio di violazione di legge, non vanno al di là della
deduzione di un vizio di motivazione insufficiente o contraddittoria della
sentenza impugnata.

Tanto osservato, dunque, è opportuno ricordare come,
con riguardo al vizio di motivazione, questa Corte ha affermato che il vizio di
omessa o insufficiente motivazione, deducibile in sede di legittimità ex art.
360, n. 5, c.p.c., sussiste solo se nel ragionamento del giudice di merito,
quale risulta dalla sentenza, sia riscontrabile il mancato o deficiente esame di
punti decisivi della controversia e non può invece consistere in un
apprezzamento dei fatti e delle prove in senso difforme da quello preteso dalla
parte, perché la citata norma non conferisce alla Corte di legittimità il potere
di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare,
sotto il profilo logico-formale e della correttezza giuridica, l’esame e la
valutazione fatta dal giudice del merito al quale soltanto spetta di individuare
le fonti del proprio convincimento e, a tale scopo, valutare le prove,
controllarne l\’attendibilità e la concludenza, e scegliere tra le risultanze
probatorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione (Cass., n.
6288 del 2011).

Con specifico riguardo alla valutazione delle
risultanze istruttorie la giurisprudenza di legittimità ha, già prima, affermato
che è inammissibile il motivo di ricorso per cassazione con il quale la sentenza
impugnata venga censurata per vizio di motivazione, ai sensi dell’art. 360 n. 5
c.p.c., qualora esso intenda far valere la rispondenza della ricostruzione dei
fatti operata dal giudice al diverso convincimento soggettivo della parte e, in
particolare, prospetti un preteso migliore e più appagante coordinamento dei
dati acquisiti, atteso che tali aspetti del giudizio, interni all\’ambito di
discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell\’apprezzamento dei
fatti, attengono al libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi del
percorso formativo di tale convincimento rilevanti ai sensi della disposizione
citata. In caso contrario, infatti, tale motivo di ricorso si risolverebbe in
una inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti del
giudice di merito, e perciò in una richiesta diretta all\’ottenimento di una
nuova pronuncia sul fatto, estranea alla natura ed alle finalità del giudizio di
cassazione (Cass., n. 7394 del 2010).

La Corte d’Appello di Milano, con la sentenza
impugnata, ha precisato che a norma dell’art. 2396 cc, nei confronti dei
direttori generali, sono fatte salve le azioni esercitagli in base al rapporto
di lavoro con la società. In tal modo, si è sottolineata l’analogia del rapporto
del direttore generale e dell’amministratore con la società sotto il profilo
della responsabilità, che presuppone un’autonomia della società di capitali,
come soggetto dotato di personalità giuridica, dagli amministratori e dal
direttore generale.

L’art. 2396 c.c., infatti, estende la disciplina
della responsabilità degli amministratori ai “direttori nominati dall’assemblea
o per disposizione dell\’atto costitutivo, in relazione ai compiti loro
affidati”.

La giurisprudenza di questa Corte ha conseguentemente
affermato che “al direttore generale può essere estesa la stessa disciplina
prevista per la responsabilità degli amministratori qualora la sua nomina sia
stata prevista nell\’atto costitutivo o sia stata deliberata dall\’assemblea,
entrando in questi casi la sua figura a far parte della struttura tipica della
società” (Cass., n. 28819 del 2008).

Il legislatore nell’art. 2396 c.c., non ha offerto
una definizione di direttore generale legata al contenuto intrinseco delle
mansioni, ma ha ricollegato la responsabilità di tale soggetto alla sua
posizione apicale all\’interno della società, desunta dal dato formale della
nomina da parte dell\’assemblea o anche da parte del consiglio di
amministrazione, in base ad apposita previsione statutaria (citata Cass., n.
28819 del 2008).

Posta questa precisazione, la Corte d’Appello ha
ritenuto, confermando la sentenza di primo grado, che la condotta del P.,
relativa al pagamento della tangente Enipower, integrante fattispecie di reato,
faceva venir meno la fiducia del datore di lavoro e giustificava il recesso
immediato.

Il Tribunale aveva ritenuto sussistere la
giustificatezza del recesso non essendo risultato che gli accordi corruttivi, di
cui si era reso protagonista il ricorrente, gli fossero stati imposti da
superiori gerarchici avendovi invece personalmente concordato le tangenti con le
relative modalità di pagamento per l’assegnazione dei contratti da Enipower alla
ABB, anche in forza delle cariche ricoperte nella società, come era stato
accertato in sede penale e che le ragioni interne non potessero giustificare il
superamento dei limiti di liceità, giudicando assorbiti gli altri fatti
contestati.

Ha ritenuto la Corte d’Appello:

non essere contestata la conclusione dell’accordo
corruttivo per assicurare l’aggiudicazione di appalti alla propria società e il
pagamento di due tranche;

che non poteva sostenersi il ruolo di mero esecutore
di ordini, per l’incarico ricoperto;

che l’esecuzione di un ordine superiore illegittimo,
addirittura costituente reato non poteva giustificare l’inadempimento;

che le eventuali prassi invalse nel gruppo (ancorché
emergenti dagli stessi atti penali, che vedono la società citata per la
responsabilità amministrativa delle persone giuridiche ai sensi del d.lgs. n.
231 del 2001), non possono far venire meno la responsabilità dell’appellante per
i fatti commessi, sia pure senza trame vantaggio personale, idonei, trattandosi
pur sempre di reati, a far venire meno la fiducia e a giustificare il recesso
immediato;

che anche la contestazione riguardante le
manipolazioni contabili poteva ritenersi provata avendo il P. omesso di
intervenire nei confronti dei manager coinvolti, ciò tenuto conto altresì, che
come esposto dalla società appellata il P. aveva ammesso all’auditor
nell’intervista del 18 aprile, oltre all’esistenza del fatto corruttivo, anche
la conoscenza in epoca anteriore del reale ammontare delle prefatturazioni.

Nell’articolare la motivazione si può rilevare che la
Corte d’Appello ha fatto corretta applicazione dei principi enunciati dalla
giurisprudenza di legittimità che ha affermato come nel giudicare se la
violazione disciplinare addebitata al lavoratore abbia compromesso la fiducia
necessaria ai fini della permanenza del rapporto di lavoro, e quindi costituisca
giusta causa di licenziamento, va tenuto presente che è diversa l’intensità
della fiducia richiesta, a seconda della natura e della qualità del singolo
rapporto, della posizione delle parti, dell\’oggetto delle mansioni e del grado
di affidamento che queste richiedono, e che il fatto concreto va valutato nella
sua portata oggettiva e soggettiva, attribuendo rilievo determinante, ai fini in
esame, alla potenzialità del medesimo di porre in dubbio la futura correttezza
dell\’adempimento (Cass., n. 22798 del 2012, n. 17092 del 2011). La valutazione
delle prove ai fini dell\’accertamento della sussistenza dell’illecito
disciplinare contestato al lavoratore, la idoneità di tali illeciti a
configurare giusta causa di licenziamento e l\’apprezzamento della
proporzionalità della sanzione espulsiva agli illeciti contestati, si
sostanziano in valutazioni di fatto riservate al giudice di merito e non
suscettibili di riesame in sede di legittimità se non per vizi di motivazione.
Nella specie le valutazioni delle risultanze probatorie operate dal giudice di
appello sono congruamente motivate e l’iter logico- argomentativo che sorregge
la decisione è chiaramente individuabile, non presentando alcun profilo di
manifesta illogicità o insanabile contraddizione.

In particolare, non vale ad escludere la congruità ed
adeguatezza della motivazione il fatto che la condotta del P. dovesse
inscriversi in una prassi di settore, dal momento che ciò non esclude
l’illiceità della condotta e la responsabilità del ricorrente circa i fatti in
questione che integrano una grave violazione dei doveri di fedeltà da parte del
lavoratore idonea, per le modalità concrete con cui essa si

manifesta, ad arrecare un pregiudizio, non
necessariamente di ordine economico, agli scopi aziendali, tra i quali non può
annoverarsi il procacciare affari tramite accordi corruttivi integranti
fattispecie di reato o l’effettuazione di manipolazioni contabili per far
apparire utili fittizi o coprire minusvalenze patrimoniali. Né la correttezza e
congruità della motivazione viene scalfita dai motivi di appello relativi alle
deduzioni istruttorie, in ragione della suddetta violazione dei doveri di
fedeltà propri del P. in ragione della qualifica dello stesso.

Alla non fondatezza dei primi cinque motivi di
ricorso consegue l’assorbimento del sesto motivo di ricorso.

Il ricorso deve essere rigettato.

Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come
in dispositivo. 

P.Q.M. 

Rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al
pagamento delle spese di giudizio che liquida in euro quattromila per compenso
professionale, euro cinquanta per esborsi, oltre accessori.

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