martedì, Maggio 7, 2024
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INTERCETTAZIONI “POLITICHE”: La Corte costituzionale mette i paletti per definire il confine tra intercettazioni “indirette” e “casuali”.

Mentre il tema delle intercettazioni telefoniche è sempre al centro del dibattito politico-mediatico, con due decisioni la Corte costituzionale interviene a fissare le regole che presiedono le intercettazioni del parlamentare.

Nel ritornare sulla questione, che era già stata affrontata nella sentenza n. 390 del 2007 (con cui era stata dichiarata l’illegittimità dell’art. 6, commi 2, 5 e 6, l. n. 140 del 2003, nella parte in cui stabiliva che, in caso di diniego dell’autorizzazione da parte della Camera, la documentazione delle intercettazioni “casuali” di conversazioni o comunicazioni di membri del Parlamento dovesse essere immediatamente distrutta e fosse comunque inutilizzabile anche nei confronti di soggetti diversi dal parlamentare), la Corte ha propugnato una nozione restrittiva di intercettazioni “casuali”, per le quali non occorre alcuna autorizzazione da parte della Camera di appartenenza del parlamentare.

La questione di legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 2, l. legge 20 giugno 2003, n. 140 era stata sollevata sia dal tribunale per i reati ministeriali presso il Tribunale di Roma aveva sollevato, sia dal g.i.p. che dal tribunale di Napoli; secondo i remittenti, pur con diverse sfumature, la norma censurata sarebbe incostituzionale nella parte in cui prevede l’obbligo per il giudice per le indagini preliminari di richiedere alla Camera di appartenenza l’autorizzazione all’utilizzo delle intercettazioni di conversazioni o di comunicazioni cui ha preso parte un membro del Parlamento.

Ad avviso dei remittenti, la norma censurata introdurrebbe una garanzia a tutela della riservatezza dei parlamentati non solo non prevista dall’art. 68, terzo comma, Cost. ma anche ingiustificata rispetto al trattamento riservato alla generalità dei cittadini e, come tale, lesiva del principio di eguaglianza.

La latidutine della protezione accordata alla riservatezza del parlamentare comporterebbe l’eliminazione dal panorama processuale, tramite la sanzione di inutilizzabilità, di una prova legittimamente formata che spesso soi rivela decisiva. Incalzano i giudici partenopei: la disciplina censurata lederebbe anche gli artt. 102 e 104, primo comma, Cost., giacché, in contrasto con il principio di separazione dei poteri, attribuirebbe alle Camere un potere di sindacato sulla gestione processuale di una prova già legittimamente formata.

La Corte, in entrambi i casi, ha dichiarato le questioni inammissibili per carenza di descrizione della fattispecie e, quindi, per difetto di motivazione sulla rilevanza; matrice comune delle due sentenze, è l’accoglimento di una nozione restrittiva di intercettazione “casuale”

Nella sentenza n. 113, la Corte ha preso le mosse dalla decisione n. 390 del 2007, in cui si era sottolienato che la disciplina dell’autorizzazione preventiva, delineata dall’art. 4 della legge n. 140 del 2003 in attuazione dell’art. 68, terzo comma, Cost., deve trovare applicazione «tutte le volte in cui il parlamentare sia individuato in anticipo quale destinatario dell’attività di captazione»: dunque, non soltanto quando siano sottoposti ad intercettazione utenze o luoghi appartenenti al soggetto politico o nella sua disponibilità (intercettazioni «dirette»), ma anche quando lo siano utenze o luoghi di soggetti diversi, che possono tuttavia «presumersi frequentati dal parlamentare» (intercettazioni «indirette»).

La disciplina dell’autorizzazione successiva, prevista dall’art. 6, si riferisce alle intercettazioni «casuali» (o «fortuite»), rispetto alle quali, cioè – «proprio per il carattere imprevisto dell’interlocuzione del parlamentare» – «l’autorità giudiziaria non potrebbe, neanche volendo, munirsi preventivamente del placet della Camera di appartenenza».

La Corte ha eslcuso che, nella vicenda concreta, si fosse in presenza di intercettazioni “casuali”, come ritenuto erronamente dal tribunale dei ministri, sul presupposto che sono tali le conversazioni del parlamentare captate in sede di sottoposizione a controllo di una determinata utenza nella disponibilità di terzi, peraltro nell’ambito di una camplessa attività investigativa.

In un contesto investigativo del genere, in cui l’attività di intercettazione era stata articolata e prolungata nel tempo, la verifica della “casualità” della conversazione captata «deve farsi, di necessità, particolarmente stringente».

La Corte ha sottolineato con forza questo aspetto: ove, «nel corso dell’attività di intercettazione emergano, non soltanto rapporti di interlocuzione abituale tra il soggetto intercettato e il parlamentare, ma anche indizi di reità nei confronti di quest’ultimo, non si può trascurare l’eventualità che intervenga, nell’autorità giudiziaria, un mutamento di obbiettivi: nel senso che – in ragione anche dell’obbligo di perseguire gli autori dei reati – le ulteriori intercettazioni potrebbero risultare finalizzate, nelle strategie investigative dell’organo inquirente, a captare non più (soltanto) le comunicazioni del terzo titolare dell’utenza, ma (anche) quelle del suo interlocutore parlamentare, per accertarne le responsabilità penali».

In tal caso, quindi, non può più parlarsi di interecettazioni “casuali”, con la conseguenza che le successive captazioni delle comunicazioni del membro del Parlamento, «diventerebbero “mirate” (e, con ciò, «indirette»), esigendo quindi l’autorizzazione preventiva della Camera, ai sensi dell’art. 4».

Un profilo – ossia “se” e “quando” il parlamentare era divenuto “bersaglio” dell’attività di intercettazione – che il remittente non aveva preso in considerazione. La Corte ha peraltro escluso che la rilevanza della questione sarebbe implicita quantomeno in relazione alle prima o alle prime fra le intercettazioni delle conversazioni dei soggetti politici, che di per sè meriterebbero l’appellativo di “casuali”.

Da un lato, infatti, «una drastica riduzione del numero delle intercettazioni ricadenti nel regime dell’art. 6 – per essere tutte le altre radicalmente inutilizzabili, per il mancato rispetto dell’art. 4 – imporrebbe al rimettente di rivedere l’apprezzamento circa l’effettiva necessità di utilizzare le intercettazioni in discorso nell’ambito del procedimento principale: necessità che, ai sensi dello stesso art. 6, costituisce il presupposto affinché insorga l’obbligo di richiedere l’autorizzazione ivi prevista»; dall’altro, il gudice a quo «non afferma neppure, in modo espresso ed inequivoco, che il «coinvolgimento» dei parlamentari sia emerso, per la prima volta, a seguito della diretta e personale interlocuzione dei parlamentari medesimi con uno dei soggetti sottoposti a intercettazione (…) e non, piuttosto, a seguito del semplice riferimento ai parlamentari fatto dai soggetti intercettati nel corso di colloqui, eventualmente anche precedenti, con terzi. Le medesime conclusioni sono state affermate nella sentenza n. 114.

Anche in quel caso, i giudici rimettenti avevano affermato la natura “casuale” delle intercettazioni in termini sostanzialmente apodittici, facendola discendere dalla sola circostanza che l’attività di captazione era stata disposta su utenze in uso ad altri indagati. Nel caso all’esame del g.i.p. del Tribunale di Napoli, poi, le intercettazioni erano state in un procedimento in cui il parlamentare risultava già sottoposti alle indagini; di conseguenza, il problema dell’applicabilità dell’art. 6 richiede una «verifica particolarmente attenta».

Se è vero, infatti, che, in casi del genere, non può giungersi ad ipotizzare una presunzione assoluta del carattere “indiretto” dell’intercettazione, tuttavia, «il sospetto dell’elusione della garanzia è più forte», sicchè, in sede di motivazione, il giudice deve mostrare di aver tenuto effettivamente conto del complesso di elementi significativi al fine di affermare o escludere la “casualità” dell’intercettazione, ciò che, nella specie, non era dato ravvisare.

(Corte Costituzionale Sentenza 25/03/2010, n. 113)

fONTE: www.ipsoa.it

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