Il giudizio va difeso da ingerenze “esterne” sul procedimento probatorio: compie dunque un reato chi induce a tacere o a mentire la persona che pure può avvalersi della facoltà di non rispondere, come l’imputato, il coimputato o l’imputato in reato connesso. Affinché si configuri il reato di cui all’articolo 377 bis Cp, tuttavia, sono necessari due elementi: l’effettiva chiamata del soggetto davanti all’autorità giudiziaria e l’effettivo inquinamento del materiale probatorio. Lo stabilisce la sentenza n. 45626/10 della sesta sezione penale della Cassazione.
La sentenza di merito, nella specie, è cassata senza rinvio: assolti perché «il fatto non sussiste» i due imputati; i quali, accusati di due rapine, avevano scritto dal carcere a un (presunto) complice una lettera dai toni minatori. Il fatto è che il destinatario è arrestato prima di leggerla e che al momento in cui viene scritta la missiva non era stato chiamato a rendere dichiarazioni davanti al giudice. Insomma: l’illecito punito dall’articolo 377 bis Cp non si configura.
È la «soggettività procedimentale» della persona indotta che risulta condizione necessaria per integrare la fattispecie delittuosa: ci troviamo di fronte a un reato “proprio” soltanto quando la persona che pure non è obbligata a rispondere alle domande del giudice sia invece in grado di rendere dichiarazioni utilizzabili nel procedimento.
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INQUINAMENTO PROBATORIO: Non basta intimare al coimputato di tacere con il giudice per far scattare il reato di cui all’articolo 377 bis Cp
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