mercoledì, Maggio 15, 2024
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ANNO GIUDIZIARIO 2011: Il disastro continua

« un giudice capace, per la sua indipendenza, di assolvere un cittadino
in mancanza di prove della sua colpevolezza,
anche quando il sovrano o la pubblica opinione ne chiedono
la condanna, e di condannarlo in presenza di prove
anche quando i medesimi poteri ne vorrebbero l\’assoluzione»
INDICE
SALUTI E RINGRAZIAMENTI
I INTRODUZIONE p.9
II CONSIDERAZIONI GENERALI SULLO STATO DELLA GIUSTIZIA ITALIANA p.13
III TEMA PRIORITARIO: I TEMPI DELLA GIUSTIZIA p.17
IV LO STATO DELLA GIUSTIZIA CIVILE p.25
1
I tempi
2
Contenuto del contenzioso negli uffici giudiziari di merito
3
Le innovazioni legislative
3.1
Le prime applicazioni della legge n. 69 del 2009
3.2 La mediazione
3.3 L’arbitrato nel c.d. collegato lavoro
V LO STATO DELLA GIUSTIZIA PENALE p.45
1 I tempi
2 Andamento della criminalità
3 Le innovazioni legislative
3.1 Interventi nel settore penale
3.2 Interventi nel settore penitenziario
VI LA GIUSTIZIA MINORILE p.61
1
Giustizia civile
2
Giustizia penale
VII RAPPORTI CON GLI ORDINAMENTI SOVRANAZIONALI p.69
1
La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea
2
L’integrazione fra ordinamenti
3
Il ruolo del giudice nazionale
4
L’attività interpretativa svolta dalla Corte di cassazione
4.1 Diritto dell’Unione europea
4.2 La Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU)
VIII UN PIANO STRATEGICO PER LA DURATA RAGIONEVOLE DEI PROCESSI p.85
1
Giustizia civile
2
Giustizia penale
2.1 Depenalizzazione
2.2 Normativa processuale
2.2.1 Il processo contumaciale
2.2.2 Impugnazioni
2.2.3 Normativa sulle garanzie processuali
3
Gli uffici del giudice di pace
4
La distribuzione territoriale degli uffici giudiziari
IX VALIDITA’ DEL MODELLO ORDINAMENTALE ITALIANO p.105
X LA SITUAZIONE DELLA CORTE DI CASSAZIONE p.111
1 L’organico dei magistrati e del personale amministrativo
2 La Cassazione civile
2.1 Dati statistici
2.2 La sollecita trattazione dei ricorsi più recenti
2.3 La progressiva riduzione dell’arretrato
2.4 L’ufficio per il procedimento preparatorio delle decisioni delle Sezioni Unite civili
2.5 La motivazione semplificata
2.6 Prospettive per l’immediato futuro
3 La Cassazione penale
3.1 Dati statistici
3.2 I problemi del settore penale
4 Gli interventi organizzativi
5 Il CED e l’attività informatica
5.1 L’informatica giudiziaria
5.2 Il servizio Italgiureweb
5.3 Le difficoltà del CED e la loro soluzione
XI CONCLUSIONI p.145
APPENDICE
1)
Le principali linee di tendenza della giurisprudenza di legittimità – Anno 2010 p.147
2)
Elaborazione statistica del Ministero della giustizia sugli uffici di merito (civili) p.229
3)
Elaborazione statistica del Ministero della giustizia sugli uffici di merito (penali) p.239
4)
Elaborazione statistica Corte di cassazione civile (periodo 1.1.2010/31.12.2010) p.245
5)
Elaborazione statistica Corte di cassazione penale (periodo 1.1.2010/31.12.2010) p.273
6)
Documenti sull’attività organizzativa della Corte di cassazione p.299
A) Decreto di riorganizzazione interna del Segretariato generale della Corte di cassazione
B) Decreto di istituzione dell’ufficio per il procedimento preparatorio della decisione dei ricorsi assegnati alle Sezioni unite civili.
SALUTI E RINGRAZIAMENTI
Nel porgerLe, anche a nome di tutti i partecipanti a quest’Assemblea generale, un deferente saluto, mi permetta, Signor Presidente della Repubblica, di ringraziarLa per la Sua presenza qui oggi, ancora una volta a testimonianza della sollecitudine che El-la, come Capo dello Stato, costantemente dedica ai problemi del “servizio giustizia” nel nostro Paese.
Ringrazio altresì tutte le Alte Autorità che, con la loro partecipazione, onorano questa cerimonia inaugurale.
Profonda riconoscenza voglio poi esprimere, nel salutarli tutti, ai colleghi della Magistratura, ai rappresentanti del Foro e dell’Accademia per il loro generoso contri-buto all’opera della giurisprudenza nello sforzo di adeguare la risposta del diritto alle nuove domande emergenti da una realtà sociale in rapido mutamento.
Sono pienamente consapevole che nessuno dei risultati raggiunti sarebbe stato possibile senza l’intelligente dedizione delle donne e degli uomini, che lavorano nei settori amministrativi e tecnici della Corte di cassazione e collaborano, con grande impegno e personale sacrificio, perché il servizio reso ai cittadini sia al massimo li-vello d’efficacia e d’efficienza consentito dalle risorse disponibili.
Desidero, infine, sottolineare il carattere straordinario che quest’anno viene ad assumere quest’Assemblea. L’11 gennaio 1911, infatti, veniva inaugurato questo Pa-lazzo che realizzava il tenace progetto del Guardasigilli Giuseppe Zanardelli di erige-re, come in quell’occasione si disse, sulle rive del Tevere un Tempio alla Giustizia nel quale si rinnovasse la vita del diritto di cui l’antica Roma era stata indiscussa ma-estra. Nel centenario di quell’evento – ricordando quella prima inaugurazione dell’anno giudiziario in questi luoghi e la partecipazione di questo Palazzo di giusti-zia alle celebrazioni per i 150 anni dell’Unità d’Italia, alle quali il Capo dello Stato ha pochi giorni fa dato inizio a Torino – mi piace pensare ai tanti cittadini che avranno
occasione di visitare quest’aula e questi corridoi, durante la Mostra delle Regioni che qui si terrà. Mi piace pensare che questo edificio non sarà più un Tempio misterioso e lontano, ma luogo di incontro, nella consapevolezza che il progresso cui legittima-mente aspiriamo sarà tanto più vicino quanto più sapremo trasformare le sedi delle i-stituzioni in luoghi dove “reciprocamente ascoltarci”.
I
INTRODUZIONE
Questa cerimonia si svolge “per ascoltare la relazione sull’amministrazione della giustizia da parte del Primo Presidente della Corte di cassazione”, secondo la previ-sione dell\’art. 2, comma 29, della l. 25 luglio 2005, n. 150 (che ha modificato l\’art. 86 del r. d. 30 gennaio 1941, n. 12).
La relazione del Primo Presidente è stata introdotta in sostituzione di quella che il Procuratore generale, su disposizione del Consiglio Superiore della Magistratura, svolgeva ai sensi degli artt. 86 ed 88 del citato regio decreto n. 12 del 1941.
Tale modificazione, come ha precisato il Consiglio Superiore1, s’inquadra in una complessiva modificazione della disciplina sulla cerimonia d’apertura dell\’anno giu-diziario, volta ad evidenziarne la natura di pubblico dibattito sullo stato dell\’ammini-strazione della giustizia, già peraltro riconosciuta in precedenza dalla prassi e dalle circolari dell\’organo di governo autonomo, e quindi il carattere partecipativo dell\’as-semblea dinanzi alla quale essa si svolge.
Il riconoscimento di questo carattere, ulteriormente evidenziato dalla partecipa-zione e dall\’intervento dei rappresentanti degli organi istituzionali e dell\’avvocatura, ha posto termine alle polemiche insorte nell\’ambito giudiziario sull’utilità e sull\’op-portunità della cerimonia nel suo complesso e della relazione in particolare, conside-rate da molti come vane formalità di un logoro cerimoniale che si ripeteva stanca-mente d’anno in anno.
Tali polemiche – che, in anni passati, avevano condotto finanche all\’elaborazione di una proposta, discussa dinanzi al Consiglio Superiore della Magistratura, volta al-l\’abolizione della relazione del Procura

tore generale – traevano origine dalla formula-zione di una critica radicale alle modalità di svolgimento dell\’assemblea, con preva-lenza del mero ascolto della relazione da parte degli intervenuti, nonché dalle per-
1 Deliberazione C.S.M. del 13.12. 2006.
plessità manifestate, più in generale, sulla legittimazione di un solo organo a rappre-sentare, peraltro in qualità di vertice della «parte pubblica», i complessi problemi del-l\’amministrazione della giustizia.
Nel nuovo quadro normativo, caratterizzato invece da un ampio riconoscimento della facoltà di partecipazione e d’intervento a tutte le categorie di soggetti coinvolti nell\’esercizio della funzione giurisdizionale, nonché agli organi titolari di pubblici po-teri ai quali sia attribuita la cura d’interessi pubblici in qualche modo connessi con ta-le funzione, l\’attribuzione al Primo Presidente della Suprema Corte del compito di presentare la relazione – che, come ha precisato il C.S.M.2 non ha “solo una funzione di rendiconto dell’attività …, ma anche d’individuazione di temi da sottoporre al pubblico dibattito” – appare sintomatica di un nuovo carattere della relazione.
Il conferimento di tale incarico al vertice dell\’organo cui è affidato il grado più elevato della funzione giudicante, pur permanendo l\’inevitabile unicità del soggetto da cui la relazione promana, esprime infatti la volontà di metterne in risalto la posi-zione di terzietà. Tale posizione ha come riflesso imprescindibile la necessità di con-formarsi nell\’esposizione a una doverosa autolimitazione, astenendosi da inappropria-ti soggettivismi per valorizzare invece i dati obiettivi, in modo tale da offrire agli a-scoltatori-interlocutori non già personali opinioni (più o meno autorevoli e condivisi-bili), bensì un rendiconto e un bilancio dell\’amministrazione della giustizia nell\’anno trascorso e la delineazione di una prospettiva dell’anno futuro, nonché un quadro del-le problematiche sul tappeto e delle soluzioni ragionevolmente prospettabili, che pos-sano rappresentare una base ed uno stimolo per il dibattito voluto dal legislatore.
Ciò impone, sotto il profilo metodologico, che alla doverosa individuazione delle evidenti criticità del sistema faccia riscontro una volontà di non indugiare in ripetitive lamentazioni o sterili denunce, un intento di superare l’esasperazione polemica delle
2 Deliberazione C.S.M. del 9 dicembre 2010.
tensioni o la radicalizzazione di unilaterali concezioni, un impegno di responsabilità verso la ricerca di soluzioni possibili e condivise – nel rigoroso rispetto dei principi, dei limiti e dei vincoli posti dalla Costituzione repubblicana – attraverso un confronto che tenga conto dei rispettivi ruoli e non manchi di farsi carico delle impostazioni al-trui e delle ragioni delle diverse componenti istituzionali e sociali.
Si tratta di un metodo non solo dettato dall\’ottimismo della volontà, ma imposto dalla necessaria accettazione del pluralismo culturale, sociale, politico ed istituzionale che informa di sé tutto il nostro modello costituzionale.
Quello proveniente dalla magistratura deve essere, in altri termini, un contributo di razionalità da immettere nel dibattito pubblico e istituzionale, conformemente alla posizione d\’imparzialità propria di un giudice che voglia rimanere coerente con il connotato essenziale della giurisdizione, senza tuttavia essere o sentirsi estraneo al discorso pubblico che, in una società democratica e pluralista, segna l\’essenza dello stare insieme per contribuire a risolvere i problemi della collettività.
II
CONSIDERAZIONI GENERALI SULLO STATO DELLA GIUSTIZIA
Le considerazioni d’ordine generale che possono essere formulate sullo stato del sistema giudiziario e del servizio giustizia, per come emergono dalle note informative pervenute dai 26 distretti di corte d’appello, non differiscono molto da quanto riporta-to nella Relazione inaugurale dell’anno scorso. Pur nell’evoluzione del quadro com-plessivo, i Capi delle corti pongono in evidenza soprattutto difficoltà d’ordine strut-turale connesse: al crescente aumento della domanda di giustizia penale, non bilan-ciata da qualche segnale di rallentamento della domanda di giustizia civile di primo grado; all’anacronistica distribuzione geografica degli uffici giudiziari; alla carenza di strutture e risorse, che impedisce in molti uffici l’attività d’udienza pomeridiana; alle difficoltà e alla lentezza che patisce il processo d’informatizzazione; alla scopertura di organici; alla progressiva diminuzione di personale amministrativo e tecnico.
Questo argomento conduce inevitabilmente a rilevare la preoccupante situazione di scopertura dell’organico della magistratura, frutto in primo luogo dei ritardi con cui a partire dall’anno 2002 sono stati banditi i concorsi per l’ingresso di nuovi magi-strati. Gli effetti di tali ritardi non sono stati ancora superati dall’impegno dell’attuale Ministro della giustizia, che ha messo a concorso 713 posti, che si aggiungono ai 253 magistrati assunti nel 2010. Va, infatti, considerato che nel 2010 vi sono stati 414 pensionamenti, di cui un centinaio (24 soltanto di magistrati della Corte di cassazione e della Procura generale) favoriti dall’entrata in vigore del decreto-legge n. 78 del 2010 sulle misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria, onde le vacanze dei magistrati, alla data del 21 gennaio 2011, assommano a 1237 (12.88 %), di cui
337 (13,86%) magistrati requirenti1.
Tale situazione mostra i suoi effetti negativi soprattutto negli uffici disagiati e in quelli di piccole dimensioni, rendendo ancora più evidente l’insostenibilità dell’attuale geografia giudiziaria.
Non meno preoccupante per chi dirige un ufficio giudiziario è la gestione del per-sonale amministrativo. Il decennale blocco del turn over ha avuto nel settore giustizia effetti pesantissimi. Oltre alla riduzione dell’organico del personale (che nell’arco di dieci anni è passato da oltre 46.000 a meno di 38.000 unità presenti), dobbiamo regi-strare che l’età media si è molto innalzata e nel giro di pochi anni andranno in pen-sione tutti i funzionari più esperti, lasciando un vuoto di cultura che non sarà colmato. A questo fattore di criticità dobbiamo aggiungere il sommarsi di ulteriori elementi che concorrono ad aggravare la situazione: la mancata riqualificazione del personale, che ha comportato la stasi nei percorsi di crescita professionale e una diffusa demoti-vazione; la formazione di piante organiche prive di coerenza e di funzionalità; l’intervento di taglio orizzontale delle dotazioni organiche dei singoli uffici giudiziari che, con il d.m. di revisione del 2009 attuativo della c.d. “legge Brunetta” del 2008, hanno visto la pianta organica coincidere con il dato sostanzialmente casuale delle presenze e, dunque, cristallizzarsi situazioni di evidente irrazionalità; l’adozione nello scorso mese di luglio di un contratto integrativo, sottoscritto soltanto da una parte delle organizzazioni sindacali, che, pur presentando alcuni aspetti positivi, re-introduce il concetto di mansione, irrigidisce un sistema già sofferente e rischia di rendere ancora più difficile una gestione equa, partecipata ed efficace degli uffici giudiziari.
Il 2010 ha presentato altri elementi che destano preoccupazione.
Le necessarie esigenze di rigore finanziario non possono indiscriminatamente pe-
1 Dati forniti dal C.S.M.
sare linearmente su ogni settore, occorrendo differenziare quelli già in particolare sof-ferenza o, comunque, abbisognevole di sforzi straordinari per rilanciarne l&rsquo

;efficienza e determinare l’ammodernamento indispensabile alla ripresa complessiva del Paese.
L’incertezza sulle risorse a disposizione e i ripetuti interventi di “taglio” rispetto alle previsioni, spesso operati in modo orizzontale e non mirato, hanno inciso negati-vamente anche sulla programmazione del lavoro e sull’utilizzo degli strumenti esi-stenti, come ha dimostrato il recente annuncio di crisi finanziaria che ha investito an-che il settore informatico.
Al di là dell’emergenza critica, rimane da tenere sotto vigile attenzione la situa-zione dei sistemi informatici, delle dotazioni di software e dei contratti d’assistenza. L’abbandono dei tradizionali registri cartacei e la migrazione verso procedure infor-matizzate rendono necessarie programmazioni di non breve periodo e mettono gli uf-fici nella condizione di non funzionare qualora intervengano guasti o difficoltà d’utilizzo dei nuovi strumenti. La molteplicità dei software di cui sono stati dotati nel tempo gli uffici giudiziari, nella carenza di chiari programmi pluriennali perseguiti, pongono ancora oggi problemi irrisolti di compatibilità e di funzionalità, che hanno ricadute sull’intero sistema.
In questo quadro non esaltante, è doveroso mettere in evidenza alcuni elementi di segno positivo del sistema giudiziario nel suo complesso che hanno caratterizzato l’anno appena concluso e che costituiranno fattori di rilievo per il 2011:
a)
un numero rilevante di uffici giudiziari ha aderito e sta sviluppando i progetti di miglioramento organizzativo che, usufruendo anche di fondi europei, fanno parte del progetto nazionale di “best practices” coordinato dal Ministero della giustizia con la partecipazione degli enti regionali e delle istituzioni locali;
b)
un numero significativo d’uffici ha stipulato convenzioni con enti locali e con le università consentendo che stagisti e personale in mobilità di altre ammini-strazioni e di imprese collaborino ad iniziative di miglioramento gestionale.
Voglio ricordare, a titolo d’esempio, l’impegno della Provincia di Roma, che ha investito risorse rilevanti in un progetto d’inserimento di lavoratori precari negli uffici giudiziari, quello delle Università di Roma, che hanno consentito a questa Corte di usufruire della collaborazione di 60 giovani laureati in stage di formazione, quello del Tavolo della giustizia della Città di Milano, finalizzato all’attivazione di un piano di sviluppo dei servizi giudiziari in vista dell’Expo 2015, che ha visto il coinvolgimento, della Regione Lombardia, della Provin-cia, del Comune e della Camera di commercio di Milano, oltre a quello del Ministero della giustizia;
c)
altri uffici stanno impiegando risorse e sostegno organizzativo ottenuto da enti locali e fondazioni al fine di introdurre innovazione tecnologica e organizzativa che supplisca alla carenza del personale e degli strumenti messi a disposizione dal sistema giustizia;
d)
il Consiglio Superiore della Magistratura ha accentuato l’attenzione alle esi-genze gestionali degli uffici, dotandosi di una specifica struttura interna di sup-porto, ed ha sviluppato un insieme di strumenti di misurazione degli standard di produttività destinato a migliorare il sistema di valutazione dei magistrati, così accettando la sfida della responsabilità dei singoli magistrati e degli uffici verso la collettività come elemento che equilibra e insieme rafforza l’indipendenza e l’autonomia della giurisdizione. In proposito, il 18 gennaio scorso è stato sottoscritto tra il C.S.M. e il Ministro per la pubblica ammini-strazione e l’innovazione un “protocollo d’intesa per sviluppare azioni volte ad accrescere la cultura della valutazione delle performance e il miglioramento qualitativo dei servizi della giustizia”.
III
TEMA PRIORITARIO: I TEMPI DELLA GIUSTIZIA
Nell\’individuazione delle problematiche da affrontare prioritariamente, la coeren-za con l\’impostazione metodologica ora indicata consiglia di prescindere da scelte soggettive, conferendo rilievo alle urgenze evidenziate dai dati più allarmanti, con-nessi con il quadro di vincoli nell\’ambito dei quali il nostro ordinamento è ormai te-nuto a muoversi, assumendo come punti di riferimento autorevoli ammonimenti pro-venienti dall\’estero – e perciò sottratti alla contrapposizione politica interna – che da tempo richiamano il nostro Paese al rispetto degli obblighi assunti in sede internazio-nale.
In tale prospettiva, è doveroso prendere l’avvio dalla recentissima risoluzione del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa1 e dalle nuove ulteriori condanne nei confronti dell’Italia deliberate dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nel mese di dicembre 2010.
Il turbamento e l’allarme procurati dalla lettura di tali atti conferiscono dramma-tica attualità al fermo appello alla «mobilitazione civile» che, già nella relazione per l\’inaugurazione dell\’anno giudiziario 19992, il Procuratore generale rivolse a tutti i soggetti responsabili del funzionamento della giustizia, affinché s\’impegnassero in u-n\’opera di rigenerazione dell\’apparato giudiziario nella normativa, nelle procedure, nei mezzi, nella mentalità e nella cultura, in modo da rendere l\’esercizio della funzio-ne giurisdizionale rispettoso dell’essenziale principio della ragionevole durata dei processi.
Tale appello traeva origine dal quadro allarmante del funzionamento del nostro
1 Risoluzione n. 2010 – 224 del 2 dicembre 2010.
2 A. La Torre, Relazione sull’amministrazione della giustizia nell’anno 1999, svolta il 12 gennaio 2000. – 17 –
sistema giudiziario emergente dalle numerose condanne che la Corte europea dei di-ritti dell\’uomo aveva già pronunciato nei confronti dell’Italia per la lunghezza dei procedimenti, nonché dalla pluralità di risoluzioni approvate dal Comitato dei Mini-stri del Consiglio d\’Europa nell\’esercizio della propria funzione di controllo sull\’ese-cuzione delle decisioni degli organi giurisdizionali di tutela dei diritti umani. Nel ri-chiamare l\’attenzione di tutti sulla risoluzione3 con cui il Comitato dei Ministri aveva posto sotto “osservazione speciale” lo stato della giustizia nel nostro Paese, il Procu-ratore generale richiamò precedenti affermazioni del medesimo Comitato4, secondo cui la lentezza eccessiva della giustizia costituiva un pregiudizio di rilievo tale da porre in discussione la stessa riconoscibilità nel nostro Paese di un vero e proprio Sta-to di diritto, e prospettò il rischio di gravi sanzioni a carico dell’Italia, con disdoro in-ternazionale dell’immagine del Paese e vanificazione dei sacrifici sopportati dai cit-tadini per costruire un Paese degno di far parte del gruppo di testa della Comunità eu-ropea.
L\’allarme suscitato dalle citate risoluzioni del Comitato dei Ministri si tradusse, com\’è noto, in un ampio ventaglio di provvedimenti volti a migliorare l\’efficienza de-gli uffici giudiziari, a sollevare la magistratura professionale dal gravoso carico di la-voro connesso alle controversie civili di minor valore ed a favorire un rapido smalti-mento dell\’arretrato nel settore civile. A tali provvedimenti, che condussero all\’istitu-zione del giudice unico di primo grado, all\’ampliamento della competenza del giudice di pace ed all\’istituzione delle sezioni stralcio, si aggiunse poi l\’introduzione, con la legge 24 marzo 2001, n. 89, dell\’equa riparazione per la violazione del termine di ra-gionevole durata del processo, un rimedio di carattere interno alla violazione dell\’art. 6, par. 1, della Convenzione europea, tendenzialmente sostitutivo del ricorso alla Cor-te di Strasburgo, la cui adozione rispondeva essenzialmente alla finali

tà di evitare ul-
3 Risoluzione n. 437/1999.
4 Risoluzione n. 336/1997.
teriori condanne a carico dell\’Italia per il superamento del termine di ragionevole du-rata del processo.
A distanza di un decennio da quell\’appello, le numerose condanne5 che ancora vengono pronunciate nei confronti dell\’Italia dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per la lesione del diritto alla ragionevole durata del processo testimoniano che le mi-sure adottate dall’Italia, pur avendo scongiurato le conseguenze più gravi connesse alla reiterata violazione della CEDU, non sono risultate idonee ad assicurare il ripri-stino di condizioni di funzionamento dell\’apparato giudiziario ritenute normalmente accettabili a livello internazionale.
A partire dall\’entrata in vigore della c.d. legge Pinto, sono stati promossi dinanzi alle corti d\’appello quasi 40.000 procedimenti camerali per l\’equa riparazione dei danni derivanti dall\’irragionevole durata del processo, i quali sono andati ad aggrava-re i già onerosi carichi di lavoro degli uffici giudiziari di secondo grado, causando ri-tardi nella trattazione dei giudizi ordinari, che vanno ad aggiungersi a quelli derivanti da una mole di contenzioso già spesso superiore alle capacità di smaltimento delle singole Corti.
Le conseguenze negative di questo contenzioso che potremmo definire «straordi-nario» soltanto per il suo oggetto, essendo ormai entrato a far parte a tutti gli effetti del lavoro ordinario dei giudici d’appello, si stanno ripercuotendo da ultimo sugli stessi procedimenti di cui alla legge Pinto, ritardandone la definizione in misura tale da far apparire ormai concreta la prospettiva della proposizione di ulteriori domande di equa riparazione fondate sull\’irragionevole durata dei procedimenti in questione.
Il ritardo nel pagamento degli indennizzi ha indotto a sua volta gli aventi diritto a mettere in esecuzione i provvedimenti di condanna ottenuti nei confronti dei Ministe-
5 Dall’analisi che la Corte europea dei diritti dell’uomo ha compiuto sulle proprie decisioni nel cinquantennio 1959-2009 risulta che per l’eccessiva durata dei procedimenti l’Italia ha riportato 1095 condanne, la Francia 278, la Germania 54 e4 la Spagna 11.
ri competenti, con conseguente aggravio di lavoro anche per gli uffici giudiziari di primo grado cui è affidata la trattazione delle procedure esecutive.
Recentemente della questione ha avuto modo di interessarsi anche il Consiglio di Stato che – dopo avere precisato che il decreto di condanna emesso dalla Corte d’appello ha efficacia di giudicato e costituisce titolo valido nel giudizio d’ottemperanza promosso nei confronti dell’Amministrazione per ottenere l’esecuzione della condanna al pagamento della somma di denaro stabilita dal giudice – ha affermato “l’obbligo sia del Ministero dell’economia e delle finanze che della Presidenza del Consiglio dei Ministri di conformarsi al giudicato” e di pagare in favo-re dei ricorrenti, entro il termine di sessanta giorni, la somma dovuta, nominando già un commissario ad acta nell’eventualità d’inutile decorso del tempo6.
Nelle scorse settimane la stampa italiana ha dato evidenza alla notizia, oggetto di specifico comunicato-stampa della Corte di Strasburgo7, della pronuncia di 475 sen-tenze di condanna per il ritardo nel pagamento degli indennizzi liquidati ai sensi della legge n. 89 del 2001, e della pendenza di oltre 3.900 ricorsi aventi il medesimo fon-damento, nonché del costante aumento del numero di questi procedimenti, passati dai 613 dell\’anno 2007 ai 1.340 del primo semestre dell\’anno 2010. La Corte, pur ricono-scendo che un\’Amministrazione necessita di tempo per procedere ai suoi pagamenti, ha affermato che, nel caso di un ricorso indennitario volto a riparare le conseguenze della durata eccessiva di un procedimento, tale ritardo non può essere superiore a sei mesi dal momento in cui la decisione è divenuta esecutiva, ed ha quindi ritenuto che nei casi sottoposti al suo esame il termine ragionevole fosse stato ampiamente supera-to, essendo il pagamento intervenuto con un ritardo compreso tra 9 e 49 mesi, e co-munque per lo più superiore a 19 mesi.
Le reiterate condanne a carico del nostro paese hanno indotto il Comitato dei Mi-
6 Consiglio di Stato, sez. IV, sent. n. 9541 del 7-29 dicembre 2010.
7 Comunicato – stampa n. 991 del 21.12.2010.
nistri del Consiglio d\’Europa a rivolgere nuovamente la sua attenzione al «caso Italia» per ribadire che tempi eccessivi nell\’amministrazione della giustizia costituiscono «un grave pericolo per il rispetto dello Stato di diritto, conducendo alla negazione dei di-ritti consacrati dalla Convenzione» e per sottolineare l\’importanza di «impostare u-n\’efficace strategia a medio e lungo termine per trovare una soluzione a questo pro-blema strutturale che esige un forte impegno politico». La severa risoluzione appro-vata8 rivolge alle autorità italiane di più alto livello un nuovo appello «affinché man-tengano fermo il loro impegno politico a risolvere il problema della durata eccessiva dei processi, e adottino tutte le misure tecniche e di bilancio necessarie in tal senso».
Mi è parso doveroso – proprio per il fecondo dialogo e la proficua collaborazione che si sono sviluppati negli ultimi anni tra le Corti nazionali e la Corte europea dei di-ritti dell’uomo9 – porre in evidenza e “drammatizzare” una situazione critica che e-spone il nostro Paese a conseguenze gravi interne e internazionali.
Quello della realizzazione della ragionevole durata dei processi, secondo le con-cordi previsioni dell’art. 6 della CEDU, dell’art. 111 della Costituzione italiana e dell’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, è infatti un tema assolutamente prioritario e centrale:

per il rispetto di un diritto umano fondamentale di ogni persona, il diritto alla giustizia, che costituisce una sorta di pre-condizione per la tutela di ogni altro diritto, una sorta di “diritto ai propri diritti”;

per l’immagine dell’Italia nel panorama europeo e internazionale;

per gli effetti sull’economia e sulla competitività internazionale del sistema Ita-lia.
Ciò impone a noi tutti di bandire le contrapposizioni e le polemiche ricorrenti sulla
8 Risoluzione n. 224 del 2 dicembre 2010.
9 La Corte di Strasburgo inaugura anch’essa proprio oggi il suo anno giudiziario, con un seminario internazionale che si interroga sui limiti all’interpretazione evolutiva della Convenzione EDU. – 21 –
giustizia, intesa come dimensione del potere istituzionale, e di concentrarsi piuttosto sulla dimensione della giustizia come servizio verso i cittadini e tutte le persone che vivono nel nostro Paese, che hanno diritto ad ottenere in tempi ragionevoli risposte alla domande di giustizia.
Il Presidente della Repubblica, nel discorso pronunciato il 20 dicembre scorso nell’incontro al Quirinale con le Alte Magistrature della Repubblica, ha rivolto una pressante, forte sollecitazione ad un “nuovo spirito di condivisione”, che conduca tutti “a individuare, fuori da ogni schema e contrapposizione pregiudiziale, i temi, le esi-genze, le sfide ineludibili per qualsiasi soggetto rappresentativo responsabile”.
A quest’esercizio di responsabilità, a cui il Capo dello Stato richiamava tutti, nessuno può sottrarsi, e certamente non intendiamo farlo noi.
Sul tema dell’efficienza della giustizia nessuno può chiamarsi fuori, limitandosi ad additare le colpe altrui. Tutte le istituzioni sono coinvolte e tutte debbono sentire co-me propria responsabilità, su ogni altra prevalente, l’esigenza di ridurre la durata dei processi civil

i e penali.
Per questo ci permettiamo di rivolgere a tutti gli interlocutori qui presenti una pressante sollecitazione, fondata sulla condivisibile valutazione, formulata nella Re-lazione presentata nel 2009 dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri al Parlamento, sull’esecuzione delle pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo nei confronti dello Stato italiano. Si legge in tale Relazione, analizzando i dati statistici relativi alle condanne, che “l’Italia appare quasi esente da problematiche rilevanti di violazione di diritti umani e piuttosto caratterizzata da problemi generali legati a carenze delle strutture giudiziarie ed amministrative”10.
Altri Paesi, pur d’illustre tradizione giuridica, risultano deficitari sotto il profilo di garanzia primarie, come l’obbligo di motivazione dei provvedimenti giurisdizionali o
10 Presidenza del Consiglio dei Ministri – DAGL – Relazione al Parlamento anno 2009: L’esecuzione delle pro-nunce della Corte europea dei diritti dell’uomo nei confronti dello Stato italiano – L. 6.1.2006, n. 12, pag. 30.
lo statuto d’indipendenza dei soggetti che hanno potere di compromettere la libertà personale.
Se miglioramenti anche sotto il profilo delle garanzie sono sempre possibili ed au-spicabili, ci pare di poter affermare che risultano eccessivi e ingiustificati ricorrenti e severi accenti critici di scarso garantismo del sistema giudiziario italiano, che fini-scono con il far perdere di vista il nostro problema centrale e prioritario: l’abnorme durata dei processi.
La crisi di complessiva efficienza è il vero problema del nostro sistema giudizia-rio. Che il problema vi sia e che esso sia gravissimo è constatazione condivisa da tut-ti. Dovrebbe essere consequenziale, e perciò impossibile da contestare, l’affermazione che la soluzione di tale problema costituisce un’assoluta priorità. Pensare ad altri obiettivi di riforma o d’impegno prima di aver risolto questo proble-ma è un non senso: non si può indirizzare una macchina verso una direzione o l’altra fin tanto che essa procede con estrema lentezza e va globalmente peggiorando, nono-stante taluni incerti segni di possibile ripresa.
Le perduranti polemiche e le contrapposizioni su altre questioni producono sol-tanto – com’è stato recentemente affermato in sede politica – il risultato di sottrarre attenzione, tempo ed energia alla soluzione della crisi d’efficienza, questione concre-ta e pressante che riguarda tutta la comunità nazionale.
IV
LO STATO DELLA GIUSTIZIA CIVILE
La gravità e l’urgenza del problema dei tempi della giustizia italiana impongo-no di analizzare la situazione attuale della giustizia penale e civile soprattutto sotto la prospettiva della durata dei giudizi, considerata come fattore determinante del “rende-re giustizia”. La precedenza va data alla giustizia civile, la cui situazione, in termine di durata dei giudizi, è ben più grave di quella penale.
Si considererà, innanzitutto, lo stato degli uffici di merito, mentre una succes-siva e separata analisi sarà dedicata alla situazione della Corte di cassazione che, nel settore penale e negli anni più recenti, ha conseguito tempi da valutarsi, in linea di massima, ragionevoli, onde essa, limitatamente a detto settore, può considerarsi quasi un’oasi nel complessivo desolante panorama della lunghezza della giustizia italiana.
Per ovvie ragioni di completezza informativa – che tradizionalmente ispirano questa relazione annuale – lo stato della giustizia civile e penale sarà completato dalla considerazione delle innovazioni legislative che sono intervenute nell’anno 2010 e che incidono sui due settori.
1. I tempi.
La durata media dei procedimenti civili è ancora caratterizzata da eccessiva lun-ghezza.
Con riferimento ai giudizi davanti alle corti d’appello tale durata – che nel trien-nio 2007-2009, aveva registrato una lieve diminuzione dell’1,8%, passando da 999 giorni nel 2007 a 981 nel 2009 (con un picco di 1007 nel 2008) – mostra segni di ri-duzione anche nel 2010, con riferimento al primo semestre e secondo i dati risultanti dalle prime elaborazioni statistiche. Anche se in via di riduzione, la durata è in ogni
caso eccessiva e superiore al termine ragionevole, determinato mediamente, secondo i parametri della Corte europea dei diritti dell’uomo, in due anni per i giudizi d’appello, ai quali si riferiscono in buona parte i dati statistici richiamati.
Ancora maggiori elementi di preoccupazione sorgono se si fa riferimento alla du-rata media dei giudizi definibili con sentenza, la quale nel triennio 2007-2009 si è at-testata su livelli sensibilmente maggiori, oscillando tra i 1.138 giorni nel 2007 e i 1.163 nel 2009, con un picco di 1.210 nel 2008 e con un incremento percentuale nel triennio del 2,2%.
Tale dato trova allarmante conferma in quello relativo alla durata media dei giu-dizi di cognizione ordinaria, che nel triennio 2007-2009 ha oscillato tra i 1.509 giorni del 2007 e i 1.576 giorni del 2009, con un aumento percentuale del 4,4%.
Anche nei giudizi di equa riparazione per violazione del termine ragionevole di durata del processo, instaurati ai sensi della legge 24 marzo 2001, n. 89 (cosiddetta “Legge Pinto”) e gravanti in unico grado di merito sulle corti d’appello, i tempi medi di durata mostrano una tendenza all’allungamento, passando dai 455 giorni del 2007 ai 476 del 2009, con un incremento percentuale del 4,7%.
Nei giudizi davanti al tribunale ordinario la durata media è inferiore e mostra una tendenza alla diminuzione, essendo passata nel triennio 2007-2009 da 479 giorni nel 2007 a 456 giorni nel 2009, con una diminuzione del 4,7%, e il dato del 2009 risulta stabile nel primo semestre del 2010, secondo le elaborazioni statistiche in atto.
Anche con riferimento a tali tipi di giudizio, però, la durata media aumenta sensi-bilmente in valori assoluti e in termini percentuali se si fa riferimento ai processi de-finibili con sentenza, la cui durata nel triennio 2007-2009 è costantemente cresciuta da 815 giorni nel 2007 a 845 giorni nel 2009, con un incremento percentuale del 3,7% .
Più grave è la situazione relativa alla durata media dei giudizi davanti al giudice di pace, che nel triennio 2007-2009 ha segnato una costante crescita in valori assoluti – 26 –
e percentuali, passando da 291 giorni nel 2007 a 324 giorni nel 2009, con un aumento dell’11,3%. I dati relativi al primo semestre del 2010 mostrano, secondo le stime in corso, la tendenza ad un ulteriore aumento.
Più gravi ancora sono i dati riferiti ai procedimenti definibili con sentenza, che nel triennio 2007-2009 indicano una durata media che è cresciuta dai 375 giorni nel 2007 ai 421 giorni del 2009, con un aumento percentuale del 12,3%.
2. Contenuto del contenzioso negli uffici giudiziari di merito.
L’anno appena concluso ha confermato, pur con qualche segnale positivo, le dif-ficoltà in cui versa il contenzioso civile presso gli uffici giudiziari di merito.
Nel periodo 1° luglio 2009-30 giugno 2010 la pendenza complessiva è diminuita, rispetto all’anno precedente (1° luglio 2008 – 30 giugno 2009), da 5.649.970 a 5.602.616 procedimenti, con un decremento di 47.354 (pari al -0,8%), in conseguenza della diminuzione delle nuove iscrizioni nella misura di 124.731 (-2,8%) e dell’aumento delle definizioni, cresciute nella misura di 125.824 (+1%), che hanno sopravanzato le nuove iscrizioni di 6.330 procedimenti1. Invece nel 2009 le soprav-venienze avevano superato le definizioni di 244.225 procedimenti.
Restano, però i dati preoccupanti di una pendenza complessiva di 5.602.6162 cau-se, che costituisce un carico d’arretrato troppo pesante e in

cide negativamente sull’efficienza della complessiva risposta dell’Amministrazione giudiziaria alla do-manda di giustizia dei cittadini, e di nuove iscrizioni per un numero ancora troppo e-levato (4.768.737), che evidenzia la mancanza d’idonei filtri per l’accesso alla giusti-
1 Nella relazione del Ministro della giustizia si afferma che la pendenza complessiva dei procedimenti civili è di-minuita, al 30 giugno 2010, di 223,824 unità (pari al 4%), ma il confronto è operato con la pendenza esistente al 31 di-cembre 2009, mentre nel presente testo il confronto delle pendenze è effettuato con riferimento al 30 giugno 2009 (nel secondo semestre dell’anno i procedimenti definiti sono minori rispetto al primo semestre, a causa dell’incidenza del periodo feriale).
2 Nel testo della Relazione del Ministro, verosimilmente per mero refuso dattilografico, è indicato 5.600.616.
zia civile.
Con riferimento all’area geografica d’ubicazione degli uffici giudiziari, rilevante è la diminuzione delle pendenze nel Nord-Ovest dell’Italia (-3,2%), grazie anche a un forte incremento delle definizioni (+4,3%), e nel Sud, escluse le isole, dove la pen-denza è diminuita del 2,3%, in conseguenza del considerevole decremento delle so-pravvenienze (-5,4%) e di una contenuta crescita delle definizioni (+1,4%). Solo nell’Italia centrale si rileva, in controtendenza rispetto al dato nazionale, un anomalo incremento delle pendenze (+3,8%), nonostante la rilevante percentuale di aumento delle definizioni rispetto all’anno precedente (+6,1%), superiore a quella rilevata in tutte le altre aree geografiche, ma ancora insufficiente a far fronte alla mole delle nuove iscrizioni.
Riguardo alla ripartizione tra gli uffici, particolarmente gravosa appare la situa-zione delle corti d’appello, dove le sopravvenienze, anche in questo caso in contro-tendenza rispetto al dato complessivo e a quello concernente gli altri uffici di merito, sono aumentate di 14.838 (+9,5%), passando dal già ragguardevole numero di 156.800 procedimenti nel 2009 a quello di 171.638 nel 2010, con un incremento che ha riguardato in maniera indifferenziata quasi tutti i tipi di controversia.
Nonostante l’incremento delle definizioni, passate da 131.478 nel 2009 a 152.650 nel 2010 (+21.172, pari a +16,1%), il maggior numero delle sopravvenienze ha de-terminato un aumento di pendenze nelle corti di appello pari a +19.525 (+4,8%), con riferimento a ogni genere di controversia, eccezion fatta per quelle di lavoro non ri-guardanti il pubblico impiego, diminuite da 48.111 a 43.822, per una differenza di 4.289 (-8,9%).
L’incremento delle pendenze nelle corti d’appello risulta costante, sia pure con differenti percentuali, in tutte le aree geografiche, con picchi massimi nel Nord-Ovest (+7,1%), nel Sud (+7,4%) e nelle isole (+8,1%).
La rilevante entità dei dati riguardanti sopravvenienze e pendenze nei giudizi
presso le corti di appello deriva da una serie di leggi che in passato hanno riversato sulle medesime corti materie e competenze nuove o già spettanti di altri organi giuri-sdizionali, senza la tempestiva e adeguata riorganizzazione degli uffici, rimasti pro-gressivamente sempre più carenti di risorse umane e materiali, con la conseguenza che sostanzialmente inutile è apparso nel tempo il previsto snellimento del giudizio di appello, da concentrarsi in una o due udienze quando non sia necessaria l’ammissione di nuove prove, e che frequentemente ormai si assiste alla fissazione della precisazio-ne delle conclusioni a distanza di anni.
Particolarmente consistente è il carico derivante dalle controversie di equa ripara-zione per violazione del termine ragionevole di durata del processo, promosse ai sensi della legge 24 marzo 2001, n. 89, gravante in unico grado di merito sulle corti di ap-pello, con una pendenza che ha raggiunto il numero di 44.357 procedimenti (+6.964 rispetto al 2009, pari a +18,6%), malgrado il forte incremento delle definizioni, pari a 26.125 (+22,7%), ancora inferiore, però, alle sopravvenienze (33.194) a loro volta cresciute dell’1,7%.
La forte e crescente incidenza di tali giudizi sul complessivo carico di lavoro del-le corti, sull’impegno dei singoli consiglieri e sulla stessa funzionalità degli uffici, nonché la constatazione che anche nella trattazione di tali giudizi si verifica una fre-quente violazione del termine ragionevole di durata, con la paradossale conseguenza di applicazione della cd. “legge Pinto” con riferimento alla durata dei giudizi inerenti alla violazione della stessa legge, rendono opportuna qualche specifica riflessione.
In una logica deflativa, in tali tipi di procedimento sarebbe auspicabile un mag-gior apporto collaborativo da parte dell’Amministrazione, sia in termini di spontaneo adempimento dell’obbligo d’indennizzo, che di ricerca di accordi transattivi, tenuto conto degli ormai consolidati indirizzi giurisprudenziali della Corte europea dei diritti dell’uomo e della Corte di cassazione formatisi in materia, che consentono di formu-lare ragionevoli previsioni sulla sorte dei giudizi di equa riparazione via via intrapre-
si.
Assume rilievo anche il principio dell’interesse alla proposizione del ricorso per equa riparazione, quando il valore del giudizio presupposto, come spesso accade, è di modestissima entità e comunque inferiore all’entità degli indennizzi normalmente ri-conosciuti in ragione del protrarsi della durata non ragionevole del processo, oppure nei casi in cui nel giudizio presupposto la domanda è rigettata per manifesta infonda-tezza e risulti dimostrata in atti la piena consapevolezza da parte del ricorrente dell’insuccesso a cui la sua iniziativa giudiziaria è destinata.
In forte incremento è anche la pendenza presso le corti di appello delle cause pre-videnziali (+6,3%) e di quelle di lavoro inerenti a rapporti di pubblico impiego (+7,7%), incremento che, se rapportato alla diminuzione della pendenza degli stessi tipi di controversie presso i tribunali, come si dirà subito dopo, e, in generale, alla maggiore durata media dei giudizi davanti alle corti di appello, conferma ulterior-mente l’inadeguatezza delle risorse di cui esse dispongono e della complessiva orga-nizzazione che le caratterizza, costituendo in tal modo la fase processuale presso tali uffici un vero e proprio “collo di bottiglia”, il cui effetto frenante sulla quantità dei procedimenti definiti rende vano il maggior numero di definizioni che si verifica in primo grado
Nei giudizi davanti al tribunale e al giudice di pace si riscontra invece una conte-nuta diminuzione delle sopravvenienze e delle pendenze, a fronte di un incremento, altrettanto contenuto, delle definizioni.
In particolare, nei tribunali le nuove iscrizioni, passando da 2.827.361 nel 2009 a 2.779.243 nel 2010, sono diminuite di 48.118 procedimenti (- 1,7%), mentre le defi-nizioni, nel 2010 divenute 2.802.621, sono aumentate di 23.591 rispetto al 2009 (+0,8%). Di conseguenza le pendenze, ridottesi nel periodo 1° luglio 2009-30 giugno 2010 a 3.476.109, sono diminuite, rispetto all’analogo periodo 2008-2009, di 49.921 procedimenti (pari a -1,4%).
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Sotto il profilo delle sopravvenienze, anche se in un complessivo contesto di di-minuzione, è ancora molto forte l’incidenza dei giudizi di cognizione ordinaria (472.001), delle cause previdenziali (281.719), delle cause di lavoro, comprensive di quelle riguardanti il rapporto di pubblico impiego (150.734), e dei procedimenti spe-ciali (736.122).
In sensibile aumento (verosimilmente in conseguenza, almeno in parte, dell’incremento delle situazioni di sofferenza nei rapporti di mutuo bancario) è il nu-mero delle nuove procedure esecutive immobiliari, passate da 59.178 a 68.087 (+8.909, pari a

+15,1%), con una corrispondente crescita della pendenza, passata da 205.607 a 215.646 (+10.039, con un incremento percentuale del 4,9%). Analogo fe-nomeno ha riguardato le procedure esecutive mobiliari, preoccupante sintomo d’impoverimento della complessiva situazione economica e sociale del nostro Paese, aumentate dal già imponente numero di 414.679 a quello di 432.262 (+ 17.583, pari a +4,2%), con un incremento della pendenza di 11.564 procedimenti, in misura corri-spondente, rispetto al periodo 1 luglio 2008-30 giugno 2009, a + 3,8%.
Altro sintomo indicativo della crisi economica che coinvolge anche l’Italia è co-stituito dall’aumento delle istanze di fallimento da 27.449 a 34.033 (+6.584 pari a +24,0%) e delle relative pendenze (+2.155, pari a +19,5%), nonostante l’incremento anche delle definizioni (+6.303, pari a +24,9%). Cresce anche il numero dei nuovi giudizi fallimentari (+ 2265, +28%), ma sono in diminuzione le relative pendenze (-2298, pari a -2,6%).
In materia di diritto di famiglia, cresce ancora il numero delle nuove iscrizioni ri-guardanti le separazioni, sia consensuali (+3,4%) che giudiziali (+3,0%), ma mentre aumenta la pendenza delle prime (+2,9%), diminuisce quella delle seconde (-3,8%), anche se cresce, per le une e le altre, il numero delle definizioni (rispettivamente +4,6% e +4,9%).
In diminuzione invece le sopravvenienze relative ai divorzi (-2,3% per i divorzi
consensuali e -4,0% per quelli giudiziali) e in forte calo sono le relative pendenze (-10,9% per i divorzi consensuali e -4,5% per quelli giudiziali).
Il contenzioso civile presso i tribunali per i minorenni registra una diminuzione delle sopravvenienze (passate da 65.599 a 63.775) nella misura percentuale di -2,8 % e un aumento delle definizioni (cresciute da 66.628 a 67.304) pari a +1%, con decre-mento delle pendenze (diminuite da 122.463 a 118.144) nella misura di -3,5 %.
Quanto ai giudizi davanti ai giudici di pace, sono in diminuzione le sopravve-nienze (-89.627, pari -4,9% rispetto all’anno precedente ) e le pendenze (-12.290, cor-rispondente a -0,8%) e in aumento le definizioni (+80.385, pari a +4,8%).
Il carico maggiore è dato dai giudizi di opposizione alle sanzioni amministrative (nuove iscrizioni, 718.243), che però, rispetto al periodo 1 luglio 2008-30 giugno 2009, diminuiscono come sopravvenienze (-254.863, pari a -26,2 %), e come pen-denze (-65.713, pari a -6,6%), e dalle cause di risarcimento danni da circolazione (nuove iscrizioni 286.205), che crescono come sopravvenienze (+26.041, pari a +10%) e come pendenze (+32.642, corrispondente a +9%), essendo anche diminuite le definizioni (-16.597, -6,1%).
I dati in esame si spiegano con due ordini di fattori, che stanno producendo rile-vanti modificazioni nella composizione del contenzioso civile pendente dinanzi ai giudici di pace: il primo è costituito dall\’introduzione del contributo unificato di 30,00 Euro per le opposizioni a sanzioni amministrative, che ha determinato una netta riduzione di tali ricorsi (circa il 70%), il secondo è rappresentato dal raddoppio della competenza per valore del giudice di pace relativamente alle cause ordinarie e dal-l\’aumento a 20.000,00 Euro di quella in materia di danni a cose derivanti da sinistri stradali, che si è risolto in un raddoppio secco dei decreti ingiuntivi e quasi nel rad-doppio delle cause ordinarie. Gli effetti positivi di tali modifiche, consistenti nella ri-duzione del contenzioso complessivamente pendente dinanzi al giudice di pace e in una sua maggiore qualificazione sotto il profilo tecnico, non possono far tacere gl\’in-
convenienti che ne possono derivare, e che sono agevolmente identificabili, in pro-spettiva, in un sensibile allungamento della durata media dei giudizi (essendo venuta meno la positiva incidenza della breve durata delle opposizioni a sanzione ammini-strativa) e nel prevedibile aumento delle impugnazioni (collegato alla maggiore inci-denza percentuale delle cause ordinarie).
Sotto il profilo della risposta di giustizia in un delicato settore riguardante la tute-la di diritti fondamentali della persona, ma anche la sicurezza dei cittadini, preoccupa il dato relativo ai giudizi in materia di immigrazione, con riferimento ai quali, a fron-te di una diminuzione delle nuove iscrizioni (-1.053, pari a -9,8%), si è registrato un decremento delle definizioni (-990, corrispondente a -9,6%), con sensibile aumento delle pendenze (+545, pari a +19,3%).
3. Le innovazioni legislative.
3.1. Le prime applicazioni della legge n. 69 del 2009.
L\’analisi della produzione normativa nel settore civile per l\’anno 2010 non può prescindere da una verifica dello stato di attuazione delle modifiche alla disciplina del processo civile introdotte dalla legge 18 giugno 2009, n. 69.
Una valutazione dell\’impatto che tali modifiche hanno avuto sullo svolgimento dei giudizi di merito è peraltro fortemente condizionata dalla norma transitoria conte-nuta nell\’art. 58, che – limitandone l\’applicazione ai processi instaurati in data succes-siva all\’entrata in vigore della legge, fatta eccezione per le norme che prevedono la motivazione concisa delle sentenze, il divieto di produrre nuovi documenti in appello e l\’appellabilità delle sentenze in materia di opposizione all\’esecuzione – rende assai problematico esprimere un giudizio sull\’efficacia complessiva della legge, a un anno e mezzo dalla sua entrata in vigore.
Qualche indizio sul recepimento, quanto meno da parte dei giudici, delle scelte assiologiche su cui si fonda la nuova disciplina, può tuttavia essere tratto da un certo
numero di provvedimenti editi, i quali evidenziano la tendenza a un\’applicazione e-stensiva della nuova formulazione dell\’art. 96 c.p.c., che ha profondamente innovato il regime della responsabilità aggravata della parte soccombente, trasformando una norma sostanzialmente inapplicata in una prescrizione che espone la parte soccom-bente per evidente infondatezza della sua pretesa o della sua resistenza in giudizio al rischio serio e concreto di conseguenze patrimoniali di non modesta entità. Pur non ignorando i dubbi di costituzionalità sollevati da una parte della dottrina, si è tentato infatti di riconoscere alla norma, mediante un\’interpretazione costituzionalmente o-rientata, proprio la funzione di meccanismo sanzionatorio volto a colpire comporta-menti processuali che denotano un uso chiaramente distorto del processo o una tattica esclusivamente dilatoria delle ragioni della parte vittoriosa, vanificando l\’effettività della tutela richiesta.
Prematura appare invece, allo stato, qualsiasi valutazione sugli effetti della nuova formulazione dell\’art. 92, secondo comma, c.p.c., che ha ulteriormente limitato il po-tere di disporre la compensazione delle spese di lite, richiedendo «gravi ed ecceziona-li ragioni esplicitamente indicate nella motivazione», e dell\’art. 91, secondo comma, c.p.c., che, in caso di accoglimento della domanda in misura non superiore alla pro-posta conciliativa, prevede, per la parte che l\’ha rifiutata, la condanna alle spese matu-rate successivamente alla formulazione della proposta stessa. Si tratta di regole deon-tologiche, volte a disegnare non già un processo più breve ma un processo migliore, che s\’iscrivono nel più ampio contesto di valorizzazione della funzione sostanziale del processo civile, dovuto, in larga parte, alla spinta propulsiva proveniente dagli orien-tamenti processuali della Corte di cassazione, incentrati sull\’effettività delle garanzie del giusto processo nonché sull\’attenzione formatasi attorno ai temi dell\’abuso del di-ritto e del processo.
Minore incidenza sembra doversi invece riconoscere ad altre disposizioni che, pur essendo specificamente finalizzate alla riduzione dei tempi del giudizio di merito,
svolgono una funzione di stimolo e impulso all\’effettiva trattazione dei procedimenti tutto sommato marginale, in quanto
priva di qualsiasi influenza sulle variabili real-mente incidenti sulla durata dei processi, ovvero la rilevante sproporzione tra il flusso di cause in entrata e il numero di procedimenti definiti. Si allude in particolare alle norme che hanno ridotto il termine per la riassunzione del procedimento a seguito del verificarsi di una causa interruttiva, nonché la durata massima della sospensione di-sposta d\’ufficio dal giudice, prevedendo, peraltro, una riduzione da quattro a tre mesi anche per la sospensione disposta su istanza di tutte le parti.
In linea più generale, pur riconoscendosi a tali disposizioni una funzione raziona-lizzatrice, si è ritenuto che esse, così come altre che caratterizzano l\’ultima riforma processuale, testimonino una sostanziale sfiducia del legislatore verso modelli pro-cessuali più flessibili, da attuare, anche nel giudizio ordinario a cognizione piena, al-l\’interno di una cornice legislativa predeterminata che garantisca l\’osservanza dei principi del giusto processo, mediante la modulazione in concreto ritenuta più effica-ce a soddisfare la tutela dei diritti cui sono destinati, secondo priorità e scansioni sta-biliti dal giudice con le parti. In tal senso sembrano deporre anche il nuovo art. 81-bis disp. att. c.p.c., che impone al giudice di predisporre un «calendario del processo», e l\’art. 195, terzo comma, c.p.c., in virtù del quale il provvedimento di affidamento del-l\’incarico al c.t.u. deve indicare un termine per il deposito delle osservazioni di parte e della replica del consulente. Queste norme, che pure recepiscono prescrizioni già con-tenute nei protocolli di udienza elaborati dagli Osservatori della giustizia civile con la partecipazione di magistrati e avvocati, comportano, ad avviso di alcuni, un ingiusti-ficato irrigidimento di disposizioni che, per il loro contenuto ordinatorio e organizza-tivo, devono potersi adattare alle specifiche situazioni processuali.
Ampie potenzialità applicative, e non già mere implicazioni assiologiche, vengo-no invece riconosciute all\’art. 614-bis cod. proc. civ., il quale, attribuendo al giudice, su richiesta di parte, il potere di fissare, a carico del soccombente di una statuizione di
condanna, una somma per ogni violazione o ritardo nell\’esecuzione del provvedimen-to, introduce un potente strumento di coercizione indiretta, particolarmente efficace per i provvedimenti che abbiano ad oggetto un facere o un non facere infungibile, che, se utilizzato in modo diffuso e con fissazione d\’importi non simbolici, può de-terminare non solo l\’effetto virtuoso di favorire l\’adempimento spontaneo, ma anche quello di accelerare drasticamente proprio le esecuzioni che si annunciano più com-plesse con i normali strumenti di esecuzione forzata. Nei primi provvedimenti editi, si può cogliere immediatamente la tendenza verso un\’applicazione estensiva del nuovo strumento di coercizione indiretta, la cui portata non viene circoscritta ai provvedi-menti che definiscono il procedimento a cognizione piena, ma è estesa anche alle or-dinanze cautelari aventi natura anticipatoria e a quelle emesse all\’esito dell\’instaura-zione del nuovo procedimento sommario, in quanto idoneo al giudicato.
Può dirsi pertanto che, pur riconoscendosi i limiti delle misure esclusivamente processuali, esiste una comune sensibilità tra i giudici di merito verso un\’utilizzazione ampia di tutte le tecniche processuali che possano favorire l\’effetto virtuoso di una ri-sposta effettiva, adeguata e sollecita alle domande di tutela, secondo l\’insegnamento sempre più incisivo che su questo versante proviene anche dagli orientamenti proces-suali della Suprema Corte.
In tale prospettiva, e pur con tutte le cautele suggerite dalla brevità del periodo di attuazione della legge, desta meraviglia, rispetto all\’interesse e alle aspettative susci-tati in fase di elaborazione del testo normativo, l\’impatto operativo alquanto modesto avuto dal procedimento sommario di cognizione, che pure costituisce la più rilevante novità introdotta dalla legge n. 69 del 2009, sostenuta da un\’amplissima promozione realizzata mediante iniziative formative centrali e decentrate, articoli e pubblicazioni, protocolli elaborati dalla gran parte dei tribunali italiani.
I dati provenienti da molti tribunali evidenziano, infatti, un\’applicazione del nuo-vo istituto che si colloca tendenzialmente al di sotto del 10% delle sopravvenienze
complessive (a titolo esemplificativo, si riportano i seguenti dati, estratti da CIVIL-NET : Tribunale Piacenza: 20 ricorsi complessivi; Tribunale di Reggio Emilia: 21 ri-corsi nel 2009, 48 nel 2010; Tribunale di Bologna: 59 ricorsi nel 2009, 109 nel 2010; Tribunale di Firenze: 171 ricorsi nel 2010; Tribunale di Verona: 52 ricorsi su 1589 sopravvenienze nel 2009, e 164 su 3693 sopravvenienze nel 2010), benché ad esso possa farsi ricorso sostanzialmente per tutte le controversie di competenza del giudice monocratico alle quali è applicabile il rito ordinario nel giudizio a cognizione piena, e che non presentino complessità istruttoria.
I dati riportati appaiono ancor più sorprendenti se si considera che i provvedi-menti editi o circolanti on line evidenziano una netta tendenza dei giudici ad estende-re l\’applicazione del rito sommario anche oltre le esemplificazioni prospettate prima della sua entrata in vigore, e che, al fine di favorire il rispetto dei tempi contingentati del processo, si è ritenuto applicabile anche al nuovo procedimento sommario la norma relativa alla calendarizzazione del processo. Le ragioni del limitato successo del nuovo istituto vengono anche in tal caso individuate nella rigida disciplina della sua fase introduttiva, che esclude ogni forma di negoziabilità e collaborazione tra le parti nella definizione dei modi e dei tempi del procedimento, impedendo la formula-zione di qualsiasi previsione al riguardo, nonché nei dubbi interpretativi insorti sull’applicabilità delle preclusioni in punto di allegazioni dei fatti e deduzioni istrut-torie e all\’individuazione del termine finale di decadenza, oltre che alla configurabili-tà in concreto dei poteri istruttori del giudice.
In tal senso, un utile contributo può venire da un lato dall\’applicazione dell\’art. 702-ter, quinto comma, c.p.c., che attribuisce al giudice il potere di procedere «agli atti d\’istruzione rilevanti in relazione all\’oggetto del procedimento», consentendogli, sempre all\’interno dei confini del principio dispositivo, di modulare l\’istruzione pro-batoria secondo le effettive esigenze della decisione, dall\’altro dalla predisposizione dei protocolli, che nella maggior parte dei casi contengono specifiche prescrizioni re-
lative al tempo che deve intercorrere tra la proposizione del ricorso e la fissazione della prima udienza, indicano la necessità di prevedere un percorso preferenziale per la trattazione di questi ricorsi, e formulano una stima della durata complessiva di tali procedimenti in un tempo tendenzialmente non superiore a sei mesi-un anno.
3.2. La mediazione.
Se, come si è detto, le modifiche introdotte dalla legge n. 69 del 2009 possono contribuire ad accelerare lo svolgimento del giudizio, ma non consentono di porre ri-medio a quella che viene ormai comunemente individuata come la causa principale dell\’eccessiva durata del processo, ovverosia l\’incapacità del sistema giudiziario di far fronte a una domanda di giustizia in costante aumento, migliori risultati appare lecito aspettarsi, in tale direzione, dal d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28, emanato in attuazione del-la delega di cui alla legge 18 giugno 2009, n. 69, che ha introdotto nel nostro ordina-mento la figura del mediatore professionale, rendendo la mediazione condizione di procedibilità per numerose tipologie di controversie civili.
In precedenza, la mediazione professionale, così come in genera

le gli strumenti finalizzati a favorire la composizione stragiudiziale delle controversie insorte o insor-gende (altrimenti detti ADR, ovvero Alternative Dispute Resolution) era pressoché sconosciuta al nostro ordinamento, eccezion fatta per poche ipotesi particolari, men-tre era largamente studiata e praticata, e in taluni casi imposta dalla legge, in altri Pa-esi dell\’Unione Europea, così come in vari Paesi extraeuropei. Alla mediazione come strumento di ADR, del resto, guardava da tempo con favore anche l\’Unione Europea, che, dopo aver invitato gli Stati membri ad istituire procedure stragiudiziali di solu-zione delle controversie (cfr. Consiglio europeo di Tampere del 15-16 ottobre 1999) e aver promosso l\’adozione di un Codice europeo di condotta per mediatori, ha adottato la direttiva 2008/52/CE, del 21 maggio 2008, sulla mediazione in materia civile e commerciale nelle controversie transfrontaliere, la quale ha stabilito un quadro mini-
mo di regole uniformi che assicurino l\’esecutività degli accordi di mediazione stipula-ti al fine di prevenire controversie tra soggetti appartenenti a differenti Stati membri.
In sintonia con questo prospettiva si pone il d.lgs. n. 28 del 2010, il quale istitu-zionalizza la figura del mediatore, inquadrandone l\’attività in quella di appositi orga-nismi e definendone i requisiti soggettivi, ma si limita a disciplinare il procedimento di mediazione nei suoi aspetti essenziali, lasciando libere le parti non solo di trovare il tipo di accordo più conveniente, sotto la guida del mediatore, ma anche di stabilire il percorso per raggiungere l\’accordo.
Uno dei pilastri su cui si fonda il nuovo istituto è la previsione dell\’obbligatorietà della mediazione per chi intenda introdurre una controversia rientrante tra quelle pre-viste dalla legge: l\’art. 5, comma 1, prevede infatti, per i procedimenti introdotti a par-tire dal 20 marzo 2011, l\’obbligo di esperire il procedimento di mediazione, la cui vi-olazione è sanzionata con l\’improcedibilità della domanda.
La genericità della legge nell\’indicazione delle categorie di controversie assogget-tate all\’obbligo in questione (art. 2) consegna peraltro agli interpreti non pochi dubbi interpretativi, soprattutto con riferimento all\’individuazione delle domande da ricon-durre a ciascuna categoria, nonché all\’ipotesi in cui nel medesimo processo vengano proposte, ad opera della medesima parte o di parti contrapposte, una pluralità di do-mande, non tutte assoggettate alla condizione di procedibilità in questione. Tali incer-tezze potrebbero non solo pregiudicare il conseguimento delle finalità di deflazione del contenzioso civile perseguite dal legislatore mediante l\’introduzione dell\’istituto in esame, ma anche risultare di ostacolo a un rapido svolgimento del giudizio, soprattut-to nella sua fase introduttiva: in caso di mancato espletamento o mancata conclusione della procedura di mediazione anteriormente alla proposizione della domanda giudi-ziale, il giudice è, infatti, tenuto a rinviare la trattazione a un\’udienza differita di al-meno quattro mesi, ed eventualmente a fissare un termine di quindici giorni per l\’av-vio della medesima procedura, essendo prevista, quale unico limite a tale obbligo, la
necessità che il difetto del previo esperimento della mediazione sia eccepito dalle par-ti o rilevato dal giudice non oltre la prima udienza (art. 5, comma 1).
Molti dei primi commentatori del d.lgs. n. 28 del 2010 hanno evidenziato che il successo della riforma, rispetto al suo intento di favorire la conciliazione stragiudizia-le, dipenderà dall\’atteggiamento psicologico dei litiganti: un approccio alla mediazio-ne avvertita come una formalità da assolvere, al solo fine di rendere procedibile la domanda, difficilmente potrà apportare risultati proficui in termini di deflazione del contenzioso; per contro, una salda fiducia delle parti nella possibilità di trovare un accomodamento dinanzi al mediatore costituirà il primo e più importante presupposto perché qualsiasi mediazione possa avere successo.
Per favorire tale vero e proprio cambiamento di mentalità rispetto al tradizionale approccio conflittuale al processo, il legislatore ha previsto misure incentivanti rispet-to al ricorso alla mediazione (e, ovviamente, alla conciliazione che ne costituisce il naturale esito), e misure dissuasive da intenti dilatori o pertinacemente sordi a qual-siasi ipotesi conciliativa. Tali misure sono costituite da un complesso di norme che operano su vari piani, da quello tutto interno al rapporto tra parte e difensore, a quello fiscale, a quello dell\’istruzione probatoria, sino al regime delle spese di lite.
Tra le misure incentivanti, vanno ricordati l\’obbligo del difensore di informare il proprio cliente sulla possibilità di ricorrere alla mediazione, previsto a pena di nullità del contratto d\’opera professionale (art. 4), l\’inutilizzabilità in sede giudiziaria delle informazioni acquisite e delle dichiarazioni rese durante il procedimento di media-zione (art. 10), l\’esenzione totale da qualsiasi imposta o tassa degli atti del procedi-mento di mediazione (art. 17), l\’attribuzione di un credito d\’imposta alle parti che hanno fatto ricorso alla mediazione (art. 20).
Al fine di disincentivare resistenze fino all’ultimo di uno dei litiganti, il decreto sulla mediazione ha invece previsto la possibilità di prevedere una sanzione nel caso di violazione dell\’accordo conciliativo (art. 11), e l\’esclusione del diritto alla rifusione
delle spese, in una con l\’obbligo di pagare le spese sostenute dalla controparte e u-n\’ammenda allo Stato, a carico della parte che abbia rifiutato ingiustificatamente la proposta conciliativa formulata dal mediatore, quando la sentenza conclusiva del giu-dizio corrisponda interamente a tale proposta (art. 13).
La convergenza di opinioni manifestatasi tra gli operatori giuridici in ordine all\’a-stratta idoneità dello strumento in questione a favorire la deflazione del contenzioso civile non può peraltro far tacere la pesante ipoteca posta, rispetto alla sua concreta attuazione, dall\’iniziativa assunta dall\’Organismo unitario dell\’avvocatura, il quale ha impugnato dinanzi al giudice amministrativo il regolamento emanato dal Ministro della giustizia, denunciando in particolare le insufficienti garanzie di professionalità e indipendenza offerte dai requisiti soggettivi prescritti per il conciliatore e le strutture di conciliazione, la lesione del diritto alla difesa derivante dalla mancata previsione dell\’assistenza necessaria di un avvocato e l\’ostacolo all\’accesso alla giustizia, o quan-to meno il ritardo nello svolgimento del giudizio, rappresentato dalla configurazione dell\’esperimento della mediazione come condizione di procedibilità.
La previsione di siffatto incisivo effetto giuridico della mediazione, se appare ne-cessario perché il nuovo istituto abbia effetti deflattivi del contenzioso, deve fare con-siderare con molta attenzione le preoccupazioni, manifestate anche dal Consiglio na-zionale forense, sulle difficoltà attuative della riforma, con la prospettiva di un rinvio idoneo a rendere concretamente possibile l’instaurarsi efficiente del nuovo meccani-smo destinato a condizionare l’inizio di un ampio potenziale contenzioso civile.
3.3. L\’arbitrato nel c.d. collegato lavoro.
Problematiche in parte diverse, ma sempre collegate alla garanzia dei diritti, par-ticolarmente rilevante in un settore caratterizzato per definizione dallo squilibrio tra le posizioni giuridico-economiche delle parti, sono quelle suscitate dalle disposizioni del c.d. collegato lavoro, approvato con legge 4 novembre 2010, n. 183, che modifi-
cano notevolmente le norme del codice di procedura civile (artt. da 409 a 412-quater c.p.c.) con riferimento alla conciliazione e all\’arbitrato, potenziando le vie di compo-sizione
delle controversie di lavoro alternative al ricorso giudiziale.
In particolare, per favorire la composizione stragiudiziale delle controversie di lavoro, s’introducono una pluralità di rimedi, formalmente facoltativi e volontari (ma sostanzialmente compromettibili), alternativi al ricorso al giudice del lavoro:
– la possibilità di affidare alla commissione di conciliazione, innanzi alla quale si svolge il tentativo di conciliazione (oggi non più obbligatorio ma solo facoltativo), il mandato a risolvere in via arbitrale la controversia;
– la possibilità di raggiungere un accordo, ai sensi del nuovo art. 412-quater, da-vanti ad una speciale commissione di conciliazione e arbitrato irrituale, che si ag-giunge a quella già prevista in sede sindacale dall\’art. 412-ter;
– la possibilità di nuove sedi e modalità di conciliazione e arbitrato previste dalla contrattazione collettiva;
– la possibilità che le controversie di cui all\’art. 409 siano proposte innanzi al col-legio di conciliazione e arbitrato irrituale, composto nel modo disciplinato dall\’art. 412-quater, nuova versione, ferma restando la facoltà di ciascuna delle parti di adire l\’autorità giudiziaria e di avvalersi delle procedure di conciliazione e di arbitrato pre-viste dalla legge;
– l\’ulteriore estensione delle funzioni delle commissioni di certificazione, di cui all\’art. 76 del d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276, prevedendosi che esse possano istitui-re camere arbitrali per la definizione delle controversie di lavoro mediante arbitrato irrituale.
In passato, l\’arbitrato aveva trovato scarsa utilizzazione in materia di lavoro, so-prattutto in ragione della facoltà delle parti di rivolgersi in ogni caso al giudice, non-ché dell\’impugnabilità giudiziale del lodo per violazione delle disposizioni inderoga-bili di legge e contratti collettivi. Anche la certificazione non aveva avuto molta for-
tuna, non essendovi alcuna sicurezza che reggesse davanti a un tribunale, in quanto l\’art. 24 Cost. esclude la possibilità di prevedere atti negoziali privati o provvedimenti amministrativi inoppugnabili, mentre l\’art. 111 impedisce che vi siano contratti che sfuggano alla possibilità di un controllo giurisdizionale.
Con il nuovo sistema, si sono aggirati entrambi gli ostacoli.
Quanto all\’arbitrato, la rivitalizzazione dell\’istituto passa attraverso la previsione legale di forme arbitrali diverse e la limitazione dell\’impugnabilità del lodo ai soli ca-si di cui all\’art. 808-ter c.p.c. (che esclude la possibilità di denunziare al giudice la vi-olazione delle regole legali e collettive relative al merito della controversia), nonché, ai sensi della nuova formulazione dell\’art. 412 c.p.c., attraverso la previsione che la clausola compromissoria può ricomprendere anche la “richiesta di decidere secondo equità, nel rispetto dei principi generali dell\’ordinamento” e dei “principi regolatori della materia, inclusi quelli derivanti da obblighi comunitari” (espressione, quest\’ul-tima, aggiunta a seguito dei rilievi al disegno di legge formulati dal Presidente della Repubblica).
Con riferimento alle certificazioni, si sono stabiliti vari limiti (art. 30) al potere del giudice di sindacare le clausole generali utilizzate o le valutazioni delle parti -espresse in sede di certificazione – nella qualificazione del contratto di lavoro e nel-l\’interpretazione delle relative clausole; inoltre, siccome le certificazioni – che riguar-dano il “contratto”- non vincolano compiutamente il giudice in relazione alla verifica dell’effettiva natura del rapporto di lavoro, si sono consentiti meccanismi per assicu-rare la decisione dell\’eventuale controversia da parte non più di un giudice, ma di un arbitro, autorizzato a decidere secondo criteri in buona parte diversi.
Tutta la disciplina risulta, infatti, particolarmente rilevante ove considerata unita-riamente alla previsione, introdotta sempre dal medesimo collegato lavoro, secondo la quale, in relazione alle materie di cui all\’art. 409 c.p.c., le parti contrattuali (ove previsto da accordi interconfederali o contratti collettivi di lavoro stipulati dalle orga-
nizzazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, o, in assenza di essi, secondo quanto attuato dal Ministro del la-voro e delle politiche sociali con proprio decreto) possono pattuire clausole compro-missorie di cui all\’art. 808 c.p.c., che rinviano alle modalità di espletamento dell\’arbi-trato di cui agli artt. 412 e 412-quater.
Gli strumenti in discorso assicurano numerosi vantaggi ai datori di lavoro e do-vrebbero avere perciò una discreta fortuna, con rivitalizzazione dell\’arbitrato ed effetti indiretti sul ricorso alla tutela giurisdizionale; peraltro, il nuovo sistema non è andato esente da critiche, anche veementi, essendo stati sollevati da parte della dottrina con-sistenti dubbi di legittimità costituzionale delle nuove disposizioni, in relazione a va-rie norme che tutelano il lavoro in modo inderogabile (artt. 3, 4, 41, 97 Cost., e altre), risultando evidente il tentativo di comprimere lo spazio di esercizio della giurisdizio-ne e di dirottare la tutela di quei diritti verso forme di giustizia privata, alle quali, co-me si è detto, la clausola compromissoria può attribuire anche il potere di decidere secondo equità.
I motivi di perplessità non sono venuti meno neppure a seguito delle modifiche introdotte nel corso dell\’iter di approvazione della legge, quali il divieto di sottoscri-zione della clausola compromissoria prima della conclusione del periodo di prova, ove previsto dal contratto, o prima del decorso di trenta giorni dalla data di stipula-zione del contratto di lavoro, e l\’esclusione della possibilità che la clausola compro-missoria riguardi le controversie relative alla risoluzione del rapporto di lavoro.
V
LO STATO DELLA GIUSTIZIA PENALE
1. I tempi.
Nel settore della giustizia penale di merito, nel periodo 1 luglio 2009-30 giugno 2010, la pendenza complessiva è aumentata, rispetto all’anno precedente (1° luglio 2008-30 giugno 2009), da 3.232.360 a 3.290.9501 procedimenti, con un incremento pari all’1,8%, in conseguenza dell’aumento delle nuove iscrizioni, passate da 3.317.932 a 3.452.663 (+ 4,1%) e malgrado l’aumento delle definizioni, che da 3.202.690 sono divenute 3.318.246, con un incremento del 3,6% rispetto all’anno precedente, ma che sono rimaste inferiori alle sopravvenienze nella misura di -134.417 procedimenti. Nel corrispondente periodo 2008-2009, la differenza tra nuove iscrizioni (3.317.932) e definizioni (3.202.690) era stata di 115.242 procedimenti. Nel 2010 si è quindi confermata la tendenza all’aumento delle sopravvenienze, sia in ter-mini assoluti sia in rapporto alle definizioni, e tale dato è alla base dell’incremento delle pendenze.
Particolarmente preoccupante è il dato concernente l’aumento delle pendenze nei giudizi davanti alle corti di appello (+15%) e ai giudici di pace (+16,2%), malgrado l’incremento delle definizioni (+6,1 % per le corti di appello e +5,9% per i giudici di pace), che non supera tuttavia l’entità delle nuove iscrizioni, anch’essa in aumento (rispettivamente +11% e +9,4%).
Molto più contenuto è l’aumento delle pendenze nei giudizi davanti al tribunale
1 Si precisa che nella relazione del Ministro della Giustizia il raffronto è operato con la pendenza esistente al 31 dicembre 2009, mentre nel presente testo il confronto delle pendenze è effettuato con riferimento al 30 giugno 2009, (nel secondo semestre dell’anno i procedimenti definiti sono minori rispetto al primo semestre, a causa dell’incidenza del periodo feriale)
(+2,6%), in conseguenza soprattutto di un non elevato incremento de

lle sopravve-nienze (+1,9%), atteso che le definizioni sono cresciute soltanto del 2,9% e non han-no comunque superato le nuove iscrizioni.
I dati relativi ai tribunali per i minorenni indicano un incremento delle pendenze nella misura del 5,9%, in conseguenza del maggior numero di sopravvenienze (+11%) e malgrado un aumento delle definizioni (+8,5%), che neppure in questo ca-so, però, superano il numero delle sopravvenienze.
Complessivamente si riscontra un indifferenziato aumento delle pendenze in tutti gli uffici giudicanti penali, con punte massime nelle corti di appello e nei giudici di pace, solo in parte compensato da una diminuzione delle pendenze presso gli uffici delle Procure (Procura generale della Repubblica, ma il dato si riferisce solo al ristret-to numero delle avocazioni, -12,7%; Procura della Repubblica presso il tribunale or-dinario -0,9%; Procura della Repubblica presso il tribunale per i minorenni -23,1%) ed è proprio la tendenza in diminuzione delle pendenze presso gli uffici delle Procure che consente al dato nazionale delle pendenze di attestarsi su di una contenuta per-centuale di aumento, che, se limitata agli uffici giudicanti, sarebbe di gran lunga più elevata.
In base alle prime elaborazioni statistiche relative al 2010, la durata media dei procedimenti penali presso le corti d’appello (riguardanti quelli celebrati davanti alle sezioni ordinarie, alle corti d’assise di appello e alle sezioni per i minorenni), che nel triennio 2007-2009 aveva subito un lieve aumento passando da 719 giorni a 738 con un incremento pari al 2,6%, appare stabilizzata sul dato del 2009 anche con riferi-mento al primo semestre del 2010.
La durata media dei processi penali davanti ai tribunali (riferiti complessivamente a quelli celebrati con rito collegiale, ordinario e davanti alle corti d’assise, e con rito monocratico di primo grado e di appello verso le sentenze dei giudici di pace), che nel triennio 2007-2009 aveva mostrato una tendenza alla diminuzione, passando da – 46 –
351 giorni nel 2007 a 317 giorni nel 2009 con una diminuzione del 9,7%, si attesta, nel primo semestre del 2010 e sulla base delle elaborazioni statistiche in corso, sul dato del 2009.
La durata dei giudizi penali davanti al giudice di pace ha registrato un aumento nel triennio 2007-2009, passando progressivamente da 179 giorni di durata media nel 2007 a 204 nel 2009, con un incremento del 13,6%. Tale tendenza trova conferma anche nelle stime provvisorie relative al primo semestre del 2010, che evidenziano una prospettiva di ulteriore incremento, con una durata media attestata intorno a 208 giorni.
Nei procedimenti presso le Procure della Repubblica si registra, come già riscon-trato per il tribunale ordinario, un’abbreviazione della durata media che, dopo essere diminuita da 426 giorni del 2007 a 400 del 2009, con decremento del 6,1%, tende, se-condo i dati nei primi mesi del 2010, a ridursi ulteriormente sotto la soglia dei 400 giorni.
Se si considerano complessivamente i dati relativi alle pendenze e quelli concer-nenti la durata media dei procedimenti, emerge una situazione di più grave sofferenza nelle corti di appello e negli uffici del giudice di pace, dove l’attività giudiziaria si ca-ratterizza per la tendenza all’aumento sia delle pendenze, che della durata dei tempi di definizione dei giudizi.
Nelle corti di appello si registra anche il tetto massimo di durata, in termini asso-luti, dei processi penali, superiore ai 730 giorni.
2. Andamento della criminalità
Non è compito di questa relazione, finalizzata a tracciare un bilancio dell’amministrazione della giustizia, soffermarsi sull’andamento della criminalità. In proposito, si rinvia alla dettagliata relazione della Direzione nazionale antimafia e ai rapporti che il Ministro dell’interno redige e periodicamente presenta al Parlamento e
al Paese.
Non si può tuttavia tralasciare di sottolineare che da tali relazioni emerge una ge-nerale tendenza alla diminuzione dei dati di criminalità per molti gravi delitti (em-blematica è la netta diminuzione degli omicidi e i tentati omicidi in Campania) e il consolidarsi di “indici di criminalità che sono al di sotto degli standard europei”2.
D’altro canto, occorre rilevare che, in contrasto con i dati reali, la gran parte delle ricerche segnalano la crescente percezione d’insicurezza, determinata soprattutto da delitti cd. di strada e da furti in casa di abitazione3. Non compete a noi indagare e a-nalizzare quanto sull’acuirsi di tale percezione concorra l’enfasi mass-mediatica con cui vengono trattati i fatti di criminalità4.
Ci preme piuttosto sottolineare che un aumento della fiducia nella capacità della magistratura d\’individuare, giudicare e punire gli autori dei reati costituisce sicura-mente un forte elemento di accresciuta fiducia nelle istituzioni, che può contrastare efficacemente la percezione d’insicurezza. A tal fine, l’elemento tempo è, ancora una volta, un fattore decisivo per la credibilità della risposta giudiziaria.
Dobbiamo tuttavia ribadire con fermezza che l’azione giudiziaria deve rispon-dere alle regole proprie del giusto processo, secondo i principi affermati dalla CE-DU e dalla Costituzione della Repubblica, e che va respinta ogni pressione sui pub-blici ministeri e sui giudici per l’adozione di provvedimenti esemplari, che si facciano carico di esigenze di ordine pubblico, di rassicurazione o di emozione collettive, vei-colate o amplificate da processi mediatici.
Fa parte dell’indipendenza del giudice la sua capacità di resistere a pressioni dell’opinione pubblica, anche maggioritaria o totalitaria. Egli, infatti, non è espres-
2 Censis, Rapporto sulla situazione sociale del paese, Franco Angeli, 2010, p. 623.
3 Istat, Reati, vittime e percezione della sicurezza, Indagine relativa agli anni 2008-2009 e diffusa il 22 novembre 2010; Censis, Rapporto, cit., p. 623.
4 Censis, Rapporto, cit., ivi.
sione né di maggioranza né di minoranza, perché è e deve rimanere estraneo al circui-to della responsabilità politica, essendo chiamato a svolgere il suo delicato compito con imparzialità rispetto alle partizioni e agli interessi politici che percorrono e divi-dono la società.
Men che meno tali esigenze, supposte o reali, possono giustificare invocazioni di misure cautelari personali, la cui adozione è legittima, quale che sia il destinatario, soltanto quando ogni altra misura risulti inadeguata.
Tanto premesso, deve darsi conto di talune più rilevanti o diffuse notazioni che provengono dai distretti, rinviando alle relazioni che saranno svolte domani dai Pre-sidenti delle Corti d’appello per l’analitica descrizione del quadro di ogni territorio.
Sembra in questa fase attenuarsi il profilo cd. “militare” delle organizzazioni ma-fiose e viene segnalata, con generale soddisfazione, la cattura da parte delle forze di polizia di numerosi ricercati che da anni riuscivano a sottrarsi all’esecuzione di prov-vedimenti cautelari o di ordini di carcerazione emessi dall’autorità giudiziaria.
S’impone, tuttavia, un atteggiamento di vigile prudenza e di non enfatizzazione nella positiva valutazione di tali fatti, giacché da più parti si segnala che all’attenuazione delle forme più efferate e sanguinose di criminalità fa da riscontro una più subdola pervasione e un’espansione geografica della pressione mafiosa sull’economia (anche in quella di per sé lecita), che dalle quattro regioni di più risa-lente insediamento criminale (Sicilia, Calabria, Campania, Puglia), si va estendendo a realtà territoriali economicamente più avanzate.
Mentre si presenta sostanzialmente stabile il numero

dei procedimenti per reati associativi di tipo mafioso nel distretto di Brescia, allarmante, anche se in leggera flessione rispetto all’anno precedente, rimangono le trentadue iscrizioni al registro delle notizie di reato per l’art. 416-bis c.p. segnalate nel distretto di Milano, nonché l’incremento, sia pure lieve, che si registra in talune province del Piemonte, a riprova di un lento, ma pervasivo inserimento della criminalità organizzata nelle aree setten-
trionali.
A tale tendenza espansionistica in territori economicamente sviluppati, si aggiun-ge una forma di maggiore radicamento economico, giacché emerge – come conferma anche la relazione della D.I.A. – che “le classiche forme d’imposizione verso le im-prese vanno progressivamente trasformandosi in partecipazione diretta alle attività, sfruttando l’attuale vulnerabilità dell’imprenditoria, seriamente attinta dalla crisi economica globale, i cui risvolti sono più pesanti nel fragile contesto socio-economico-finanziario delle regioni tradizionalmente afflitte dal fenomeno mafio-
. Permane forte il diffuso e penetrante controllo mafioso in Sicilia, anche se, dal distretto palermitano si segnalano una significativa ripresa del fenomeno della colla-borazione e rilevanti succ
nenti mafiosi latitanti. Nei distretti di Catania, Messina e Caltanissetta è stato registrato un aumento di estorsioni e di danneggiamenti e, soprattutto, un forte incremento delle iscrizioni per reati di associazi
ltanissetta). Il fenomeno che maggiormente affligge i distretti della Calabria resta la ‘ndran-gheta, un tipo particolarmente virulento di delinquenza mafiosa, anche sanguinaria, che continua a esercitare il suo potere criminale sulle attività economiche e sociali del territorio, attraverso il sistema delle estorsioni, delle intimidazioni violente, degli at-tentati, dell’illecita influenza sugli appalti e del controllo delle attività criminali. So-no stati evidenziati l’intensità dei collegamenti della ‘ndrangheta con organizzazioni criminali operanti in altre parti del territorio nazionale e su scala internazionale; il collegamento egemonico con insediamenti ‘ndranghetisti nell’Italia centrale e setten-
5 Relazione del Ministro dell’Interno al Parlamento sull’attività svolta e sui risultati conseguiti dalla Direzione in-vestigativa antimafia (1° semestre 2010), pag. 9.
trionale, dediti alle varie attività illecite e, in particolare al traffico di sostanze stupe-facenti e a
uisiti. Mentre permangono le preoccupazioni per la pressione estorsiva in danno d’imprese impegnate nella costruzione di tratti autostradali calabresi, è stata forte-mente sottolineata l’avvenuta sprovincializzazione della ‘ndrangheta, che ha assunto dimensioni interregionali e internazionali, acquisendo le peggiori connotazioni delle altre più antiche organizzazioni criminali, anche con tendenza al superamento della dimensione di microcosmi a struttura familiare e localistica verso la carat
ellule interdipendenti e collegate al vertice da strutture sovraordinate. In questa situazione è necessario assumere l’espansione della ‘ndrangheta come emergenza nazionale, apprestando gli indispensabili rimedi di potenziamento straor-dinario del settore investigativo
essarie risorse economiche. Relativamente stabile risulta il quadro della criminalità in Puglia, anche a seguito dei significativi risultati raggiunti dalle forze dell’ordine e dagli accertamenti giudi-ziari nei confronti delle associazioni mafiose del territorio, mentre viene segnalato un netto decremento sia degli omicidi, tentati e consumati, commessi in Campania, sia delle iscrizioni di notizie del reato di cui all’art. 416-bis cod. pen. nel distretto di Na-poli, verosimilmente a motivo dell’intelligente e costante impegno delle forze di poli-zia e della magistratura nei confronti delle associazioni camorristiche, i cui massimi esponenti, in gran parte catturati, sono stati giudicati in procedimenti definiti anche in Cassazione. Tra i processi di maggior rilievo, meritano di essere segnalati quelli a ca-rico degli esponenti del cd. “clan dei casalesi” (imputati di associazione camorristica, omicidi, estorsioni, reati in materia di armi e altro), definiti con encomiabile celerità, nonostante la compless
ero dei ricorrenti. – 51 –
Nel Lazio e, particolarmente, a Roma è in forte espansione il traffico degli stupe-facenti e appare consistente la criminalità di provenienza romena e nigeriana, che o-pera
La massima attenzione va posta soprattutto sul fatto che la criminalità organizzata italiana, in tutte le sue varianti (camorra, \’ndrangheta, mafia siciliana) investe somme ingenti per l\’acquisizione di rilevanti attività economiche soprattutto nel campo alber-ghiero e in quello della ristorazione. Sono stati al riguardo iniziati numerosi procedi-menti penali di particolare rilievo
estri preventivi patrimoniali. L’espansione territoriale e la subdola insinuazione nella proprietà e nella gestione delle imprese anche originariamente non mafiose producono distorsione del mercato economico e determinano rilevanti effetti negativi su tutta l’economia meridionale, di cui è indicativa espressione il più difficoltoso accesso al credito e il suo più elevato costo rispetto alla media nazionale: la differenza deriva dal più alto tasso di criminali-tà, che determina anche m
titi su conto corrente6. Anche la citata Relazione sull’attività della D.I.A. sottolinea la tendenza mafiosa a privilegiare il superamento della fase parassitaria (cd. “pizzo”) verso la costrizione alla compartecipazion
tenti di resistere. Una tendenza analoga verso un’assunzione di protagonismo è stata sottolineata dalla stessa Relazione anche “nella trasformazione dei rapporti tra mafia e politica, ove, alla classica ricerca di mediazione sinallagmatica con soggetti estranei al cir-cuito criminale, che si ponevano nel ruolo di concorrenti esterni, si tenta di sostituire
6 E. Bonaccorsi di Patti, Presenza della criminalità organizzata e caratteristiche dei prestiti bancari, paper n. 52 , Banca d’Italia, luglio 2009; Relazione, D.I.A., cit. p. 15.
un più alto grado d
gono politici”7. Occorre d’altro canto evidenziare con soddisfazione e valorizzare i segni di vita-le reazione della società civile, che assume un più attivo ruolo di protagonismo, at-traverso la costituzione di movimenti e associazioni, anche giovanili, che, all’impegno culturale, sociale e politico contro la mafia e contro il parassitismo estor-sivo, aggiungono concrete attività di recupero all’utilizzazione civica, anche simboli-camente significativo, di beni illecitame
enti di confisca giudiziaria. Tali provvedimenti sono in netto aumento, rileva la relazione della Direzione na-zionale antimafia, anche grazie alle possibilità offerte dalla recente normativa. Positi-va attuazione si va facendo dell’innovazione normativa in materia di confisca di cui all\’articolo 12-sexies della legge 356/92 che consente, ex art. 321 del codice di proce-dura penale, la possibilità di procedere al sequestro dei beni di provenienza illecita anche in assenza del vincolo di pertinenzialità con il reato per il quale si procede. Ciò sta agevolando l’adozione di
tinaia di milioni di euro. Per quanto riguarda gli strumenti d’indagine, dal distretto di Catanzaro viene po-sto l’accento sull’indispensabilità delle intercettazioni di conversazioni telefoniche e ambientali per l’accertamento dei delitti di criminalità organizzata, soprattutto in am-bienti connotati da forte omertà. Analoga sollecitazione è contenuta nella relazione della Direz

ione nazionale antimafia, la quale evidenzia che “senza le intercettazioni, le armi da opporre al dilagare della criminalità – specie se organizzata ma non solo – risulterebbero non soltanto spuntate, ma pressoché prive di qualsiasi efficacia”. Sol-lecit
7 Relazione D.I.A., cit. pag. 15.
.
3.1
direttive europee in materia ambientale e sul versante della criminalità organ
ssendo transita
a avrebbe avuto su di
essi
3. Le innovazioni legislative.
Interventi nel settore penale. La produzione di norme penali ha subito nel corso del 2010 un vistoso rallenta-mento rispetto all’anno precedente, concentrandosi soprattutto sull’attuazione delle più recenti
izzata. All’inizio dell’anno il legislatore è dovuto intervenire in via d’urgenza8 per porre rimedio alle conseguenze determinate, in tema di competenza, dall’innalzamento del-le pene previste per i promotori, i capi e gli organizzatori dell’associazione mafiosa “armata” operato dalla l. n. 251 del 2005 (c.d. legge “ex Cirielli”). Come, infatti, evi-denziato da una pronunzia della Corte del gennaio scorso, la fattispecie in questione non poteva più considerarsi appartenere alla competenza del Tribunale, e
ta in quella della Corte d’assise a seguito della menzionata modifica. Il reato in questione è stato dunque opportunamente restituito alla competenza del Tribunale, garantendo così la stabilità dei procedimenti pendenti e arginando il ri-schio di allungamento dei tempi di trattazione e definizione. Nell’occasione, la legge di conversione ha provveduto altresì a un prudente ampliamento della competenza delle corti d’assise, correggendo in tal senso la scelta più radicale operata dal decreto legge di attribuire alla cognizione del giudice superiore tutti i maggiori reati di crimi-nalità organizzata. Correzione che ha condivisibilmente tenuto conto degli attuali as-setti organizzativi e dell’impatto negativo che una riforma siffatt
, soprattutto nelle sedi giudiziarie di dimensioni più ridotte. Sempre in materia di criminalità organizzata il d.l. 4 febbraio 2010, n. 49 è inter-
8 D.l. 12 febbraio 2010, n. 10, convertito con modificazioni. dalla l. 6 aprile 2010, n. 52.
9 Convertito con modificazioni dalla l. 31 marzo 2010, n. 50.
venuto sulla materia dell’amministrazione e della destinazione dei beni sequestrati e confiscati alle organizzazioni criminali. Sequestri e confische che rivestono senza dubbio un ruolo determinante per realizzare il fine ultimo perseguito dalla normativa sulle misure patrimoniali antimafia, le quali – com’è stato evidenziato ripetutamente dalla giurisprudenza costituzionale e di legittimità – mirano a sottrarre definitivamen-te i beni di provenienza illecita al cir
te da condizionamenti criminali. Nel campo della destinazione dei beni confiscati, con la l. 7 marzo 1996, n. 109, è stata al tempo introdotta una normativa unica nel suo genere nel panorama interna-zionale, finalizzata alla restituzione alla collettività dei patrimoni delle organizzazioni criminali attraverso il loro riutilizzo sociale, produttivo e pubblico. Ciononostante, a fronte dell\’eccezionale incremento delle procedure penali e di prevenzione relative al sequestro e alla confisca di beni sottratti alle associazioni mafiose, la legge citata a-veva evidenziato la sua crescente inadeguatezza, facendo emergere la necessità di ap-prontare uno strumento straordinario in grado di assicurare una migliore amministra-zione dei beni sottoposti a sequestro per effetto delle nuove politiche di aggressione ai patrimoni mafiosi, nonché quella di consentire la più rapida ed effi
stinazione dei beni confiscati, devoluti al patrimonio dello Stato. In tal senso il nuovo intervento legislativo si è mosso su due direttrici in grado di soddisfare le segnalate esigenze. Da un lato, si è provveduto all\’istituzione di un nuo-vo organismo, l\’Agenzia nazionale per l\’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata, cui viene demandata la titolarità dell\’amministrazione e della destinazione dei beni confiscati; dall’altro lato, si è assi-curata l\’unitarietà degli interventi, diretti anche a programmare, già durante la fase dell\’amministrazione giudiziaria, la destinazione finale dei b
iatezza rispetto al provvedimento definitivo di confisca. In sede di conversione del decreto legge il Parlamento ha provveduto ad apporta-
re opportuni aggiustamenti all’originario testo normativo, prevenendo soprattutto il rischio d’interferenze, nella pendenza dei procedimenti penali e di prevenzione, tra l’azione giudiziaria e quella dell’Agenzia e introducendo altrettanto opportune caute-le per l’ipotesi di vendita dei beni confiscati, al
a disponibilità della criminalità organizzata. L’azione legislativa di contrasto alla criminalità organizzata è stata continuata dalla l. 13 agosto 2010, n. 136, con cui il legislatore si è proposto l’obiettivo di resti-tuire organicità alla normativa di settore attraverso l’adozione di un codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione. Operazione certamente ambiziosa, ma non più eludibile, atteso che l’imponente stratificazione delle disposizioni accumulatesi in questa materia negli ultimi vent’anni ne hanno reso non agevole la gestione, eviden-ziando frequenti problemi di coordinamento la cui soluzione non può più essere affi-data esclusivamente alla mediazione dell’interprete. In tal senso la legge menzionata ha conferito un’articolata delega all’Esecutivo, investito altresì della
ozione di nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia. Ma l’intervento legislativo si segnala anche per l’introduzione di disposizioni immediatamente precettive in materia penale e in tema di tracciabilità dei flussi fi-nanziari, di appalti e di verifica della cons
i sottoposti a misure di prevenzione. E’ stata operata una revisione della disciplina delle operazioni sotto copertura, che ha esteso l’ambito soggettivo e oggettivo della relativa disciplina, risolvendo in tal modo alcuni dei punti critici individuati in precedenza dalla giurisprudenza, come, ad esempio, quello relativo alla mancanza di una norma in grado di garantire la non punibilità anche d
o copertura. Quattro interventi normativi hanno interessato nell’anno 2010 il d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, c.d. Testo Unico Ambientale. In attuazione delle modifiche apportate
negli ultimi anni alla normativa comunitaria il legislatore ha operato una più puntuale definizione della disciplina dello scarico delle acque reflue, della valutazione d’impatto ambientale e del ciclo dei rifiuti, provvedendo altr
licativo delle sanzioni penali e di quelle amministrative. Tra i vari provvedimenti legislativi emanati nel corso del 2010, merita una men-zione anche la riforma del Codice della Strada operata dalla l. 29 luglio 2010, n. 120, che ha modificato per l’ennesima volta la disciplina dei reati di guida in stato di eb-brezza e di alterazione da stupefacenti, soprattutto con riguardo alla confisca del vei-colo utilizzato dal responsabile delle suddette violazioni, che il legislatore ha per la prima volta qualificato come sanzione e non come misura di sicurezza, recependo le recenti indicaz
gittimità. Infine va ricordato che il d. lgs. 7 settembre 2010, n. 161 ha dato attuazione alla Decisione quadro 2008/909/GAI sul reciproco riconoscimento ed esecuzione delle sentenze penali emesse dai paesi membri dell’Unione Europea. Il decreto ha introdot-to nel nostro ordinamento uno strumento di cooperazione giudiziaria assai av

anzato, la cui ratio – al pari del nuovo sistema di consegna introdotto dalla decisione quadro sul mandato d’arresto europeo, attuata in Italia con la l. 22 aprile 2005, n. 69 – si fon-da sul presupposto che le decisioni giudiziarie adottate in uno Stato membro (di emis-sione) possano, a determinate condizioni, trovare riconoscimento in un altro Stato membro (di esecuzione) ed essere, p
medesimo Stato di esecuzione. Si tratta, dunque, di un’ulteriore “concretizzazione” del principio del reciproco riconoscimento delle decisioni giudiziarie nel settore dell’esecuzione delle sentenze penali (ex art. 82 Trattato sul funzionamento dell’Unione europea), nel caso in cui i cittadini dell’Unione siano stati oggetto di una sentenza penale e siano stati condan-nati a una pena
Stato membro.
.2
e del condannato o altro luogo pubblico o privato di cura,
assiste
3
. Interventi nel settore penitenziario. La legge 26 novembre 2010, n. 199, entrata in vigore il 16 dicembre 2010, ha in-trodotto una nuova disciplina finalizzata a rendere possibile l\’esecuzione delle pene detentive più brevi (precisamente, quelle di durata non superiore a un anno) in luoghi esterni al carcere (abitazion
nza e accoglienza). Alla base dell’intervento normativo vi è la perdurante situazione di tragica emergenza nella quale si trovano le strutture penitenziarie italiane, il cui sovraffol-lamento10 ha condotto la Corte europea dei diritti dell\’uomo, con la sentenza nel caso Sulejmanovic contro Italia11, a riscontrare la violazione del divieto di trattamenti i-numani e degradanti sancito dall\’art. 3 della Convenzione, oltre a non consentire
ffettiva attuazione dell’art. 27 Cost. in ordine alla funzione rieducativa della pena. Tale decisione deve segnare un forte campanello d’allarme, pari a quello relativo alla condanna la lunghezza dei processi, giacché la situazione che ha prodotto la con-danna dello Stato italiano non è per nulla episodica e isolata. Il ricorrente fu detenuto del carcere romano di Rebibbia, ove condivise per tre mesi una cella con altre 5 per-sone, risultando lo spazio disponibile per ciascuno di 2,7 m², mentre il Comitato per la prevenzione della tortura (istituito dal Consiglio d’Europa) ha fissato in 7 m² lo spazio minimo per detenuto. La Corte ha ritenuto che la mancanza evidente di spazio personale costituisce violazione dell’art. 3 CEDU, relativo al divieto di trattamenti inumani e degradanti, oltre a non consentire
ine alla funzione rieducativa della pena.
10 I dati allarmanti della popolazione carceraria sono stati illustrati dal Ministro della giustizia nella relazione pre-sentata al parlamento qualche giorno fa.
11 Corte eur. Dir. Dell’uomo, Sulejmanovic c. Italia, 6 luglio 2009, n. 22635/03. – 58 –
Il legislatore ha tratto stimolo dalle stime del Ministero della giustizia sulla com-posizione della popolazione carceraria, secondo le quali, nel settembre 2009, circa il 32 per cento dei detenuti a seguito di sentenza definitiva scontavano pene deten
superiori a un anno, percentuale questa che risulta costantemente in crescita. La strada prescelta è stata quella di consentire che, in alcuni casi, l\’esecuzione del-le pene detentive brevi avvenga in luoghi diversi dagli istituti penitenziari. Si tratta, peraltro, di una disciplina la cui vigenza è tassativamente limitata nel tempo, in quan-to è stabilito espressamente che la predetta modalità di esecuzione della pena potrà essere ammessa soltanto “fino alla completa attuazione del piano straordinario peni-tenziario nonché in attesa della riforma della disciplina d
enzione e, comunque, non oltre il 31 dicembre 2013”. Il Piano straordinario penitenziario, approvato nel Consiglio dei Ministri del 13 gennaio 2010 (in cui è stata deliberata anche la dichiarazione dello stato di emergenza in cui versa attualmente il sistema penitenziario italiano), mira ad attuare una politica di deflazione carceraria e s’impernia su diversi filoni d’intervento: da un lato, una ri-forma legislativa del sistema sanzionatorio, con la previsione di un più agevole acces-so a forme di detenzione domiciliare e della possibilità della messa alla prova del-l\’imputato di reati puniti con pena detentiva non superiore a tre anni (misura, questa, accompagnata dall\’obbligo dello svolgimento di lavori di pubblica utilità e dalla con-seguente sospensione del processo); dall’altro lato, una serie di misure straordinarie di ed
. L’intervento legislativo in esame rappresenta soltanto un primo passo nell’attuazione del piano e in prospettiva si spera possa consentire una benefica de-flazione del contenzioso sull’esecuzione delle pene, anche se le originarie previsioni di applicazione del beneficio a circa sei – ottomila detenuti sono state ritenute sovra-dimensionate ottimistiche. Va, peraltro, ricordato che l’ammissione al beneficio non è
automatica, ma subordinata a una complessa valutazione individualizzata da parte della magistratura di sorveglianza, giacché il legislatore ha previsto una serie di cause che impediscono l’accesso alla detenzione domicili
VI
LA GIUSTIZIA MINORILE
Un’attenzione particolare va data alla giustizia minorile civile e penale1, in coe-renza con l’attenzione che il Capo dello Stato ha dato all’universo giovanile nel mes-saggio di fine anno.
1. Giustizia civile.
L’esigenza di rivisitazione della disciplina dettata dalla legge 4 maggio 1983, n.184, sull’adozione dei minori, era da tempo avvertita sia dalla giurisprudenza sia dalla dottrina, consapevole della profonda contraddizione di una giurisdizione, rego-lata dal rito camerale, destinata a incidere su situazioni soggettive che, al di là della loro precisa definizione sul piano tecnico, fanno parte di quel nucleo ristretto di “di-ritti inviolabili dell’uomo”.
La legge 28 marzo 2001, n.149, segue, quindi, a un vivace dibattito sul ruolo dell’organo specializzato, spesso a un tempo giudice e “difensore” dei diritti del mi-nore, sui modi di una sua possibile “terzietà”, sulla necessità della rappresentanza del minore, sulle distorsioni del rito camerale, che, lungi dall’essere ragione di semplifi-cazione, riproducevano all’interno del processo minorile l’intera gamma dei problemi relativi ai procedimenti in camera di consiglio, cui si aggiungevano problemi specifi-ci sorti nell’ambito della giustizia minorile amministrata dal tribunale specializzato e innescati dalla rilevanza attribuita all’«interesse del minore».
I punti cruciali, irrisolti a livello teorico, e affidati nella prassi a soluzioni diso-mogenee, con manifesto sconcerto di avvocatura e dottrina, riguardavano essenzial-
1 I dati statistici della giustizia minorile sono stati inclusi nei due paragrafi precedenti.
– 61 –
mente, da un lato il riconoscimento del minore come parte sostanziale e processuale, in quanto titolare di diritti azionabili, dall’altro la formazione del convincimento del giudice nell’ottica delle caratteristiche inquisitorie del processo minorile, nonché l’esercizio dei diritti di difesa tecnica e della partecipazione diretta di tutti gli interes-sati al procedimento e, in particolare, dello stesso minore; inoltre, l’“elasticità/neutralità” del rito camerale e il disconoscimento dei principi generali del processo, in quanto non plasmabili sull’interesse del minore, avevano coagulato l’ideale di una Giustizia senza giurisdizione, inevitabilmente generando episodi di abuso del processo, tanto che fu ipotizzata l’abolizione del tribunale per i minorenni nei disegni di legge n.2501 dell’8 marzo 2002 e n.2517 del 14 marzo 2002.
La riforma citata è, quindi, il frutto di q

uesto inarrestabile cambiamento culturale, originato dalla frattura, sempre più evidente, tra lo schema “processuale”, rimasto praticamente inalterato rispetto a quella del 1942, e i valori “sostanziali” di riferimen-to, che nel frattempo, invece, erano profondamente mutati.
Il legislatore del 2001 nel dichiarato sforzo di predisporre in chiave normativa una serie di strumenti idonei a garantire l’effettività del diritto alla difesa e di traghet-tare il processo “del giudice” in un processo “delle parti”, ha tuttavia disegnato un’imprecisa architettura processuale, che lascia all’interprete definire nei suoi esatti contorni e che, dopo una serie di rinvii, in attesa del regolamento d’attuazione, entra in vigore il 1° luglio 2007.
E’ nel 2010 che la Suprema Corte è chiamata, per la prima volta, a fare il punto sul nuovo rito, a dare coerenza interna, sistematicità e credibilità a un settore della giurisdizione tradizionalmente guardato con diffidenza dagli operatori del diritto, quasi fosse territorio di esclusiva competenza di sociologi e assistenti sociali.
Prima pietra angolare la pone con la sentenza n.3804 del 17 febbraio 2010, fa-cendo finalmente chiarezza su questioni sulle quali i filoni interpretativi negli anni si erano moltiplicati e divaricati, diventando incomponibili.
La Suprema Corte, infatti, consacra il principio per il quale il minore non è più oggetto della potestà dei genitori e/o del potere – dovere officioso del giudice, ma soggetto di diritto, titolare di un ruolo sostanziale e di uno spazio processuale auto-nomo; conferma la necessità della sua rappresentanza processuale, secondo le regole generali, attraverso le figure del genitore, del tutore, ovvero, in caso di conflitto d’interessi, del curatore speciale; chiarisce che proprio al rappresentante spetta la nomina dell’ <avvocato del minore>, ponendo fine alla vexata quaestio della titolarità del relativo potere.
Infine, il giudice di legittimità mostra di accogliere l’impostazione, dapprima re-clamata da larghissima parte della dottrina e dalla classe forense e poi consacrata dal legislatore, di un nuovo processo sin dall’inizio a cognizione piena e, quindi, di un modello partecipativo delle parti a un procedimento legalmente predeterminato. Em-blematica a tale proposito è la sentenza del 26 marzo 2010, che ha stabilito che “in tema di adozione, l\’art.10, comma secondo, della legge 4 maggio 1983, n.184, come novellato dalla legge 28 marzo 2001, n.149, che stabilisce la facoltà per i genitori e, in mancanza, per i parenti entro il quarto grado che abbiano rapporti significativi con il minore di <partecipare a tutti gli accertamenti disposti dal tribunale>, deve essere interpretato in coerenza con la finalità della novella di traghettare il processo di ado-zione da processo del giudice in un processo delle parti, nel senso che: a) ai difensori delle parti va data preventiva comunicazione di qualsiasi accertamento disposto dal giudice; b) le parti possono intervenire alla sua assunzione personalmente e a mezzo dei propri consulenti tecnici e difensori; c) le parti devono essere poste in grado di conoscerne comunque le risultanze, nonché di dedurre in ordine ad esso e di presenta-re le proprie difese. Ne consegue l\’inutilizzabilità dell\’atto di indagine acquisito senza rispettare le forme descritte, sempre che sia dimostrato dalla parte lo specifico pre-
giudizio al diritto di difesa e l\’influenza determinante sulla decisione”2.
La tendenza, quindi, per dare compiutezza al nuovo sistema processuale, sarà quella di implementare la “giurisdizionalizzazione” del rito, al fine di realizzare an-che in questa delicata materia un “giusto” processo.
Implementazione necessaria anche con riguardo ai procedimenti de potestate ex artt. 330 e ss. cod.civ. e a quelli relativi alla filiazione naturale ex art.317-bis cod. civ., rispetto ai quali si è andato consolidando un consenso diffuso circa l’inadeguatezza del procedimento camerale ex art.747 e ss. cod.proc.civ., se applica-to a processi aventi ad oggetto diritti fondamentali, nei quali, oltre tutto, la norma so-stanziale è a maglie estremamente larghe, consistendo nel bilanciamento tra il diritto del minore a uno sviluppo psico-fisico armonico e quello dei genitori a crescere ed educare la prole, con prevalenza, in caso di conflitto, del primo sul secondo.
In proiezione di una necessaria modifica legislativa deve, altresì, segnalarsi il contenzioso relativo ai casi di cosiddetto “semiabbandono”, cioè di difficoltà della famiglia d’origine, che giustificano l’affidamento a terzi del minore, ma che non sono tali da giustificare, nemmeno in prospettiva, una rottura definitiva dei rapporti del minore con la famiglia d’origine; casi che sono la maggioranza dei procedimenti ex art. 8 e ss. l. 184/83 trattati dai tribunali per i minorenni. Nella prassi, alcuni giudici di merito, stante la radicale inadeguatezza dello strumento normativo ad hoc, hanno dato un’interpretazione volutamente alternativa dell’art. 44, primo comma, lett. d) della legge citata, pronunciando la cd. adozione “mite”.
Permangono, infine, carenze normative in materia di esecuzione dei provvedi-menti che comportano l’allontanamento del minore da un genitore o, comunque, da una persona non più affidataria ovvero che predispongono gli strumenti per scongiu-rare la cd.”parentectomia”, fenomeno emergente, che sempre più spesso costituisce
2 Cass., sez. 1^, n. 7282 el 26.3.2010, rv.612678. – 64 –
l’epilogo del conflitto familiare.
Conflitto che negli ultimi anni si è complicato in seguito ai grandi cambiamenti sociali, con il venir meno della famiglia coniugale, come modello familiare esclusivo, con il diffondersi di forme di convivenza nuove, con le famiglie “ricostituite”, con il progressivo aumento di famiglie composte da persone con cittadinanza diversa e por-tatrici di diversi modelli culturali, nonché con il proliferare di nuclei familiari i cui componenti lavorano in luoghi ed anche in Stati diversi, costretti a limitare i tempi di convivenza a quelli consentiti dai rispettivi impegni lavorativi e spesso a fare i geni-tori “a distanza”. Questo quadro, in cui la mobilità internazionale delle persone e le realtà familiari trasnazionali sono in forte aumento, rende più forte l’esigenza di uni-formare a livello europeo le norme regolatrici dei rapporti giuridici in materia di fa-miglia e minori. Un passaggio fondamentale verso la costituzione di uno spazio giu-diziario unico europeo è offerto dal Regolamento CE 27 novembre 2003 n. 2201, re-lativo alla competenza, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e in materia di responsabilità genitoriale, entrato in vigore il 1° agosto 2004, ma in applicazione dal 1° marzo 2005, salvo che per alcune disposizioni finali. In tale ottica deve leggersi la pronuncia n.16540 del 14 luglio 2010, che ha fatto chia-rezza sui rapporti tra il giudice della residenza abituale del minore e quello dove que-sto è stato illecitamente trasferito. Secondo l’elaborazione ermeneutica del giudice di legittimità, che appare pienamente in linea con quella adottata dalla Corte di Giusti-zia, non è sufficiente, ai fini dell’individuazione della residenza abituale, la mera pre-senza del minore in uno Stato membro, occorrendo che detta presenza sia sostanziata da una rete di relazioni, da una consuetudine di vita, da un effettivo e radicato inseri-mento nel contesto sociale nel quale si sviluppa la personalità del minore stesso, così ponendosi il luogo in cui il minore risiede come elemento centrale della sua vita

.
Quanto alle adozioni internazionali, si registra un aumento dei decreti d’idoneità rilasciati dai Tribunali dei minorenni. Il 2010 è stato inoltre l’anno con il maggior – 65 –
numero di adozioni realizzato da coppie italiane; è la prima volta infatti che è stato superato il numero di 4000 ingressi di minori stranieri a scopo adottivo sul territorio nazionale, con un aumento del 4,2% rispetto al 2009.
Il primo Paese di provenienza è ancora la Federazione Russa con 707 minori, se-guita dalla Colombia 592, dall’Ucraina con 426 adozioni, dal Brasile con 318, dall’Etiopia con 274, dal Vietnam con 251 e dalla Polonia con 193.
Significativo è l’incremento dei minori provenienti dall’America latina (+16,34%) e dall’Asia (+34,71%) malgrado le trasformazioni interne in corso nei Paesi Vietnam, Nepal e Cambogia; 443 sono i minori provenienti da Paesi dell’Africa.
La regione con il maggior numero di adozioni è la Lombardia, seguita da Lazio, Toscana e Veneto, ma si constata un significativo aumento anche nelle regioni meri-dionali, ad eccezione della Sicilia.
2. Giustizia penale.
Relativamente al settore penale, il procedimento minorile continua nel complesso a dare buona prova di sé; gli istituti della <messa alla prova>, dell’<irrilevanza pena-le del fatto>, del <perdono giudiziale> e della mediazione consentono di raggiungere sia l’obbiettivo della rapida uscita del minore dal circuito penale, sia quello della no-tevole celerità nella trattazione e decisione dei procedimenti.
Il “filtro” innanzi al Gip ed al Gup, incentrato su tali sistemi deflattivi e sui riti al-ternativi, infatti, fa sì che meno del 20% circa delle notizie di reato arrivino al dibat-timento.
La devianza minorile straniera, oramai da qualche anno, è caratterizzata in parti-colare dal fenomeno dei minori non accompagnati, ovvero privi di figure di riferi-mento famigliari che ne garantiscano adeguate condizioni di vita e di crescita. Questo li pone a forte rischio di “reclutamento” da parte di gruppi devianti composti da adul-
ti, rendendo così inapplicabili, per assicurare la loro stessa tutela, misure extra deten-tive.
Tuttavia occorre evidenziare il numero sempre crescente delle misure di “messa alla prova” anche in favore di minori nomadi e stranieri; dato assolutamente signifi-cativo, poiché consente loro di essere coinvolti in programmi di reinserimento socia-le.
Può stupire peraltro il dato della presenza massiccia di “italiani” negli istituti pe-nali minorili (IPM), così come quello relativo ai flussi di utenza dei centri di prima accoglienza (CPA); infatti, nel primo semestre del 2010, la composizione percentuale secondo nazionalità nei carceri minorili è stata del 65% di italiani e del 35% di stra-nieri, mentre quella nei CPA è stata del 61% di italiani e del 39% di stranieri.
Altro dato che deve fare riflettere riguarda la differenza di “genere”: le femmine sono l’8% della popolazione carceraria e il 12% di quella dei centri di prima acco-glienza.
Quanto al motivo delle “uscite” dal CPA, è significativo il dato percentuale della misura del collocamento in comunità, che è la misura cautelare più utilizzata con il 26%, seguita dalla permanenza in casa 23%, dalla custodia cautelare 18%, e dalle prescrizioni 16%.
Tale dato deve essere letto all’interno di quel circuito virtuoso, che mira a riedu-care più che a reprimere, a “recuperare” il minore sin dal suo primo contatto con la giustizia penale; collocamento in comunità che spesso prelude, nelle fasi processuali successive, alla sospensione del processo per messa alla prova, misura che meglio in-carna i principi di tutela dell’adolescente, sottesi alla normativa italiana vigente in materia e che garantisce, più di ogni altra, la fuoriuscita definitiva del ragazzo dal cir-cuito penale, con suo positivo reinserimento sociale.
Tale “eccellenza”, da ascriversi soprattutto all’incisiva attività dei servizi socio-assistenziali del territorio, delle comunità di recupero e di tutti gli operatori addetti, – 67 –
purtroppo può essere messa a rischio dai tagli di spesa pubblica attuati e paventati, proprio mentre a livello internazionale è sempre più forte la spinta verso la mediazio-ne penale e la giustizia riparativa.
-VII
RAPPORTI CON GLI ORDINAMENTI SOVRANAZIONALI
L’analisi dello stato della giustizia italiana non può prescindere dal contesto eu-ropeo in cui il nostro ordinamento si colloca, con ciò riferendosi sia alla normativa comunitaria (che ormai si va estendendo anche alle materie processuali, come, da ul-timo, si è visto a proposito della mediazione), sia alle disposizioni della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, le cui norme sono pur sempre sovraordinate a quelle in-terne (e proprio la detta Convenzione ci ha inizialmente imposto la durata ragionevo-le del processo).
E’ necessario quindi fare seguire allo stato della giustizia interna un esame dei rapporti del nostro ordinamento con i due menzionati ordinamenti sopranazionali, che rappresentano la cornice ineliminabile entro cui deve collocarsi ogni intervento mi-gliorativo dell’assetto della giustizia penale e civile.
1. La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
E’ trascorso poco più di un anno da quando il Trattato di Lisbona, firmato il 13 dicembre 2007 dai ventisette Capi di stato e di governo degli Stati membri dell’Unione, è entrato in vigore (1° dicembre 2009). Per effetto delle modifiche ap-portate dall’accordo di Lisbona all’art.6 TUE, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea è entrata formalmente a far parte delle fonti giuridiche dell’Unione, assumendo lo stesso “valore giuridico” dei Trattati: si tratta di disposi-zione in grado di incidere in misura immediata sul sistema delle fonti.
L’interprete è tenuto a domandarsi, pertanto, cosa accadrà nelle relazioni fra U-nione europea, Carta dei diritti fondamentali e Convenzione europea per la salva-guardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali dopo l’accordo di Lisbona:
questo appare il nodo centrale per i giudici nazionali come giudici dell’Unione, in quanto perfettamente integrati nel sistema di tutela giurisdizionale europeo di cui rappresentano lo strumento fondamentale.
Secondo il nuovo articolo 6, la tutela dei diritti fondamentali nell’ordinamento dell’Unione deriverà da tre fonti diverse: la Carta, che ha lo stesso valore giuridico dei Trattati; i principi generali, che, secondo lo stesso schema del vecchio articolo 6, comprendono i diritti CEDU e quelli risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri; infine, la CEDU medesima.
Nei limiti derivanti dalla sua applicabilità come prevista dalle clausole orizzonta-li (quando cioè ci si trovi nell’ambito di esplicazione del diritto comunitario), la Carta è, quindi, una nuova fonte di diritto con cui l’interprete deve confrontarsi.
Il formale inserimento di essa fra gli atti giuridicamente vincolanti per tutti i soggetti dell’Unione, se sottrae la stessa alle passate incertezze, genera nuovi interro-gativi per chi quotidianamente è chiamato all’esercizio della funzione giurisdizionale: essa, quale jus cogens, impone agli interpreti non solo la compiuta conoscenza delle sue norme, ma anche l’approfondimento su quali ne siano gli ormai diffusi canoni in-terpretativi e sul come in essa si sia inverato il contenuto di quel catalogo di diritti fondamentali elaborato dalla Corte di Giustizia a partire da Stauder1.
Con una Carta dei diritti fondamentali che assume lo stesso valore giuridico dei Trattati, il quadro normativo si complica e impone uno sforzo ulteriore al giudice, chiamato a confrontarsi con una realtà che, pur constando, nel lungo periodo, di un prevedibile ampliamento delle tutele, supera i confini interni in un sistema assai com-plesso e articolato.
Un primo problema interpretativo riguarda la stessa sfera di applicabilità della Carta in relazione al diritto interno: il suo art. 51 afferma che “le disposizioni della
1 Corte Giust. 12 novembre 1969, causa 29/69.
presente Carta si applicano alle istituzioni e agli organi dell’Unione nel rispetto del principio di sussidiarietà come pure agli stati membri esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione”; la questione preliminare, allora, attiene al “quando” si attui il diritto dell’Unione.
Dinanzi al testuale collegamento tra le Carte (CEDU e Carta dei diritti fonda-mentali dell’UE) come voluto dallo stesso art.52 di quest’ultima, l’assurgere della Carta dei diritti fondamentali al ruolo di fonte, lungi dal ridurre l’impatto delle inter-pretazioni giurisdizionali offerte dai giudici nazionali, ne incrementa la portata, im-ponendo agli stessi di prendere atto dell’esistenza di un nuovo assetto delle fonti in-terne e sovranazionali.
Permane, allora, intatta la centralità del giudice e dell’attività interpretativa, pro-prio per la complessità del sistema: l’interprete è chiamato a una serie di valutazioni ulteriori per dare risposta alle istanze dei cittadini nella distinzione fra diritti e princi-pi – rispettati e osservati – di cui all’art.51 della Carta dei diritti fondamentali.
Si amplia così il novero delle norme dotate di effetto diretto, rispetto alle quali il giudice comune, in caso di contrasto fra la norma interna e quella dell’Unione, è te-nuto a fare in modo che la prima “non venga in rilievo” cioè non sia applicata, non trattandosi di vizio in senso tecnico, come ha insegnato la Corte Costituzionale a par-tire da Granital2 : il giudice interno è quello naturale, che decide in prima battuta del diritto dell’Unione, eventualmente mediante il ricorso al meccanismo del rinvio pre-giudiziale, con la conseguenza, possibile, dell’applicazione della norma comunitaria in luogo della disposizione nazionale.
Con la consacrazione di un catalogo scritto di diritti e principi fondamentali vi-genti a livello dell’Unione, l’attività di nomofilachia eurounitaria affidata alla Corte di giustizia si ammanta dell’allure di giustizia costituzionale, atteso che è intorno ad
2 Corte Cost. n.170/84 – 71 –
un nucleo di diritti fondamentali che usualmente si costruisce una “carta costituziona-le”, circostanza, questa, che richiede un nuovo approccio all’interprete nazionale, so-prattutto nel momento in cui, in presenza di quel catalogo, lo strumento del rinvio pregiudiziale – che già viene utilizzato frequentemente allo scopo di ottenere una sor-ta d’indiretta valutazione sulla “legittimità comunitaria” del diritto interno – parrebbe assumere la consistenza di un “incidente di costituzionalità” sia pure con riferimento al diritto dell’Unione.
Resta, al contempo, centrale l’obbligo d’interpretazione conforme che grava sul giudice, tenuto ad adottare tutti i provvedimenti generali o particolari atti a garantire l’adeguamento del diritto interno al diritto dell’Unione di cui all’ex art. 10 del Tratta-to CE (oggi art. 228 III comma Trattato per il funzionamento dell’Unione europea), onde evitare le conseguenze caducatorie della normativa interna contrastante cagio-nate dall’effetto diretto3.
Le statuizioni sull’impegno del giudice comune di porsi come organo giudiziario di base dello spazio giudiziario europeo rappresentano ormai un leitmotiv della giuri-sprudenza della Corte di giustizia, mentre esse compaiono di frequente, soprattutto con riguardo alla CEDU, ma anche con riferimento al diritto dell’Unione, nelle deci-sioni della Corte Costituzionale (si pensi alla recente Corte Cost. n. 227/2010), solle-citando l’interprete a scongiurare il contrasto tra norme – e il conseguente contrasto tra ordinamenti – in un’ottica d’imprescindibile uniformizzazione del sistema.
D’altra parte, la Corte di Giustizia, ormai da tempo, a partire da Kobler4 e Tra-ghetti del Mediterraneo5, ha fatto dell’interpretazione giurisdizionale di ultima istan-za materia di responsabilità dello Stato per inadempimento del diritto comunitario.
3 Sul punto, Corte Giust. 5 febbraio 1963, causa 26/62, Van Gend en Looos; Corte Giust. 15 luglio 1964, causa. 6/64, Costa/Enel.
4 Corte Giust. 30 settembre 2003, causa C-224/01
5 Corte Giust. 13 giugno 2006, causa C-173/03 – 72 –
2. L’integrazione fra ordinamenti
La parallela previsione della adesione dell’Unione alla CEDU (art. 6.2 TUE) ge-nera ulteriori problemi: per espressa disposizione, non subiscono modifiche le com-petenze dell’Unione stabilite dai Trattati.
I due sistemi normativi, che per molto tempo sono parsi concorrenti ed alternati-vi, trovano ora sviluppo e cumulativa accoglienza nel Trattato di Lisbona, segnando un significativo passaggio sul versante dell’integrazione fra ordinamenti che già da alcuni anni, per effetto di un crescente dialogo fra le Corti interne e le Corti sovrana-zionali, aveva vissuto un rilevante impulso.
Il processo di adesione alla CEDU è ufficialmente iniziato a Strasburgo il 7 lu-glio scorso con l’incontro fra il Segretario del Consiglio d’Europa Torbion Jagland e la vice Presidente della Commissione Europea Viviane Reding: giorno storico è stato definito dalla Reding, perché diretto a predisporre l’anello mancante nel sistema eu-ropeo di tutela dei diritti umani. Avviato l’iter fra negoziatori della Commissione ed esperti del Comitato direttivo per i diritti dell’uomo del Consiglio d’Europa, ci si è impegnati ad una rapidissima conclusione del processo che condurrà l’UE a divenire il 48° firmatario della Convenzione, ma che imporrà – e questo richiederà di certo molto più tempo del previsto – la ratifica degli altri 47 contraenti.
Con l’adesione alla CEDU, come si legge nel rapporto del Comitato affari politi-ci del Consiglio d’Europa, curati da Kirsten Lundgren, si mira a realizzare un sistema coerente di protezione dei diritti umani in Europa: l’Unione si assoggetta ad un con-trollo esterno in materia di diritti umani, circostanza che, come ha osservato Heidi Hautala, presidente del Comitato sui diritti umani del Parlamento europeo, dovrebbe esaltare la credibilità dell’impegno dell’Unione proprio sui diritti umani.
Con il perfezionamento del processo di adesione i rapporti diventeranno triango-lari e si fornirà risposta normativa ed istituzionale alla opinione espressa dalla Corte
di Giustizia con il parere n.2/94 allorché essa aveva indicato nell’inserimento della Comunità in un sistema istituzionale internazionale distinto, una modifica “sostanzia-le” del sistema comunitario di tutela dei diritti umani – con conseguente necessità di riforma dei Trattati – dando vita, in tal modo, ad un nuovo complesso ed articolato meccanismo di interrelazioni ancora tutto da scoprire.
Questa ulteriore importantissima novità, riconducibile all’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, incidendo sui rapporti fra le due Corti sovranazionali, di Lus-semburgo e di Strasburgo, potrà influire significativamente sull’ormai avviato e dif-fuso dialogo fra le Corti (interne ed esterne) ed
incidere in misura rilevante anche sui canoni dell’interpretazione conforme che hanno finora retto il percorso giurispruden-ziale interno.
Com’è ormai evidente, l’attuale dimensione ordinamentale, più che sul classico rapporto di gerarchia (di norme e di ordinamenti), è strutturata su quello dell’integrazione, che coinvolge soggetti pubblici e privati, istituzioni ed imprese, ma soprattutto Corti e Giudici.
L’impossibilità di continuare a configurare i rapporti tra ordinamenti in termini gerarchici rende necessari, allora, la creazione e lo sviluppo di strumenti di coopera-zione, che consentano il dialogo, la circolazione di strumenti, la condivisione delle soluzioni.
Le Corti ed i Giudici, e fra essi, per l’Italia, non solo la Corte Costituzionale ma anche i giudici di merito e, soprattutto, la Corte di Cassazione, hanno rappresentato e rappresentano un fattore decisivo di incontro e di dialogo, di condivisione, di integra-zione e di cooperazione.
3. Il ruolo del giudice nazionale.
L’attività interpretativa del giudice interno dovrà continuare a conformarsi al complesso sistema di relazioni fra ordinamenti delineato dalla Consulta: già nel 1975,
fin dalla prima occasione in cui la Corte costituzionale è stata chiamata a definire il complesso rapporto fra ordinamento interno ed ordinamento comunitario, essa ne ha rinvenuto un “sicuro fondamento” nell’art. 11 della Costituzione, parametro significa-tivamente posto fra i principi generali della nostra Carta, alla luce del quale si è de-mandato alle Comunità, oggi all’Unione Europea, di esercitare in luogo degli Stati membri competenze normative in determinate materie nel rispetto del principio di at-tribuzione.
È sempre in forza dell’art. 11 Cost. che la Corte ha riconosciuto il potere-dovere del giudice comune, e prima ancora dell’amministrazione, di dare immediata applica-zione alle norme comunitarie provviste di effetto diretto in luogo di norme nazionali che siano con esse in contrasto insanabile in via interpretativa6.
Quanto all’art. 117, primo comma, Cost., nella formulazione novellata dalla ri-forma del titolo quinto, seconda parte della Costituzione, la Corte ne ha precisato la portata7, affermando che tale disposizione ha colmato la lacuna della mancata coper-tura costituzionale per le norme internazionali convenzionali, ivi compresa la Con-venzione di Roma del 1950, escluse dalla previsione dell’art. 10 ponendo, per questa via, significativi profili di delimitazione.
Mentre allora continuerà ad esercitarsi compiutamente l’obbligo di “non appli-cazione”8 del diritto interno contrastante con quello dell’Unione, almeno finché non vi sarà l’adesione dell’UE alla CEDU, il giudice sarà comunque tenuto all’interpretazione in conformità alla Convenzione europea per la salvaguardia dei di-ritti dell’uomo, ma non gli sarà consentito, come invece gli è imposto per il diritto dell’Unione, disapplicare la norma interna con essa confligente: interpretare confor-memente alla CEDU significa applicare la CEDU, anche se non è ammesso quel con-
6 Corte cost.n. 170/84 cit. e da ultimo Corte cost. n. 227/2010 cit.
7 Corte cost. nn. 348 e 349 del 2007, nn.311, 317 del 2009 e 93 del 2010.
8 Corte cost. n. 170/84 cit.
trollo diffuso di costituzionalità che deriverebbe dalla disapplicazione della norma convenzionale, fintantoché essa non sia diventata in senso tecnico diritto dell’Unione.
Il ruolo del giudice comune resta comunque fondamentale: soltanto in casi ecce-zionali, qualora il contrasto fra norma interna e norma convenzionale risulti insanabi-le, sarà necessario far ricorso alla Corte costituzionale.
I giudici interni non solo rappresentano l’anello centrale della catena interpreta-tiva nella tutela dei diritti, ma sono sempre più al centro dello scenario giuridico eu-ropeo: è sul fronte dell’adeguata applicazione del diritto dell’Unione e del diritto CEDU che bisognerà continuare a impegnarsi, perché l’integrazione che passa attra-verso la tutela giurisdizionale prosegua il proprio inarrestabile cammino.
Momento centrale di questo percorso è il dialogo sempre crescente fra le Corti, quella che induce ad affermare che l’Europa dei giudici non è più solo l’Europa dei giudici comunitari, ma è quella del dialogo crescente, inarrestabile, fra Corte di Stra-sburgo, Corte di Lussemburgo, Corti Supreme e giudice comune, organo fondamenta-le dello spazio giudiziario europeo.
4. L’attività interpretativa svolta dalla Corte di cassazione.
Nel corso degli ultimi anni l’evoluzione della giurisprudenza di legittimità ha re-gistrato numerose ed interessanti aperture all’attività interpretativa svolta dalla Corte europea dei diritti dell’uomo e dalla Corte di giustizia dell’Unione europea.
E’ sempre più frequente, infatti, il riferimento al quadro dei principi elaborati dalla giurisprudenza delle Corti europee, nella costante ricerca di un difficile punto di equilibrio tra le concorrenti esigenze, “interne” ed “esterne”, del principio di legalità e della tutela dei diritti fondamentali.
In questa ottica, la Corte di cassazione ha già interpretato compiutamente il pro-prio ruolo di nomofilachia e sta svolgendo una significativa funzione di raccordo – anche mediante il frequente ricorso al rinvio pregiudiziale alla Corte di Lussemburgo
(si pensi, fra i più recenti esempi, all’ordinanza di rimessione n.18721 del 17 agosto 2010 sul principio di non discriminazione in materia di imposta sul valore aggiunto) – fra diritto interno e diritto sovranazionale.
4.1. Diritto dell’Unione europea.
Quanto al versante del diritto dell’Unione, nell’anno appena trascorso l’attenzione della Corte è testimoniata anzitutto da una chiara riaffermazione dell’obbligo di “interpretazione conforme al diritto comunitario”.
A tal riguardo, le Sezioni unite civili hanno rammentato, nel solco di un orien-tamento già sperimentato, che l’obbligo degli Stati membri, derivante da una diretti-va, di conseguire il risultato da questa contemplato, come pure l’obbligo, loro impo-sto dall’art. 5 del Trattato (divenuto art. 10 CE), di adottare tutti i provvedimenti ge-nerali o particolari atti a garantire tale adempimento valgono per tutti gli organi degli Stati membri, <<ivi compresi, nell’ambito di loro competenza, quelli giurisdiziona-li>>. Sicché, il giudice statale, a prescindere che si tratti di norme precedenti o suc-cessive ad una direttiva, <<deve interpretare il proprio diritto nazionale alla luce della lettera e delle finalità della direttiva, onde garantire la piena effettività della direttiva stessa e conseguire il risultato perseguito da quest’ultima, così conforman-dosi all’art. 249, comma 3, del Trattato>>9.
In tale prospettiva, è di rilievo la precisazione, tratta dal percorso evolutivo della giurisprudenza comunitaria10 secondo cui il principio della interpretazione conforme del diritto nazionale, sebbene riguardi essenzialmente le norme interne introdotte per recepire le direttive comunitarie, investe, tuttavia, il diritto interno nel suo complesso, in un circuito ermeneutico che mira a pervenire ad una applicazione non contrastante con il risultato al quale la direttiva stessa è volta. E ciò proprio, come puntualizzato
9 Cass. S.U., sent. n. 355 del 3 gennaio 2010.
10 Così, infatti, Pfeiffer, Corte Giust. 11 maggio 1999, C- 255/97.
dalla stessa pronuncia del 2010, <<in funzione di una tutela effettiva d

elle situazioni giuridiche di rilevanza comunitaria quale strumento per pervenire anche nell’ambito dei rapporti interprivati alla applicazione immediata del diritto comunitario in caso di contrasto con il diritto interno, così superando i limiti del divieto di applicazione delle direttive comunitarie immediatamente vincolanti non trasposte nei rapporti o-rizzontali>>.
Sotto il profilo del rilievo peculiare che assume la disciplina recata dalla Carta di Nizza, in quanto “parte integrante” del Trattato di Lisbona, la Corte di cassazione ha ribadito che l’attribuzione alla Carta di Nizza dello stesso valore giuridico dei trattati non comporta affatto che vi sia stata una estensione delle competenze dell’Unione de-finite nei trattati stessi, come anche è dato desumere dal comma 2 dell’art. 6 del Trat-tato U.E. e dal successivo art. 51, comma 2. Ne consegue, pertanto, che, ove (come nel caso di specie) <<la materia oggetto di controversia sfugge all’ambito del diritto comunitario gli ulteriori principi in esso ora recepiti non possono avere un autonomo e diretto rilievo, tanto che non esiste spazio per devolvere agli organi di giustizia comunitari le questioni attinenti il rispetto dei principi CEDU>> (in questi termini le pronunzie della Sezione lavoro intervenute, assai di recente, nella annosa vicenda dei dipendenti A.T.A.11).
In tale ottica, laddove la questione non rientri tout court nell’ambito applicativo del diritto dell’Unione, la Suprema Corte utilizza la Carta essenzialmente in funzione interpretativa: così si individua nella lesione del diritto allo onore ed alla reputazione una <<lesione di un diritto umano inviolabile, che riposa nell’art. 2 Cost. … ora in correlazione con il valore europeo della dignità umana, riconosciuto dall’art. 1 della Carta di Nizza, come precetto che esprime la tradizione costituzionale comune e re-
11 Tra le tante, v. n. 22871 del 10 novembre 2010, n. 23225 del 17 novembre 2010, n. 24217 del 30 novembre 2010 .
cepita dal Trattato di Lisbona>>12.
La Carta è ormai entrata nel circuito interpretativo: in tale prospettiva la Corte fa un uso ponderato del proprio ruolo optando per l’applicazione diretta soltanto là dove essa sia consentita dai limiti posti dalle clausole orizzontali ed utilizzando piuttosto il Bill of Rights in chiave interpretativa, a completamento del sistema interordinamenta-le, ogni qualvolta la strada dell’effetto diretto non sia percorribile.
Là dove non formi oggetto di cognizione una fattispecie di diritto comunitario – <<e quindi non operando il Bill of Rights europeo come vera e propria fonte del di-ritto ai sensi dell’art. 51 del Testo – in ogni caso la Carta costituisce uno strumento interpretativo privilegiato “anche per il diritto interno che si deve presumere coeren-te con quei valori che gli Stati membri e gli organi dell’Unione hanno comunemente accettato, come espresso dall’art. 6 del Trattato sull’Unione europea, nella nuova formulazione del Trattato di Lisbona entrato in vigore il 1.11.2009>>13
4.2. La Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU).
In ambito CEDU, un continuo intrecciarsi di “rimandi” interni sembra connotare i rapporti fra la Corte di cassazione e le più importanti istanze di giustizia a livello eu-ropeo, alimentandone così intensamente le possibilità di dialogo, sino a ritenere ora-mai “che sia patrimonio comune della scienza giuridica, della giurisprudenza costi-tuzionale e di legittimità la “forza vincolante” delle sentenze definitive della Corte europea dei diritti dell\’uomo, sancita dall\’art. 46 della Convenzione, là dove prevede che “Le Alte Parti contraenti si impegnano a conformarsi alle sentenze definitive del-la Corte sulle controversie nelle quali sono parti” 14 ”.
12 Cass., sez. III, sent. n. 16387 del 13 luglio 2010.
13 Cass. 17 maggio 2010, n. 28658.
14 Cass., sez. VI, n. 45807,12 novembre 2008 – 11 dicembre 2008, rv. 241753. – 79 –
Uno dei più rilevanti nodi problematici da tempo emersi nell’ordinamento italia-no riguarda proprio la tensione creatasi tra il dovere di conformarsi agli obblighi in-ternazionali, ed in particolare alle indicazioni provenienti dalle pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo, e l’esigenza di rispetto del principio della intangibilità del giudicato.
L’obbligo di interpretazione conforme nel sistema convenzionale, sin dove la norma nazionale lo consenta in base al suo tenore letterale, è stato ribadito dalla Cas-sazione civile15, in tema di equa riparazione per la durata irragionevole del processo, con la rilevante precisazione sull’impossibilità di pervenire alla “non applicazione” della norma interna contrastante con il diritto vivente convenzionale frutto della in-terpretazione della Corte di Strasburgo, al pari di quanto, invece, è dato in ambito comunitario.
Dalle sentenze della Corte europea, come è noto, deriva un obbligo di risultato, spettando allo Stato la scelta dei mezzi più appropriati per rimuovere la violazione della norma convenzionale ed eliminarne le conseguenze in modo da ripristinare lo status quo ante.
Recenti tendenze della Corte europea dei diritti dell’uomo, tuttavia, sembrano spingersi ancor più avanti, fino a suggerire il ricorso a soluzioni di carattere generale nel modo di affrontare problemi legati a violazioni strutturali della CEDU da parte di un determinato Stato membro 16, ovvero in relazione a casi eccezionali in cui la natu-ra della violazione potrebbe non lasciare alcuna alternativa sulla natura del rimedio da attuare, incidendo così in misura rilevante sullo spazio di discrezionalità riservato allo Stato.
15 Cass. I Sez., 22 marzo 2010, n. 6878.
16 Corte eur. dir. dell’uomo., Broniowski c. Polonia, 22 giugno 2004, n. 31443/96; Id., Hirst c. Regno Unito, 6 ot-tobre 2005, n. 74025/01. – 80 –
Occorre considerare, inoltre, che l’obbligo di conformazione alle sentenze della Corte di Strasburgo è stato reso ancor più vincolante dalle modifiche apportate all’art. 46 CEDU dal Protocollo n. 14, firmato il 13 maggio 2004 ed entrato in vigore il 1° giugno 2010 17.
La nuova formulazione dell’art. 46 attribuisce, infatti, maggiori poteri al Comita-to dei Ministri del Consiglio d’Europa, prevedendo la possibilità di rivolgersi alla Corte affinché essa si pronunci sulla corretta interpretazione di una sentenza, ove il Comitato ritenga sussistenti delle difficoltà nel controllo della sua esecuzione; negli ultimi due commi introdotti dal Protocollo n. 14, inoltre, si prevede una sorta di pro-cedura di infrazione, in base alla quale il Comitato, ove ritenga che uno Stato rifiuti di conformarsi ad una sentenza definitiva pronunciata in una controversia di cui è parte, puo’ deferire la questione alla Corte, dopo averlo messo in mora: se la Corte, a sua volta, accerta una violazione del dovere statuale di conformarsi alle sentenze, rinvia al Comitato dei Ministri, affinché statuisca sul tipo di misure da adottare.
Nel sistema processuale italiano, però, non sono attualmente rinvenibili specifici meccanismi idonei a consentire la revisione della sentenza penale a seguito dell’accertamento della violazione dei diritti fondamentali e delle garanzie dell’equo processo, avvenuta all’interno di un procedimento conclusosi con sentenza definitiva, secondo quanto prevede l\’art. 46 della stessa Convenzione, nel testo modificato ad opera dell\’art. 16 del Protocollo n. 14, ratificato con la su citata l. 15 dicembre 2005, n. 280.
Il Comitato dei Ministri e l\’Assemblea parlamentare del Consiglio d\’Europa han-no più volte stigmatizzato – anche con reiterate risoluzioni e
raccomandazioni, emes-
17 Cfr. la L. 15 febbraio 2005, n. 280, che ha autorizzato la ratifica e ha dato esecuzione al Protocollo n. 14 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
se proprio in riferimento a specifiche vicende processuali – l\’inerzia dello Stato italia-no nell\’approntare adeguate iniziative riparatorie 18.
Proprio a seguito delle sollecitazioni provenienti dalla Corte europea19, in effetti, il legislatore ha radicalmente modificato nel 2005 la disciplina dell’istituto della resti-tuzione in termini nel processo penale (art. 175 c.p.p.), riconoscendo all’imputato contumace tale diritto, salvi i casi in cui emerga che egli abbia avuto conoscenza del procedimento o del provvedimento, e che abbia volontariamente rinunziato a compa-rire o a proporre impugnazione.
Al di fuori di tali specifiche situazioni, quando si tratti di adempiere all’obbligo di riapertura in senso stretto, ossia quando la Corte europea accerti violazioni proces-suali diverse da quella ora considerata, la situazione di vuoto normativo ha indotto la giurisprudenza di legittimità a ricercare soluzioni interpretative idonee ad offrire un’adeguata tutela dei diritti fondamentali.
Al riguardo, gli unici istituti in grado di garantire teoricamente una riapertura del processo penale coincidono con la revisione (art. 629 ss. c.p.p.) ed il ricorso straordi-nario per cassazione (art. 625-bis, c.p.p.).
In ordine al primo dei due istituti, l’impossibilità di impiegarlo quale rimedio straordinario per adempiere all’obbligo convenzionale di riapertura è stata confermata dalla stessa Corte Costituzionale con la sentenza n. 129/2008, che ha, tuttavia, rivolto al legislatore “un pressante invito ad adottare i provvedimenti ritenuti più idonei, per consentire all\’ordinamento di adeguarsi alle sentenze della Corte europea dei diritti dell\’uomo che abbiano riscontrato, nei processi penali, violazioni ai principi sanciti dall\’art. 6 della CEDU ”.
18 V., ad es., con riferimento al “caso Dorigo”, la sentenza della Corte Costituzionale, 16 aprile – 30 aprile 2008, n. 129, ove si fa espressamente cenno alla Risoluzione n. 1516 (2006), adottata il 2 ottobre 2006 dall’Assemblea parla-mentare del Consiglio d\’Europa.
19 Corte eur. dir. dell’uomo, 10 novembre 2004, Sejdovic c. Italia, § 46 ss. – 82 –
Per quel che attiene, invece, al ricorso straordinario per cassazione, circoscritto dal legislatore alle sole ipotesi in cui la Corte di cassazione sia incorsa in un errore di fatto (unanimemente inteso quale mero errore di percezione), la giurisprudenza di le-gittimità ne ha di recente riconosciuto una possibilità di applicazione analogica 20, consentita perché in bonam partem, revocando una sua precedente sentenza, limita-tamente alla diversa e più grave qualificazione giuridica del fatto, che ostava alla de-claratoria d\’estinzione per prescrizione, operata ex officio in sede di legittimità, senza aver consentito alla difesa il contraddittorio sulla diversa imputazione. Si tratta, tutta-via, di una soluzione interpretativa non riproducibile nelle ipotesi in cui la violazione della CEDU non si sia verificata nel giudizio di cassazione, e comunque limitata, sul-la base del ricorso all’analogia legis, al decisum relativo ai fatti corruttivi come ri-qualificati dalla Corte ex art. 319-ter c.p.
Non è, pertanto, più differibile un deciso intervento del legislatore – del resto già orientatosi in tal senso, prima con un disegno di legge approvato dal Consiglio dei Ministri il 3 agosto 2007 e, successivamente, con un disegno di legge approvato il 6 febbraio 2009 – secondo l’auspicio formulato dalla Corte Costituzionale con la sen-tenza n. 129/2008, e dalla stessa Corte di cassazione condiviso nella pronuncia da ul-timo ricordata.
20 Si tratta della citata sentenza Cass, Sez. VI, n. 45807/2008. – 83 –
VIII
UN PIANO STRATEGICO PER LA DURATA RAGIONEVOLE
DEI PROCESSI
Come si è detto (retro. III), il Consiglio di Europa ha invitato l’Italia ad adottare “una strategia a medio e lungo termine” per risolvere “il problema strutturale” della durata dei processi “che esige un forte impegno politico”. Questa strategia dovrebbe essere adottata attraverso l’elaborazione di un vero e proprio Piano per la durata ra-gionevole dei processi che impegni tutti i soggetti che operano nel mondo giudiziario e che prenda in considerazione, in modo organico, tutti i fattori che incidono sui tem-pi del processo.
Il Piano deve mirare a rendere uniformi, da un lato, l’entità complessiva della domanda di procedimenti giudiziari civili e penali e, dall’altro, la capacità dell’apparato di soddisfare tale domanda nei tempi che, in relazione ai vari tipi di procedimenti, sono stati specificamente indicati dalla Corte di Strasburgo. Se questi tempi vengono in concreto rispettati dalla gran parte degli altri 46 Stati che hanno a-derito alla Convenzione sui diritti umani, non si vede la ragione per la quale tale ri-sultato non possa essere raggiunto anche dal nostro Paese.
Rispetto alla situazione attuale, e nell’immediato, l’obiettivo del Piano si concre-tizza nel diminuire l’entità attuale della domanda di procedimenti e nell’aumentare la capacità di risposta degli uffici giudiziari. L’individuazione delle misure da porre in opera in ambedue le direzioni non può che essere differenziata per la giustizia civile e per quella penale.
Possono essere qui date solo alcune limitate indicazioni su tali misure, nell’intento di dare un contributo agli organi politici competenti ai quali il Consiglio di Europa ha chiesto “un forte impegno”.
Al di là dei temi di seguito affrontati e dei singoli interventi qui proposti, sembra essenziale osservare che dotarsi di un piano per la durata ragionevole dei processi non comporta che debba procedersi alla sua realizzazione operando contemporaneamente tutte le innovazioni ritenute necessarie, ma significa soprattutto cambiare metodo nel-lo studio e nella realizzazione di tutti gli interventi legislativi e strutturali futuri, pre-stando la massima attenzione agli effetti che ogni innovazione può avere sulla durata dei giudizi e privilegiando il risultato di un’abbreviazione dei tempi con cui oggi è soddisfatta la domanda di giustizia e della capacità dell’apparato di prestare un servi-zio che sia caratterizzato dalla prescritta durata ragionevole.
1. Giustizia civile.
I dati statistici riferiti pongono in evidenza, malgrado la contenuta regressione del fenomeno, un elevato numero di nuove iscrizioni, che denota, da un lato un ecces-sivo tasso di litigiosità e, sotto altro profilo, un insufficiente funzionamento di stru-menti deflattivi rispetto a una smisurata domanda di giustizia.
Si rileva, quindi, un eccesso di istanze di giustizia rispetto alle reali capacità di risposta, dovuto in parte a nuove dinamiche sociali (in materie quali l’antitrust, la tu-tela della privacy, nuove figure di rapporti di lavoro, operazioni finanziarie e assicu-rative), in parte a sempre più diffuse situazioni di abuso del processo per il raggiun-gimento di scopi diversi dalla soluzione della lite, in particolare con finalità di dila-zione dei tempi nell’adempimento di obbligazioni.
Gravi distorsioni determina anche la gestione frammentata dei procedimenti, si-tuazione che si verifica nei casi in cui la stessa questione viene riproposta più volte, così da favorire eventuali differenti decisioni, che diventano a loro volta fonte di ulte-riori controversie.
Si assiste, con sempre più allarmante frequenza, al fenomeno della cosiddetta domanda “anomala” di giustizia, ossia di un’abnorme reiterazione di iniziative
giudiziarie per questi

oni di carattere seriale e di modesto valore economico, che inta-sano gli uffici giudiziari di primo grado, impegnando, in modo sproporzionato all’interesse tutelato, le energie di giudici e di personale amministrativo e contribuen-do in modo determinante alla dilatazione dei tempi medi di durata dei processi. E’ e-vidente che l’illusione di un accesso del tutto indiscriminato al servizio reso dall’Amministrazione della giustizia si traduce in una restrizione del servizio stesso per chi ne ha effettivamente bisogno e comunque nel distorto utilizzo della funzione giurisdizionale rispetto alle sue effettive finalità.
Si pensi all’uso distorto della questione di giurisdizione che si verifica quando essa è sollevata dall’attore che non sia appagato dalla decisione di merito pronunziata dal giudice che egli stesso ha scelto, con spostamento della causa ad un altro giudice dopo l’esaurimento di un doppio grado di merito davanti al giudice adito. Per evitare tale uso “scandaloso” della giustizia dovrebbe essere resa uniforme la disciplina della rilevazione della questione di giurisdizione davanti ai diversi giudici in modo che la funzione di riparto possa essere esercitata dalle Sezioni unite alle stesse condizioni: si potrebbero adottare schemi analoghi a quelli esistenti per la questione di competenza davanti al giudice ordinario, sancendo che, delle parti, solo il convenuto possa solle-varla con il limite della prima difesa, mentre il giudice potrebbe rilevare il proprio di-fetto di giurisdizione solo in primo grado e sino a quando non abbia pronunziato una sentenza di merito. Alle Sezioni unite si potrebbe accedere solo con regolamento di competenza, prima di una tale sentenza ovvero ad impugnazione della stessa. Si rea-lizzerebbe, così, una più rapida definizione della questione di giurisdizione con il mezzo di regolamento, al quale ora le Sezioni unite sono in grado di rispondere rapi-damente.
Nello stesso tempo si riscontra una sostanziale inadeguatezza dei filtri di natura stragiudiziale, idonei a incidere sul numero e sulla rilevanza delle controversie che possono essere portate davanti al giudice, in tal modo determinandosi un carico ec-
cessivo sulla giurisdizione statale. Si pensi in particolare, oltre alle già ricordate con-troversie previdenziali, ad alcuni comparti, quali il contenzioso lavoristico, quello della responsabilità civile e quello dei procedimenti di equa riparazione per violazio-ne del termine di ragionevole durata del processo.
In relazione a quest’ultimo tipo di procedimenti è urgente la riforma della c.d. Legge Pinto. Si può pensare all’introduzione di una condizione di procedibilità, qua-le potrebbe essere una previa richiesta di liquidazione dell’indennizzo ad una pubbli-ca amministrazione statale articolata sul territorio, assistita da un parere dell’avvocatura dello Stato; in via alternativa si potrebbe prevedere la possibilità di proporre la domanda d’indennizzo con ricorso per decreto ingiuntivo: l’emersione nella giurisprudenza della Cassazione di stabilizzati criteri di liquidazione dell’indennizzo, che essa applica pronunziando anche nel merito, consentirebbe ana-loga applicazione in sede di procedimento di ingiunzione.
Una parte rilevante dell’appesantimento giudiziario, che determina lentezza per tutti coloro che si rivolgono al sistema giudiziario, deriva dai cd. grandi utenti della giustizia (Inps, Ferrovie, Poste, banche, assicurazioni …), che producono o sono in-teressati da un amplissimo contenzioso, spesso seriale.
In questa situazione sempre più pesante, deve esprimersi consenso agli obiettivi perseguiti dalla mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali, prevista dall’art. 60 della legge 18 giugno 2009, n. 69 e regolata dal d. lgs. 4 marzo 2010, n. 28, pur nella (già accennata) consapevolezza dei problemi che l’applicazione di questa innovazione comporta.
Le modalità di accesso alla giustizia e l’abnorme domanda di giustizia sono ne-gativamente condizionate anche dall’insufficiente attività di filtro da parte della clas-se forense, dovuta soprattutto all’eccessivo numero di avvocati.
Già nella relazione dello scorso anno, presentata dal mio predecessore Vincenzo Carbone, si riferiva che, secondo il rapporto CEPEJ 2008, il rapporto tra giudice e
avvocati era in Italia di 26,4 per ogni giudice, in Francia di 7,1 e in Inghilterra di 3,2. Dal rapporto CEPEJ 2010 la situazione risulta peggiorata: a fronte di un indice 8,2 per la Francia e 5 per l’Inghilterra, si riscontra un aumento di ben 6 punti, sino al 32,4 per l’Italia. Anche nel rapporto avvocati/abitanti, l’Italia surclassa la Francia con 332 avvocati per 100.000 abitanti, contro 75,8 della Francia1.
Tale situazione non favorisce l’instaurarsi di pratiche conciliative e spinge verso dinamiche d’incremento e di serialità del contenzioso, come nel caso dei giudizi di equa riparazione. Se, in generale, in un libero mercato di servizi, la moltiplicazione del numero degli operatori costituisce un dato positivo, nel settore specifico della giu-risdizione occorre verificare se la sovrabbondanza di avvocati sia funzionale a soddi-sfare le esigenze di giustizia dei cittadini, o non costituisca, a sua volta, fonte di un eccesso di domanda di giustizia non più rispondente a tali esigenze.
Va altresì considerato che alla crescita del numero degli avvocati corrisponde la costante diminuzione del personale di cancelleria, a causa del mancato reintegro da molti anni del personale via via collocato in quiescenza. La nuova pianta organica, nell’eliminare sul piano formale le carenze d’organico, ha cristallizzato di fatto una situazione di sostanziale inadeguatezza della presenza del personale amministrativo negli uffici giudiziari, con la conseguenza che lo squilibrio tra i due dati determina ef-fetti negativi a causa della sempre più pressante richiesta di servizi ad uffici caratte-rizzati da scarsità di risorse umane e tecnologiche.
Sulle disfunzioni della giustizia incidono anche le norme sul patrocinio a spese dello Stato. Da più parti (dai distretti di Brescia, Cagliari, Catanzaro, Lecce e Roma) viene indicato l’abuso di tale istituto come non trascurabile concausa di moltiplica-zione di attività e di allungamento dei tempi. Ovviamente non viene in alcun modo posta in discussione la necessità e la validità dell’istituto e, nonostante alcuni aspetti
1 V. Cepej, European judicial system, Edition 2010 (data 2008) Council of Europe, tab. 12.3, pag. 240.
problematici di carattere applicativo, l’opportunità delle più recenti estensioni alle vittime di reati sessuali.
Ciò che viene segnalato con preoccupazione è l’abuso a cui l’istituto attualmen-te si presta, ciò che determina non soltanto effetti sulla crescita della spesa pubblica, ma anche un ulteriore fattore d’intasamento del lavoro degli uffici giudiziari.
Si denuncia, in particolare, la facilità con cui è possibile ottenere tale beneficio sulla base di mere autocertificazioni, sovente non veritiere (è risultato ammesso al beneficio una persona imputata di avere abusivamente costruito una villa con piscina, sol perché all’anagrafe tributaria risultava titolare di un reddito infimo) e, per contro, si fa rilevare come il fatto che raramente pervengono agli uffici giudiziari richieste di revoca dell’ammissione, denota la mancanza, la scarsezza o la superficialità dei ne-cessari controlli da parte delle autorità finanziarie.
Si sottolinea che proprio l‘affrancamento di oneri economici induce la parte ammessa al beneficio a porre in essere iniziative processuali, a volte anche stravagan-ti, per il perseguimento di int

eressi insignificanti.
Si impone, peraltro, anche un incremento delle complessive capacità produttive dei magistrati, in particolare attraverso l’adozione di tecniche di redazione delle mo-tivazioni delle sentenze e degli altri provvedimenti decisionali (ma anche degli atti di parte) improntate a maggiore sinteticità, che consentano la più ampia diffusione nella prassi giudiziaria del principio opportunamente espresso dall’art. 3, comma 2, del codice del processo amministrativo (d. lgs. 2 luglio 2010, n. 104), secondo cui “il giudice e le parti redigono gli atti in maniera chiara e sintetica”. Si richiama in que-sta sede la sperimentazione in corso nella Corte di cassazione civile in ordine all’adozione di un modello di sentenza (o di ordinanza a contenuto decisorio) “a mo-tivazione semplificata”, con riferimento ai vizi di motivazione o con mero richiamo dei precedenti conformi in caso di prospettazione di questioni giuridiche già risolte dalla giurisprudenza consolidata della Corte.
La pubblica amministrazione, come parte sostanziale e processuale in un nu-mero elevato di controversie (si pensi alle cause previdenziali e di pubblico impiego, a quelle di espropriazione per pubblica utilità e di appalti pubblici, a quelle di equa riparazione per violazione del termine ragionevole di durata dei processi e, nella fase del giudizio di cassazione, a quelle tributarie) non fornisce un apporto di tipo conci-liativo, pure possibile di fronte ad indirizzi giurisprudenziali ormai consolidati e reite-rati, pari a quello che sarebbe auspicabile per conseguire utili risultati deflattivi, ma tende a riversare sulle pronunce giurisdizionali la soluzione di controversie che po-trebbero essere, se non eliminate, quantomeno semplificate attraverso una fase conci-liativa precontenziosa.
Di recente, anche la stampa quotidiana si è occupata, ad esempio, dell’allarmante situazione determinata dall’esponenziale aumento del contenzioso seriale con l’Istituto nazionale della previdenza sociale, che riguarda in primo luogo, oltre al riconoscimento dell’invalidità civile, l’attribuzione di prestazioni previdenziali a so-stegno del reddito o di trattamenti pensionistici e che, in buona parte, dovrebbe poter trovare definizione in adeguate sedi di conciliazione e nella già avviata più funzionale trattazione precontenziosa delle controversie da parte dello stesso ente pubblico, con la finalità di prevenire e scoraggiare la strumentale reiterazione di domande analoghe, se non dall’identico contenuto. Secondo quanto ha pubblicamente confermato lo stes-so Presidente dell’Istituto in una recente tavola-rotonda, l’Inps (coinvolto in circa un milione di cause pendenti, il 20% del totale) detiene attualmente il primato del con-tenzioso civile nazionale, mentre si sta rivelando possibile, grazie alla più attenta vi-gilanza e ad una migliore organizzazione interna dell’Istituto, una drastica riduzione di quella che è stata efficacemente definita una “domanda drogata” di giustizia2.
2 L’espressione è stata utilizzata dal cons. Giovanni Salvi, durante il recente congresso A.N.M., nel corso della presentazione, unitamente al cons. Vincenzo Di Cerbo e al presidente Antonio Mastrapasqua, di un’inedita e proficua collaborazione tra ANM e INPS finalizzata al miglior funzionamento dell’amministrazione della giustizia.
Deve in quest’occasione ribadirsi quanto già enunciato negli anni passati in pre-cedenti relazioni d’inaugurazione dell’anno giudiziario, ossia che la giustizia non co-stituisce un sistema a sé stante, ma è parte integrante di un più vasto complesso di i-stituzioni, il cui operato riguarda l’intera vita sociale ed economica del paese, contri-buendone allo sviluppo e alla competitività. Di conseguenza i problemi della giustizia non possono essere affrontati come questioni peculiari di un comparto istituzionale separato, ma vanno visti nel contesto dei rapporti con i poteri dello Stato, nella pro-spettiva comune di fornire un servizio pubblico essenziale, da rendere in tempi com-patibili con le esigenze dei singoli e dell’intera società.
2 – Giustizia penale.
2.1. Depenalizzazione.
L’afflusso di procedimenti è necessariamente correlato al numero dei reati com-messi, stante il principio costituzionale della obbligatorietà della azione penale che esprime il valore fondamentale della uguaglianza di tutti gli esseri umani di fronte al-la legge, valore che merita di essere mantenuto pur di fronte alla comune constatazio-ne della pratica impossibilità di perseguire tutti i reati commessi in Italia.
Si impone, pertanto, un restringimento dell’area dei reati. La sanzione penale va riservata alle violazioni di maggiore gravità, che non possono essere efficacemente contrastate con sanzioni di tipo diverso (di natura amministrativa o civile). Il mecca-nismo del processo penale che si accompagna alla previsione della sanzione penale (nulla poena sine judicio) comporta costi elevati per la collettività e per gli individui, che è opportuno affrontare soltanto quando non sussistono idonee alternative puniti-ve. Ed anche la tutela effettiva delle vittime della violazione non sempre richiede l’impiego della sanzione penale3.
3 F. Stella, Giustizia e modernità, Milano, 2001. – 92 –
Il nostro ordinamento si è dotato, con la legge n.689/1981 (che ha sviluppato la politica di depenalizzazione iniziata, con molte polemiche, nel 1967), di un sistema punitivo alternativo a quello penale costituito dalle sanzioni amministrative pecunia-rie e reali (soprattutto confisca amministrativa, preceduta, eventualmente, dal seque-stro). Occorre che questo strumento sanzionatorio alternativo sia impiegato nella mi-sura più ampia possibile nella legislazione statale: ogni qualvolta si ritenga di intro-durre una sanzione punitiva il legislatore dovrebbe porsi previamente il quesito se non possano essere efficaci sanzioni di tipo amministrativo (anche di tipo interditti-vo); soltanto una risposta negativa può giustificare la comminatoria di una sanzione penale.
Per il passato, occorre esaminare tutta la legislazione penale per proseguire con-cretamente nella politica della depenalizzazione, e cioè nella trasformazione delle previsioni sanzionatorie penali in sanzioni amministrative, previo accertamento della persistente attualità della singola violazione al fine di stabilire se il trascorrere del tempo ed il mutamento dei costumi non ne consiglino la sua radicale abolizione (c.d. decriminalizzazione).
Nel nostro ordinamento, dopo il d. lgs. 30 dicembre 1999 n.507, non si sono più avuti interventi di depenalizzazione ampi e tendenzialmente generali. Il decorso di più che un decennio impone una revisione della intera legislazione penale (speciale e codicistica) per eliminare o trasformare la sanzione penale in tutti i casi in cui ciò si riveli opportuno, alla luce del criterio della extrema ratio della previsione della san-zione penale.
2.2. Normativa processuale.
La capacità dell’apparato penale di perseguire e giudicare tutti i reati commessi involge l’intero tema del processo penale e il giusto equilibrio che la sua disciplina deve perseguire tra i diritti delle parti e le esigenze di funzionalità del processo, im-
posto dall’art. 111, secondo comma, della Costituzione4.
Alcuni fattori di rallentamento del processo possono essere facilmente individua-ti.
2.2.1. Il processo contumaciale.
Il processo contumaciale, come è emerso da molte annotazioni provenienti dai distretti, continua a rappresentare una delle più rilevanti cause di ritardo nella defini-zione dei procedimenti penali, e, conseguentemente, di condanne del nostro Stato da parte della Corte di Strasburgo

.
La nostra nozione di contumacia, a differenza di quanto previsto in altri ordina-menti, comprende due situazioni ontologicamente ben distinguibili, che però ricevono irrazionalmente un unico trattamento processuale: quella dell’imputato che ha avuto regolare ed effettiva conoscenza della citazione a giudizio e che, per sua scelta, deci-de di non comparire; e quella dell’imputato irreperibile, che, al contrario, è presunti-vamente all’oscuro del processo (o, comunque, è ben possibile che lo sia).
Non si vede per quale ragione di effettiva tutela difensiva nel primo caso l’imputato è trattato diversamente da quello che si presenta in giudizio o che manife-sta espressamente la volontà di rinunciare a comparire, in particolare dovendogli es-sere notificato, a differenza di quanto previsto per l’imputato presente o rinunciante, l’avviso di deposito della sentenza, di primo e di secondo grado, con tutto ciò che ne deriva in termini di lungaggini procedimentali e di possibili vizi nelle formalità di no-tifica.
Quanto invece all’imputato contumace perché irreperibile, si verifica attualmen-te – anche a seguito della improvvida abrogazione5 dell’ultimo periodo del comma 3
4 Questo tema è stato posto al centro della riflessione scientifica e dell’impegno culturale e civile, specie negli ul-timi anni, di Vittorio Grevi, recentemente e prematuramente scomparso.
5 Art. 46 legge 16 dicembre 1999, n. 479.
dell’art. 571 cod. proc. pen., che condizionava l’ammissibilità della impugnazione del difensore del contumace alla esistenza di uno specifico mandato – che spesso il pro-cedimento si sviluppi per tutti i gradi di impugnazione per poi doversi riconoscere il diritto del contumace ad essere rimesso in termini, in quanto presuntivamente non a conoscenza del procedimento, a norma dell’art. 175, commi 2 e 2-bis, cod. proc. pen.
Ora, tra le proposte da più parti avanzate, quella che merita particolare attenzio-ne, in quanto idonea a superare le disfunzioni appena indicate, è di prevedere la ob-bligatoria sospensione, già nella fase della udienza preliminare (o ancor prima, in sede di avviso di conclusione delle indagini), dei processi nei confronti degli impu-tati irreperibili, con contestuale sospensione dei termini di prescrizione; realizzan-dosi così il duplice obiettivo di evitare la trattazione di processi molto spesso destinati a essere prolungati a seguito del meccanismo della restituzione in termini di cui all’art. 175 cod. proc. pen. e, a un tempo, di conformare il nostro sistema processuale ai principi della CEDU.
2.2.2 Impugnazioni.
Una riflessione andrebbe poi fatta sul sistema delle impugnazioni, e in particola-re sul giudizio di appello, che rappresenta il momento di maggiore stasi dei procedi-menti sia civile sia penale. Non è gestibile, a numero dato di procedimenti annual-mente sopravvenienti, un sistema di impugnazioni che si articoli pressocché indistin-tamente in tre gradi di giudizio; e ciò a prescindere dalle esigenze di razionalizzazio-ne del giudizio di appello, che pure vanno attentamente considerate, mettendo a frutto le linee di riforma che la dottrina e gli operatori hanno più volte suggerito, in partico-lare sottolineando, nel processo penale, la incongruità di un giudizio di appello di tipo cartolare in un sistema improntato al modello accusatorio.
Talvolta, poi, il vizio denunciato dalla parte impugnante, di particolare gravità,
può determinare la regressione del procedimento in primo grado, e addirittura in fasi pre-processuali, perché esso lì si è prodotto. Ci si deve chiedere se ha senso un siste-ma processuale che consenta alle parti di denunciare il vizio in gradi successivi, fino in cassazione, per vedere poi il processo crollare ab initio; con la ben frequente con-seguenza, in penale, del maturarsi dei termini della prescrizione.
Una limitata ma incisiva innovazione potrebbe poi essere apportata con riguardo all’attuale previsione dell’attribuzione in via esclusiva al giudice ad quem del potere di dichiarare la inammissibilità della impugnazione. Quando si tratti di cause stretta-mente formali (ad es., impugnazione fuori termine o priva di motivi o proposta da soggetto non legittimato; provvedimento non impugnabile) è proprio necessario im-porre al giudice a quo di rimettere sempre e comunque gli atti al giudice superiore, con i conseguenti allungamenti dei tempi processuali e spreco di risorse ? Sarebbe sensato, in quanto più economico, prevedere che la causa di inammissibilità possa es-sere dichiarata dal giudice presso cui l’impugnazione è depositata, salva ovviamente la possibilità di impugnazione della relativa ordinanza.
Altra augurabile innovazione sarebbe quella di estendere, nel processo penale, la non necessità della notificazione dell’avviso di deposito della sentenza, facendosi de-correre il termine di impugnazione da una data legalmente prefissata, una volta che entro quella data sia stato già depositato il provvedimento da impugnare. Il legislato-re, nel 19916, ha ridotto il termine per il deposito delle sentenze da trenta a quindici giorni, nella illusoria previsione che, in tal modo, si accelerassero i tempi di redazio-ne delle sentenze. Ciò ha di riflesso prodotto la conseguenza che in ogni caso (stati-sticamente ragguardevole) in cui l’estensore non sia in grado di rispettare tale ristretto termine, del deposito della sentenza debba essere dato avviso alle parti che hanno di-ritto di impugnazione mediante apposita notifica, con conseguente appesantimento
6 Art. 6 d.l. 1° marzo 1991, n. 60, modificativo dell’art. 544, comma 2, cod. proc. pen.
della procedura e possibile causazione di irregolarità.
2.2.3. Le garanzie processuali.
Ma un discorso più ampio deve riguardare l’intera normativa processuale, come stimolo ad un più ampio dibattito che, come si è detto all’inizio (v. retro I) costituisce anche uno degli obiettivi di questa relazione.
E’ viva, nel nostro Paese, una esigenza di “effettività”. Si parla spesso, ad e-sempio, di una effettività dei diritti – specie, ovviamente, di quelli fondamentali – che rendano concrete, e non meramente declamate, le garanzie (tante, sulla carta) che pre-siedono all’esercizio di quei diritti. Si evoca – e non certo a sproposito – la necessità che il processo, civile o penale che sia, realizzi la pretesa che con esso si è inteso a-zionare, e che, alla fine, giunti al traguardo (spesso faticosissimo e talvolta anche co-stosissimo) del giudicato, non inizi una fase altrettanto tormentata – come quella della esecuzione – che faccia correre il rischio di vanificare il contenuto sostanziale della sentenza divenuta irrevocabile. Un processo penale che si conclude con una dichiara-zione di prescrizione rappresenta con ciò stesso il suo fallimento. Una esecuzione pe-nale che segua a distanza di moltissimi anni il fatto per il quale è intervenuta la con-danna, non è mai – per definizione – effettivamente rieducativa, perché rivolta ad un essere umano ormai naturalisticamente diverso da quello che commise il reato. Un giudicato civile che produce il suo frutto in executivis a distanza di tempi biblici dalla primordiale pretesa dedotta in giudizio, non può mai essere realmente satisfattivo di quella pretesa: è altro, una sorta di surrogato postumo, del quale sfumano le sembian-ze in termini di “giustizia giusta”. Gli effetti sono presto detti: si opacizza la funzione di prevenzione generale e speciale delle norme e del processo penale; si determinano ante judicatum risultati spesso irreversibili in termini di onorabilità dei soggetti coin-volti n

ei procedimenti, dei loro interessi patrimoniali e di intere realtà economico-imprenditoriali; si incrina la fiducia nella giustizia pubblica, ampliando l’area verso
meccanismi stragiudiziali – in sé certamente da non demonizzare, ma che non posso-no, per dettato costituzionale, sostituirsi in toto alla giurisdizione – di composizione delle controversie.
Come si è più volte rimarcato, una giustizia lenta, oltre a determinare la frustra-zione delle legittime aspettative dei consociati e in particolare di chi, toccato dalla vi-olazione del diritto, giustamente pretende la restaurazione della legalità, comporta, per ciò stesso, uno spreco di risorse che incide pesantemente, oltre che sulla credibi-lità, sul “buon andamento” che deve caratterizzare, per dettato costituzionale, ogni pubblica amministrazione, compresa dunque quella della giustizia.
L’apparato giudiziario assolve a una funzione indispensabile, ma costosa, e, se questa non può essere parametrata a un criterio strettamente aziendalistico, deve co-munque essere adeguata a soddisfare una domanda di giustizia che si fondi sulla esi-genza della effettiva tutela e restaurazione dei diritti, agevolando l’ottimizzazione delle energie e l’eliminazione degli sprechi, che non devono certo andare a scapito dei diritti, ma anzi li realizzano con maggiore efficacia e puntualità.
Contribuiscono al rallentamento della funzione giudiziaria anche ostacoli di tipo “culturale”, che coinvolgono tutti i soggetti del processo sia pubblici sia privati.
Sono infatti da registrare frequenti “strumentalizzazioni” di diritti e facoltà pro-cessuali che le parti non di rado esercitano, per “spuntare” risultati che con quei diritti e facoltà non hanno nulla a che vedere. E’ stato esattamente osservato che l’abuso del diritto, in senso processuale, si identifica nel “tradimento radicale della funzione sociale e istituzionale della giurisdizione”, vuoi attraverso un “uso deliberatamente strumentale del potere di azione” vuoi attraverso il “ricorso anomalo agli istituti di garanzia con fini di vanificazione” della domanda giudiziale. Che si iscriva il nomi-nativo dell’indagato con ritardo nel registro di cui all’art. 335 cod. proc. pen., per “differire” il termine di durata delle indagini, o che si chiudano e poi subito dopo si riaprano le indagini preliminari per ottenere lo stesso risultato pratico, si abusa del di-
ritto; non diversamente, sempre a titolo di esempio, dalle strumentali domande pluri-me di ricusazione fondate sulle stesse ragioni, idonee a paralizzare il potere del giudi-ce di pronunciare sentenza, e che – come è noto – indussero la Corte costituzionale a dichiarare la illegittimità costituzionale in parte qua, dell’art. 37, comma 2, cod. proc. pen., evocando a fondamento della decisione7 proprio una ipotesi di abuso del dirit-to. In questa linea si iscrivono, d’altra parte, gli approdi cui le Sezioni unite sono giunte in tema, appunto, di abuso del diritto nel campo civile e tributario e con river-beri, anche, in materia di processo civile, nonché taluni arresti delle Sezioni unite in materia di processo p
Per realizzare l’effettività dei diritti occorre innanzi tutto un “costume di lealtà” che deve coinvolgere tutti i soggetti del processo.
Le parti private devono essere consapevoli che il ricorso a condotte dilatorie o ostruzionistiche, sterilmente interdittive delle iniziative della parte contrapposta o comunque tese a differire i tempi della decisione, rende per ciò stesso meno credibili le proprie tesi e induce una reazione di diffidenza che le offusca indistintamente. E’ dunque augurabile che esse, nel loro stesso interesse, concentrino le loro iniziative processuali su quegli aspetti rilevanti per l’esplicazione delle proprie ragioni e per l’affermazione dei loro diritti.
La parte pubblica, e cioè, essenzialmente nel processo penale, il pubblico mini-stero, essendo tenuta per dettato ordinamentale a orientare le proprie iniziative a fina-lità di giustizia, deve farsi carico di esplorare ogni traccia di ricerca che tenda al rag-giungimento della verità, nella prospettiva e con le metodologie indicate dagli artt. 50 e 358 cod. proc. pen., evitando ogni esasperazione nell’esercizio dell’azione penale o in quello del diritto di impugnazione. I tempi delle indagini preliminari dovrebbero essere contenuti nei limiti ordinari fissati dal codice, con il ricorso solo eccezionale a
7 Corte cost. n. 10 del 1997.
proroghe e comunque con la iscrizione tempestiva della notizia di reato nell’apposito registro. I risultati investigativi, ove basati essenzialmente su intercettazioni di comu-nicazioni, non dovrebbero essere rappresentati attraverso la pedissequa trascrizione del contenuto di queste, spesso materialmente e globalmente ripresa dagli atti di poli-zia giudiziaria8, perché il compito del pubblico ministero è di cogliere e di rappresen-tare il senso e la portata del materiale indiziario, offrendone una sintesi ragionata, co-sì da renderne agevole, per le altre parti e per il giudice, la relativa valutazione in termini probatori. L’iniziativa cautelare, che produce una quantità di procedure inci-dentali che gravano pesantemente sul carico complessivo della giustizia penale, tal-volta anche per fenomeni di criminalità non organizzata o non di estrema gravità, de-ve essere contenuta negli stretti limiti previsti dall’ordinamento processuale; in parti-colare parametrando le misure che incidono più marcatamente sulla libertà personale ai criteri di indispensabilità, proporzionalità e adeguatezza fissati dalla legge e al principio di presunzione di non colpevolezza dettato dalla Costituzione, che devono essere doverosamente osservati in ogni caso, anche resistendo ad eventuali “aspettati-ve” da parte dell’opinione pubblica, che d’altra parte, proprio per le lungaggini dell’accertamento sul merito della responsabilità penale, vede talvolta nella immedia-ta risposta cautelare il soddisfacimento della sua esigenza di giustizia.
Il giudice, dal canto suo, deve avere come faro il criterio interpretativo per il quale, in presenza di pluralità di soluzioni, deve essere privilegiata quella conforme ai diritti affermati dalla Costituzione e dalla CEDU, esaltando nel contempo il suo ruolo di garante delle regole del processo e di realizzatore di una giustizia che non perda di vista il risultato cui queste regole tendono, quello di restaurazione dell’ordinamento giuridico violato. Non essendo il processo, nel nostro ordinamento, un “gioco delle parti” dove trionfa la tesi del soggetto più abile anche a scapito del sacrificio della le-
8 Questa prassi sovente si estende, per trascinamento, ai provvedimenti del giudice, in sede sia cautelare sia di co-gnizione.
galità, egli deve farsi carico di assicurare la tutela dei soggetti deboli, siano essi l’imputato o la vittima del reato, sovvenendo, con l’impiego di appropriati criteri in-terpretativi, a rimediare a possibili casi di sostanziale “abbandono della difesa” o di evidente lesione dei diritti fondamentali9.
Fra i “diritti” da assicurare vanno considerati, per quel che qui più interessa, ra-gionandosi in tema di tempi del processo, quelli di natura processuale, cui normal-mente ci si richiama, specie nel settore penale, con il termine “garanzie”. Bisogna però intendersi su quali siano le garanzie di cui si parla: sono quelle, come si diceva, che si collegano, direttamente o indirettamente, a diritti fondamentali riconosciuti dalla Costituzione e dalla CEDU, con presidi processuali che ne consentano l&

rsquo;effettivo soddisfacimento? O sono ogni facoltà o adempimento processuale via via riconosciuti o imposti, nella sua discrezionalità, dal legislatore del processo? Il legi-slatore è certamente libero di ampliare le “garanzie”, tendenzialmente senza limiti, spettando alla discrezionalità politica stabilire quali siano le condizioni perché un processo possa dirsi equo. E negli ultimi tempi il processo penale, in specie, è stato in effetti interessato da numerosi interventi correttivi che sono andati quasi sempre nell’ampliamento delle “garanzie”, con comminatorie di nullità o di inutilizzabilità in caso di loro inosservanza. Va però considerato che per una legge sociologico-comportamentale più si infittiscono gli adempimenti, le formalità, gli incidenti, più chi se ne avvale tende ad abusarne, e, di converso, chi è chiamato a farli rispettare, e cioè il giudice, tende a darne, nella prassi applicativa, una interpretazione improntata più alla sottovalutazione che al rigore. Molti esempi potrebbero essere colti in questo senso dalla giurisprudenza, ma non è questa la sede per darne dettagliato conto.
9 Si veda la giurisprudenza della Corte EDU sul dovere del giudice nazionale di restaurare i diritti processuali fon-damentali dell’imputato quando le carenze difensive siano manifeste e segnalate alla sua attenzione: v. sentenze 9 aprile 1984, Goddi c. Italia; 24 novembre 1993, Imbrioscia c. Svizzera; 27 aprile 2006, Sannino c. Italia; 18 gennaio 2007, Hani c. Italia.
-E’ auspicabile dunque che le “garanzie” siano attentamente calibrate dal legisla-tore proprio perché non se ne sminuisca nella prassi la loro importanza; tenendo pre-sente che esse comunque non sono dilatabili indiscriminatamente, dovendo essere bi-lanciate con la finalità della ragionevole durata del processo, anch’essa, ormai, pre-cetto costituzionale, che il legislatore “deve” assicurare (art. 111, comma secondo Cost.), tanto da potersi prospettare l’attivazione di un incidente di costituzionalità in presenza di norme che, senza alcun ragionevole perseguimento di effettiva finalità di tutela di diritti coessenziali ai principi del contraddittorio e della difesa, o di altri di-ritti fondamentali, si pongano in palese antinomia con il bene primario protetto da ta-le precetto costituzionale.
3. Gli uffici del giudice di pace.
Il piano non può prescindere dalla considerazione degli uffici del giudice di pa-ce, la cui istituzione va utilizzata in maggior misura dell’attuale.
L\’assetto ordinamentale di tale organo, pur essendo stato più volte rivisitato dal legislatore, è rimasto sostanzialmente immutato nelle sue linee generali, in quanto le modifiche normative intervenute hanno riguardato principalmente aspetti relativi al-l\’istituzione del giudice di pace come persona, segnatamente la remunerazione e la durata dell\’incarico, piuttosto che al giudice di pace come ufficio o struttura.
Peraltro, ciò che oggi rischia di condizionare fortemente il rendimento della ca-tegoria è il rilevante numero di scoperture che la riguardano, posto che su 4.690 posti previsti in pianta organica solo 2.571 risultano coperti. Né a tale situazione può, al momento, operativamente porsi rimedio, avuto riguardo al fatto che le procedure concorsuali per l\’accesso alla categoria continuano ad essere sospese, ai sensi dell\’art. 10-ter della legge 21 novembre 1991, n. 37410, in attesa della revisione delle dotazio-
10Modificato dalla legge 12 novembre 2004, n. 271.
ni organiche. Infatti, avendo il Tar del Lazio accolto il ricorso proposto dall\’UNAGI-PA avverso il d.m. 23 aprile 2008, che rideterminava le piante organiche, ed atten-dendosi la decisione del Consiglio di Stato o le nuove determinazioni del Ministero della Giustizia per procedere alle nomine, il C.S.M. può sopperire alle carenze di or-ganico solo attraverso trasferimenti interni, mentre dal canto suo, nelle more, il legi-slatore ha ulteriormente prorogato i giudici di pace che avevano terminato anche il terzo mandato.
In linea più generale, il settore in esame sembra stare attraversando una fase di fermento, collegata alla stessa collocazione ordinamentale dei giudici di pace, dagli stessi ritenuta insoddisfacente a fronte del rilevante contributo fornito alla soddisfa-zione della domanda di giustizia. Si tratta di questioni che non possono essere ovvia-mente affrontate in questa sede, in quanto presuppongono scelte di carattere politico attinenti, oltre che alla ricerca dei mezzi finanziari necessari per far fronte alle riven-dicazioni di carattere economico, anche alla determinazione della durata dell\’incarico, alla disciplina delle ipotesi di incompatibilità e all\’individuazione delle modalità di selezione, in funzione di garanzia dell\’autonomia e dell\’indipendenza di tali magistra-ti, nonché di attuazione del principio costituzionale che impone l\’assunzione mediante concorso pubblico.
Al di là di tale impasse ordinamentale, che pure non sembra aver prodotto un si-gnificativo rallentamento nella risposta di giustizia fornita dagli uffici del giudice di pace (in proposito si rinvia ai dati statistici generali relativi alla giustizia civile, §1), occorre poi richiamare l\’attenzione sulle allarmanti carenze che si registrano anche nell\’organico nel personale di cancelleria, e alle quali si fa fronte talvolta mediante l\’applicazione di dipendenti in servizio presso altri uffici, con la conseguente sottra-zione a questi ultimi di risorse umane già per se stesse insufficienti, in un contesto generale caratterizzato dalla scopertura di posti che, pur previsti dalle piante organi-che, sono invece di fatto vacanti.
4. La distribuzione territoriale degli uffici giudiziari.
Quello della revisione della distribuzione territoriale degli uffici giudiziari, e in particolare dei tribunali, è un tema che non può essere ignorato in ogni piano che vo-glia tendere ad una maggiore efficienza dell’apparato giudiziario.
Il Consiglio superiore della magistratura, ricordando le ripetute prese di posizio-ne assunte negli ultimi vent’anni sull’inadeguatezza dell’attuale geografia giudiziaria rispetto ai criteri di efficienza del sistema giudiziario, nella seduta del 13 gennaio 2010 ha adottato una risoluzione concernente la revisione delle circoscrizioni giudi-ziarie, segnalando al Ministro della giustizia “nell\’ottica di una leale collaborazione istituzionale, […] l\’assoluta ed imprescindibile necessità di attivare una proposta le-gislativa diretta a rivedere le circoscrizioni giudiziarie. La riorganizzazione delle circoscrizioni giudiziarie costituisce, infatti, a parere del C.S.M., lo strumento inde-fettibile per realizzare un sistema moderno ed efficiente di amministrazione della giu-risdizione, che sia in grado di fornire la dovuta risposta di merito alle istanze di giu-stizia, nel rispetto di tempi ragionevoli di durata del processo, nella consapevolezza che il ritardo nel giungere alla decisione si risolve in un diniego di giustizia.”;
Un recente studio dell’Associazione nazionale magistrati, evidenzia che dall’Unità d’Italia ad oggi nessun tribunale è stato soppresso e anzi ne sono stati isti-tuiti altri fino alla fine degli anni ’90. Da un punto di vista operativo, venti magistrati, tra Procura e Tribunale, sono generalmente considerati il minimo necessario per assi-curare il buon funzionamento di un ufficio giudiziario; ma allo stato 59 tribunali han-no un organico inferiore a venti unità e 15 addirittura inferiore a dieci.
Se non si vuole percorrere la strada di una riduzione del numero dei tribunali, la cui sede, considerate anche le odierne facilità di comunicazioni e di trasporti, sarebbe augurabile che fosse collocata nel ca

poluogo di provincia, occorre almeno prevedere la trasformazione dei tribunali minori in sedi distaccate di quelli maggiori, così da
consentire una notevole razionalizzazione ed elasticità delle risorse sia umane sia ma-teriali.
IX
VALIDITA’ DEL MODELLO ORDINAMENTALE ITALIANO
Abbiamo finora analizzato gli elementi di sofferenza del sistema giudiziario ita-liano e prospettato un contributo per un possibile piano per il perseguimento della du-rata ragionevole dei processi, persuasi come siamo che quella della giustizia italiana è crisi di efficienza e di durata dei procedimenti.
Nella solenne apertura di quest’anno giudiziario, voglio esprimere, con pacatez-za, il fermo convincimento che l’Italia non ha affatto la peggiore giustizia d’Europa, come talvolta superficialmente e infondatamente si afferma nei mass-media, senza avere la reale conoscenza del funzionamento del nostro sistema e di quello degli altri Stati europei.
L’inefficienza del sistema di giustizia dipende da fattori molteplici (di ordine strutturale, legato alla quantità di domanda, alla distribuzione geografica degli uffici, al numero dei magistrati e degli avvocati, alla scarsità di risorse personali e materiali, alla superfetazione di garanzie formalistiche che allungano i tempi senza assicurare effettività di diritti, alla scarsità di tecnologie e d’informatizzazione, etc.). Essa non dipende dall’assetto ordinamentale e dall’equilibrio dei poteri delineato dalla Co-stituzione repubblicana e via via concretamente realizzatosi, sia pure tra ritardi e con-traddizioni, a partire dall’istituzione della Corte costituzionale e del Consiglio Supe-riore della Magistratura, organo di garanzia dell’indipendente esercizio della giurisdi-zione e dell’indipendente esercizio delle indagini del Pubblico Ministero.
Chiunque abbia conoscenza e dimestichezza con le istituzioni di altri paesi sa che il modello ordinamentale italiano costituisce un punto di riferimento nel mondo. Nel panorama internazionale – prescindendo dal sistema professionale anglosassone, derivante da tradizioni secolari del tutto peculiari – si contrappongono due modelli
ordinamentali: quello gerarchico-piramidale di discendenza napoleonica e quello ita-liano, diffusamente noto come modello orizzontale, caratterizzato dalla pari dignità di tutte le funzioni, dal governo autonomo della giurisdizione, dall’indipendenza del Pubblico Ministero da ogni influenza del potere esecutivo, principi di cui è garante il Consiglio Superiore della Magistratura.
Questo modello orizzontale (e le sperimentate dimostrazioni storiche e fattuali d’indipendenza da ogni altro potere, in attuazione dell’art. 104 Cost.) hanno meritato al sistema italiano l’attenzione massima in ambito internazionale.
Di ciò sono testimonianza le ripetute prese di posizione di organismi internazio-nali, come quelle del Relatore speciale delle Nazioni Unite per l’indipendenza dei giudici e degli avvocati, oltre ai Convegni e le Conferenze delle Nazioni Unite svol-tesi a Milano nel 1985 e a Palermo nel 2000, cui fecero seguito rispettivamente la Ri-soluzione dell’Assemblea generale (29 novembre 1985) sui principi base delle Na-zioni Unite sull’indipendenza della magistratura e la Convenzione contro la crimina-lità organizzata transnazionale, sottoscritta a Palermo il 15 dicembre 2000.
A tali eventi vanno aggiunti i documenti e le risoluzioni adottate, nell’ambito del Consiglio d’Europa, dal Consiglio consultivo dei giudici europei e dalla Commissione europea per l’efficacia della giustizia, tra cui i quali meritano particolare menzione la recentissima Magna Carta dei giudici, approvata il 17 novembre 2010, e la Racco-mandazione (n.12/2010) del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, approvata in pari data, sull’indipendenza, l’efficacia e la responsabilità dei giudici: documenti che, all’evidenza, nel delineare i principi e le garanzie d’indipendenza e gli indicatori di efficacia della giustizia, hanno guardato al sistema italiano.
Non è un caso, infine, che a magistrati italiani siano e siano stati affidati per lun-go tempo il Segretariato generale dell’Unione Internazionale dei Magistrati, la Presi-denza di Medel, la Presidenza del Consiglio consultivo dei giudici europei (CCJE) nell’ambito del Consiglio d’Europa e che il Procuratore generale presso questa Corte
sia l’attuale Presidente della Rete europea dei Procuratori generali delle Corti Su-preme.
La reiterazione e la costanza di tali fatti esprimono, unitamente ai meriti soggetti-vi dei magistrati incaricati di prestigioso incarichi, la considerazione diffusa in campo internazionale per il sistema di equilibrio di poteri realizzato nel nostro Paese, in attuazione del disegno che i nostri Padri Costituenti tracciarono per costrui-re uno Stato costituzionale di diritto, in cui nessun potere è assoluto, neppure il potere del popolo, che la sovranità “esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”.
Di quel delicato equilibrio – che merita di essere salvaguardato e tutelato perché è elemento decisivo della democrazia costituzionale e ha garantito la vita demo-cratica del nostro Paese – è parte essenziale il principio di legalità come indefettibile connotato dell’esercizio di ogni potere.
Come ha reiteratamente affermato la Corte costituzionale, il principio di legalità (art. 25/2), in un sistema fondato sul principio di eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, non può essere salvaguardato se non attraverso l\’obbligatorietà del-l\’azione penale, principio che costituisce “il punto di convergenza di un complesso di principi basilari del sistema costituzionale, talché il suo venir meno ne altererebbe l\’assetto complessivo”1.
L’indipendenza garantita da questo modello ordinamentale ai magistrati ha per-messo al sistema di giustizia di affermare il primato della legalità anche nell’esercizio del potere politico, amministrativo ed economico, a prescindere dalle variabili e con-tingenti maggioranze politiche.
L’esercizio di tali rilevanti compiti da parte di giudici e pubblici ministeri garan-titi da uno statuto di piena indipendenza richiede piena consapevolezza del ruolo proprio della giurisdizione, elevata qualificazione e competenza professionale, ri-
1 Cfr. Corte cost. sent. n. 88 del 1991, nonché sent. nn. 190 del 1970, 96 del 1975, n. 84 del 1979.
spetto delle regole deontologiche, massima attenzione alle ragioni degli altri, costume di sobrietà e di rigore istituzionale e professionale, che la collettività, per potere nutri-re fiducia nell’istituzione giudiziaria, deve poter apprezzare in ogni magistrato, dal Primo Presidente della Corte di cassazione al giovane magistrato che inizia la sua at-tività nella più piccola sezione distaccata.
Ovviamente, in un sistema democratico fondato sul bilanciamento dei poteri con pesi e contrappesi equilibrati, anche l’esercizio dell’attività giudiziaria e giurisdizio-nale è liberamente valutabile, ma va ribadito che i processi (civili, penali, ammini-strativi, disciplinari) si svolgono nelle sedi proprie, dinanzi agli organi giurisdizio-nali, e che il sistema processuale assicura le più ampie facoltà di ricorso e d’impugnazione, a garanzia della compiuta applicazione delle norme di diritto so-stanziale e della piena osservanza delle regole procedimentali.
Per quanto ogni singolo atto giudiziario possa ritenersi errato e criticabile, una valutazione serena non può disconoscere che la giurisdizione ha concorso e concorre all’attività di ripristino delle regole fondamentali di convivenza civile e all’attribuzione di senso ed effettivit&agr

ave; al valore, anche sociale, del principio di legali-tà.
Con la consapevolezza che il giudizio e la valutazione dei cittadini e degli utenti si formano non soltanto in relazione ai valori di fondo dell’ordinamento, ma anche (e a volte soprattutto) con riferimento alle risposte quotidiane che il sistema giustizia è in grado di dare alle domande dei cittadini, va ribadito il convincimento che la solu-zione (o almeno un credibile avvio verso la soluzione) della crisi di efficienza contri-buirà a rafforzare la fiducia dei cittadini nelle istituzioni giudiziarie e nei suoi giudici.
In proposito voglio aggiungere che, pur senza ovviamente escludere la sussisten-za di casi di inerzie di singoli uffici o di singole persone, la crisi di efficienza del si-stema non può essere ascritta a scarso impegno della magistratura o del personale amministrativo e tecnico che opera negli uffici giudiziari. Non soltanto dalle relazio-
ni dei distretti, ma anche dal confronto con l’andamento del sistema di giustizia degli altri Paesi a noi comparabili, cioè quelli aderenti al Consiglio d’Europa (non avendo senso il confronto con paesi di ordinamento assolutamente diverso dal nostro), emer-ge lo straordinario carico che pesa sull’amministrazione giudiziaria del nostro Paese, sia per un più alto indice di litigiosità nel settore civile, sia per l’enorme quantità di attività giudiziaria derivante dall’esistenza di una diffusa, radicata e pericolosa crimi-nalità organizzata2, che impone di attribuire al lavoro dei pubblici ministeri e dei giu-dici del nostro Paese un “peso” che ha pochi termini di paragone.
Una recente indagine della Commissione europea per l’efficacia della giustizia del Consiglio d’Europa, che ha analizzato i dati relativi agli affari trattati dai tribunali di 1° grado dei 47 paesi del Consiglio d’Europa, mette in evidenza come la produtti-vità media dei magistrati e del personale amministrativo che opera negli uffici giudi-ziari italiani si collochi nella fascia alta di rendimento (al secondo posto nel settore civile e al primo posto nel settore penale per capacità di smaltimento)3. Tale consta-tazione non autorizza la magistratura italiana a ritenere pienamente soddisfatto il pro-prio compito, dal momento che – pur nella generale inefficienza che caratterizza il si-stema – permangono rilevanti differenze nei livelli di efficienza e di produttività tra gli uffici giudiziari e tra i magistrati, differenze che non possono trovare giustifica-zione se si vuole perseguire un complessivo miglioramento della risposta giudiziaria alle attese delle singole persone e del Paese. Nello stesso tempo, essa non autorizza analisi semplicistiche che in modo più o meno esplicito attribuiscono ai magistrati re-sponsabilità assorbenti a fronte dei ritardi che sono sotto gli occhi di tutti. Occorre, dunque, imboccare definitivamente la strada di analisi più articolate che muovano dai dati di fatto e con questi si confrontino, abbandonando letture spesso strumentali che non favoriscono e, anzi, ostacolano la ricerca delle soluzioni necessarie.
2 V. Cepej, European judicial system, Edition 2010 (data 2008) Council of Europe.
3 Op. ult. cit., tabelle nn. 6-12 pp. 302 – 305.
X
LA SITUAZIONE DELLA CORTE DI CASSAZIONE
1. L’organico dei magistrati e del personale amministrativo
Qualunque valutazione sull’andamento dell’attività giudiziaria svolta presso la Corte di cassazione nel 2010 non può ignorare la gravissima situazione di vacanze nell’organico dei magistrati, che si protrae ormai da tempo e incide in modo determi-nante sulla quantità dei procedimenti definiti e sui tempi di durata dei processi nella fase di legittimità.
Su un organico complessivo di 394 magistrati, nel 2009 le scoperture hanno o-scillato tra un minimo di 67 magistrati, pari al 18% (dei quali 48 consiglieri, nella mi-sura del 16%, e 15 presidenti, nella misura del 28%) in gennaio ed un massimo di 95 magistrati, pari al 24% (dei quali 78 consiglieri, nella misura del 26%, e 12 presiden-ti, nella misura del 22%) nel dicembre di detto anno.
Nel corso del 2010 tale già pesante situazione si è ulteriormente aggravata e al 31 luglio 2010, in sostanziale coincidenza con l’insediamento del nuovo Primo Presi-dente, risultava una scopertura di 112 magistrati, pari al 28%, dei quali 5 presidenti (9%) e ben 101 consiglieri, nella misura del 33%, oltre a vacanze nell’organico dei magistrati dell’Ufficio del Massimario nella misura del 16%. Malgrado l’arrivo tra il settembre e il novembre 2010 di 44 nuovi consiglieri, in prevalenza destinati alle se-zioni civili, sia per ragioni di maggiore scopertura, che per una migliore utilizzazione delle esperienze acquisite dalla maggior parte dei nuovi arrivati nella loro precedente attività giurisdizionale, al 31 dicembre 2010 si è registrata ancora una grave scopertu-ra di 102 magistrati, pari al 26%, dei quali 15 presidenti (28%), 76 consiglieri (25%) e 11 magistrati dell’Ufficio del Massimario (30%), anche a causa dell’esodo di magi-
strati, che hanno chiesto di essere collocati a riposo prima del raggiungimento dei li-miti di età, per sottrarsi agli effetti pregiudizievoli dei recenti provvedimenti econo-mici che hanno inciso sul trattamento economico di alcune categorie di dipendenti pubblici, magistrati ordinari compresi. Tale esodo ha riguardato ben 19 magistrati della Corte di cassazione, dei quali 8 presidenti di sezione e 11 consiglieri.
Tale pesante situazione di scopertura di organico graverà verosimilmente sul funzionamento della Corte per tutto il 2011, giacché appare ragionevole ritenere, an-che sulla scorta del tempo occorso per la precedente delibera di nomina, che l’assegnazione di nuovi consiglieri alla Corte non potrà essere deliberata dal C.S.M. prima dell’estate del corrente anno, con conseguente presa di possesso dei nuovi as-segnati nel periodo di ottobre-novembre 2011.
I dati riferiti dimostrano che la Corte di cassazione opera già da alcuni anni in una continuata situazione di grave carenza di organico, destinata a protrarsi anche nel 2011.
Analoghe considerazioni vanno svolte per quanto riguarda il personale ammini-strativo in servizio presso la Corte di cassazione, che, su un organico previsto di 744 unità, così già sensibilmente ridotto rispetto a quello previsto negli anni 2005 e 2006 (947) e negli anni 2007 e 2008 (804), nel 2009 presentava una scopertura di 62 ele-menti, pari a – 8,74 % , aumentata nel 2010 a 101 unità, con una percentuale di sco-pertura del 13,44 %. Nel periodo 2005-2010 la media di scopertura è stata del 15,69% e negli anni tra il 2007 e il 2010 sono cessati dal servizio per pensionamento 95 di-pendenti. Nel 2011 sono previsti ulteriori 30 pensionamenti.
Deve altresì tenersi conto che l’età anagrafica media raggiunta dal personale amministrativo si attesta intorno ai 50,5 anni e che sono in aumento le patologie inva-lidanti legate all’età in progressivo avanzamento.
2. La Cassazione civile
2. 1. Dati statistici
Nel settore civile si è registrato al 31 dicembre 2010, rispetto all’anno preceden-te (31 dicembre 2009), un aumento della sopravvenienza da 28.419 procedimenti a 30.382 (+ 1.963), pari ad un incremento del 7%, ed una diminuzione del numero dei procedimenti definiti (con pubblicazione del provvedimento), che passano da 31.251 (nel 2009) a 28.963 (nel 2010) (- 2.228), con una diminuzione del 7%. La pendenza complessiva dei procedimenti civili è cresciuta da 96.234 nel 2009 a 97.653 nel 2010, con un incremento percentuale dell’1,5% e l’indice di smaltimento dei procedimenti, rispetto al numero delle sopravvenienze, è stato del 95,3%, in flessione rispetto a que

llo del 2009 (110%).
Malgrado la diminuzione dei procedimenti definiti, la produttività media dei con-siglieri è aumentata del 2,8%, passando per ogni singolo consigliere, da 267 nel 2009 a 274 nel 2010, in quanto nello stesso periodo il numero medio dei consiglieri esten-sori è passato da 117 a 106, con una diminuzione del 9,8%.
Tale dato sta a dimostrare che la diminuzione delle definizioni nel 2010 non è di-pesa da una minore produttività dei magistrati, che hanno anzi incrementato il loro impegno in termini assoluti e percentuali, ma da un sensibile aumento delle scopertu-re e da una conseguente riduzione del numero dei magistrati impegnati nella tratta-zione delle cause, che ha portato, insieme con l’aumento delle sopravvenienze, ad una rilevante crescita del numero medio dei procedimenti pendenti per consigliere, passati da 822 nel 2009 a 925 nel 2010, con un incremento del 12,5%.
Per le medesime ragioni, l’aumento della pendenza nella misura dell’1,5% è da attribuire all’aumento delle sopravvenienze ed alla riduzione del numero di consiglie-ri.
Sul versante dell’arretrato, forte è stato l’impegno dei magistrati e del personale amministrativo della Corte, che ha consentito, nel 2010, di ridurre la durata media ef-
fettiva dei procedimenti definiti da 37 mesi (nel 2009) a 35 mesi, così consolidando una tendenza alla diminuzione di tale durata, costantemente perseguita dal 2008 e re-sa possibile anche dai tempi più rapidi di definizione dei procedimenti da parte della Struttura centralizzata e della Sesta sezione. Dai dati statistici emerge, infatti, che, ri-spetto alla media per sezione, già rilevata, di 35 mesi, la durata media dei procedi-menti presso la Struttura scende a 21 mesi e presso la Sesta sezione a 10 mesi.
Fondamentale, in tale direzione, è stato l’apporto fornito dalla Struttura unificata per l’esame preliminare dei ricorsi civili, istituita nel 2005 ed ancora funzionante nel 2010, ma con ruolo ad esaurimento, essendo entrata in funzione, nel corso dello stes-so anno, la Sesta sezione civile, istituita dal Primo Presidente con decreto del 30 set-tembre 2009, in attuazione della riforma introdotta dalla legge 18 giugno 2009, n. 69, che, con un potenziamento del numero di magistrati e di personale amministrativo addetti, perseguirà con più efficacia la finalità di intercettare tutti i nuovi ricorsi civili iscritti a decorrere dal 2009 e assoggettati alle nuove disposizioni del processo di cas-sazione introdotte dalla citata legge n. 69 del 2009, per distinguere quelli che possono essere trattenuti per la trattazione immediata con il rito della camera di consiglio1 da quelli che devono essere avviati per la trattazione alle singole sezioni ordinarie.
L’apporto della Struttura unificata, prima, e della Sesta sezione, poi, alla defini-zione di un maggior numero di procedimenti risulta dai dati statistici del 2010, dai quali emerge che la Struttura unificata ha definito 9.924 procedimenti, pari al 37,3%, in misura nettamente superiore al numero di procedimenti definito da ogni altra se-zione. La Sesta sezione, in pochi mesi di funzionamento, e con gli inevitabili proble-
1 Ricorrendo ipotesi di inammissibilità del ricorso o in caso di manifesta fondatezza o infondatezza dello stesso, anche con riferimento alle specifiche fattispecie regolate dall’art. 360 bis c.p.c., introdotto dall’art. 47, comma 1, lett. a) della legge n. 69 del 2009, nel caso che il provvedimento impugnato abbia deciso le questioni di diritto in modo con-forme alla giurisprudenza della Corte e l’esame dei motivi non offra elementi per confermare o mutare l’orientamento della stessa (n. 1), o che sia manifestamente infondata la censura relativa alla violazione dei principi regolatori del giu-sto processo (n. 2).
mi di rodaggio iniziale, ha definito 576 procedimenti, pari al 2,2%, ma le prospettive future sono migliori, come si dirà successivamente.
Particolarmente significativo appare, in termini statistici ma anche culturali, l’elevato numero di procedimenti definiti con pronunce di annullamento senza rinvio, che nella gran parte dei casi comportano la decisione della causa nel merito, attestato-si a 5.039, pari al 17% del numero complessivo dei procedimenti definiti, e assai prossimo al numero dei procedimenti definiti con annullamento con rinvio, pari a 5.475 ed al 19% dei procedimenti definiti. Si va quindi verso una tendenziale parità tra annullamenti con rinvio e quelli senza rinvio e la serie storica dell’ultimo triennio evidenzia un costante incremento delle definizioni del secondo tipo (passate dal 7-8% negli anni 2000-2002 al 14% nel 2008, al 16% nel 2009 e al 18% nel 2010) rispetto a quelle del primo tipo (diminuite al 19% nel 2010, dopo aver raggiunto picchi del 23% circa negli anni 2000-2003).
Tali dati dimostrano il particolare favore che ha incontrato nella giurisprudenza della Corte l’istituto dell’annullamento senza rinvio con decisione della causa nel me-rito, introdotto dall’art. 66 della legge 26 novembre 1990, n. 353, che ha sostanzial-mente modificato l’art. 384 c.p.c., prevedendo espressamente la possibilità per la Cassazione di decidere la causa nel merito in caso di accoglimento del ricorso per vi-olazione o falsa applicazione di norme di diritto e qualora non siano necessari ulterio-ri accertamenti di fatto, e successivamente ampliato nella sua portata dall’art. 12 del d. lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, che ha esteso la possibilità di decisione nel merito in ogni caso di accoglimento del ricorso. L’istituto, infatti, ha subito dimostrato una cer-ta vitalità, dopo la sua introduzione nell’ordinamento processuale. In particolare il re-lativo potere-dovere è stato esercitato con maggiore frequenza in materie quali quella previdenziale, quella tributaria e quella relativa alle sanzioni amministrative, in cui la continua produzione normativa creava incertezze interpretative, problematiche da jus superveniens o declaratorie di incostituzionalità, con la conseguenza che davanti alla
Corte di cassazione perveniva una controversia chiara nei fatti e necessitante solo di una corretta soluzione in diritto. Da ultimo l’istituto ha trovato estesa applicazione anche nelle controversie in materia di equa riparazione per violazione del termine ra-gionevole di durata del processo, in tutti i casi in cui i fatti sono pacificamente rico-struiti in atti e la pronuncia di merito è strettamente consequenziale al principio di di-ritto enunciato dalla stessa Corte.
Indubbiamente il più ampio utilizzo dell’annullamento senza rinvio con decisione nel merito fornisce un rilevante contributo alla riduzione dei tempi di svolgimento del processo nella fase successiva al giudizio rescindente, che in ipotesi di annullamento con rinvio richiede solitamente una trattazione nel merito che si protrae ancora per anni, con il rischio di un ulteriore giudizio di cassazione. E’ dunque meritorio lo sfor-zo compiuto dai consiglieri della Corte di adottare tecniche decisorie che, senza addi-venire ad una pronuncia di terzo grado di completo riesame della causa, consentono di pervenire ad una decisione nel merito attraverso l’applicazione del principio di di-ritto enunciato in fase rescindente agli accertamenti di fatto risultanti dalla sentenza impugnata. E’ doveroso segnalare, peraltro, che tale sforzo comporta sovente un maggior impegno di elaborazione della decisione finale, che non trova riscontro nei dati statistici e che si risolve in un aggravio di lavoro per ciascun consigliere.
Particolarmente rilevante è anche il numero dei procedimenti definiti con ordi-nanza di natura decisoria (10.267, +1.788 rispetto al 2009), assai prossimo a quello dei giudizi decisi con sentenza (14.883, -3.850 rispetto al 2009), a dimostrazione del pieno e crescente utilizzo da parte della
Corte del rito processuale camerale, finalizza-to proprio ad una più rapida definizione dei processi ed all’incremento del numero delle decisioni. Il dato è confermato anche dall’elevato numero di dichiarazioni d’inammissibilità dei ricorsi (5.015, pari al 17% dei procedimenti definiti, +2% ri-spetto al 2009), nel rispetto di una linea tendenziale di crescita costante dal 2008.
Va infine rilevato che l’incidenza percentuale dei procedimenti definiti, classifi-
cati per materia, dimostra che i settori che hanno maggiormente impegnato la Corte di legittimità sono stati quelli relativi alle controversie tributarie (27%), di lavoro e previdenziali (20,9%). Complessivamente le controversie in questi settori e quelle in materia di equa riparazione per violazione del termine ragionevole di durata dei pro-cessi (11,6%) hanno impegnato la Corte di cassazione nella misura del 59,5%, mentre le pronunce in altri settori del diritto privato, pur rilevanti nella regolamentazione giu-ridica dei rapporti economici anche con riferimento alle problematiche relative al di-ritto dell’impresa, hanno impegnato la Corte in misura percentuale più contenuta (14,5% i procedimenti complessivamente definiti in materia contrattuale, ma solo lo 0,6% ha riguardato i rapporti relativi a banca e borsa e lo 0,2% i rapporti societari). I procedimenti definiti in materia fallimentare hanno raggiunto l’1,9% e quelli riguar-danti la responsabilità civile il 5,3%.
2.2. La sollecita trattazione dei ricorsi più recenti.
L’elevato carico di lavoro gravante sulla Corte di cassazione civile ha richiesto un complessivo ripensamento organizzativo interno, attraverso l’adozione di più ra-pide prassi lavorative, che, senza pregiudicare la qualità delle decisioni, fossero ido-nee a consentire quanto più possibile la sollecita e tempestiva trattazione dei proce-dimenti di più recente iscrizione, a far fronte all’arretrato e a contenere i tempi di trat-tazione dei procedimenti entro termini di durata ragionevoli, nel rispetto del principio costituzionale, stabilito dall’art. 111 della Costituzione.
Nel corso del 2010, proprio in coincidenza con l’entrata in funzione della Sesta sezione civile, la Prima Presidenza di questa Corte, con il fondamentale contributo di idee e di iniziative concrete del Presidente Aggiunto e dei Presidenti titolari delle Se-zioni civili e avvalendosi dell’apporto organizzativo del Segretariato generale, ha predisposto e avviato un programma coordinato, destinato, in primo luogo, a trattare con priorità i procedimenti pendenti, a decorrere da quelli iscritti nel 2009 – ed in par-
ticolare da quelli in cui trovano applicazione le nuove disposizioni sul processo di cassazione dettate dall’art. 47 dalla legge 18 giugno 2009, n. 69, che tra l’altro hanno introdotto, con l’art. 360-bis c.p.c., secondo quanto in precedenza già rilevato, un nuovo filtro per la trattazione dei ricorsi, in sostituzione di quello in precedenza pre-visto dall’art. 366-bis dello stesso codice, abrogato dalla citata legge n. 69 del 2009 – con l’obiettivo di pervenire entro la fine del 2011, attraverso le coordinate attività della Sesta sezione civile e di ciascuna sezione civile ordinaria, all’eliminazione di ta-le pendenza e di quella relativa ad una considerevole parte dei ricorsi iscritti nel 2010, così da assicurare una tempestiva risposta da parte del giudice di legittimità alle nuo-ve questioni di diritto, affrontate dalle prime pronunce dei giudici di merito.
L’attività della Sesta sezione civile, si articola, secondo quanto tabellarmente previsto, in base a schemi corrispondenti all’organizzazione della Struttura unificata, ossia secondo il modulo delle “sottosezioni”, all’interno delle quali sono stati indivi-duati le materie, o i gruppi di materie, e i “consiglieri specialisti” delle materie stesse.
Tutti i ricorsi civili, non di “competenza” delle Sezioni unite, sono automatica-mente assegnati alla Sesta sezione, con delega al suo Presidente o ai coordinatori del-le sottosezioni (su ulteriore delega del primo) della nomina dei relatori e dei provve-dimenti di fissazione delle udienze camerali ex art. 380 bis c.p.c., ovvero della remis-sione alla sezione, con delega all’uopo attribuita al relatore nell’ipotesi alternativa a quella della redazione della relazione a norma del citato art. 380 bis c.p.c.
I fascicoli, una volta smistati dalla cancelleria alle singole sottosezioni, vengono assegnati dal coordinatore della sottosezione, dopo averli divisi per materia, ai “con-siglieri specialisti”, che, all’esito dello spoglio, predispongono la relazione ex art. 380 bis c.p.c. o il provvedimento di rimessione alla sezione semplice.
Il presidente della sottosezione o i coordinatori all’uopo delegati formano i ruoli delle udienze camerali, previo accorpamento dei ricorsi che prospettano questioni i-dentiche e la partecipazione come relatori dei singoli “consiglieri specialisti” che
hanno predisposto la corrispondente relazione ex art. 380-bis c.p.c.
Proprio partendo dalla considerazione che tutti i nuovi procedimenti iscritti, non destinati alle Sezioni unite, dovranno essere trattati dalla Sesta sezione, sono stati previsti il coordinamento tra le attività della Cancelleria centrale civile e quelle della Sesta sezione, nonché la utilizzazione ottimizzata delle potenzialità del nuovo sistema informatico della Corte (SIC), al fine di garantire la non dispersione e il rapido acces-so alle informazioni via via acquisite al fascicolo nel corso dell’iter procedimentale. Si intende così perseguire l’obiettivo di implementare la gestione del documento elet-tronico che viene creato per ogni fascicolo al momento del deposito del ricorso intro-duttivo e della sua iscrizione a ruolo, in modo da registrare nel medesimo tutte le in-formazioni che si acquisiscono nel tempo. In particolare, nelle fasi dello spoglio, le informazioni dovrebbero essere arricchite con la predisposizione di “sommarietti più analitici”, secondo le modalità previste per la formazione del calepino d’udienza e con l’annotazione dell’esistenza di precedenti conformi o difformi, in modo tale che, utilizzando un motore di ricerca e attraverso la consultazione informatica, sia possibi-le individuare questioni seriali da trattare unitariamente e con rapidità, o questioni nuove che consiglino, per esigenze nomofilattiche, una trattazione prioritaria.
Il progetto organizzativo tabellarmente previsto prevede pertanto, come obiettivo strategico, l’incremento della percentuale di definizione dei ricorsi iscritti, da rag-giungere attraverso l’elaborazione di orientamenti interpretativi e soluzioni organiz-zative adeguate.
2.3. La progressiva riduzione dell’arretrato.
Il piano organizzativo predisposto per il miglior funzionamento delle sezioni civi-li mira inoltre ad affrontare con criteri sistematici la trattazione dell’arretrato, attra-verso la previsione all’interno di ciascuna sezione ordinaria di collegi, in numero va-riabile a seconda delle condizioni di copertura dell’organico e di carico di lavoro, che
si dedichino in via esclusiva alla trattazione dei ricorsi di più risalente iscrizione. Al riguardo, fermo restando che ciascuna sezione disporrà di una propria autonomia or-ganizzativa secondo criteri di migliore e più flessibile funzionalità per perseguire l’obiettivo di progressiva riduzione dell’arretrato, sono state individuate due possibili modalità operative di base (non necessariamente alternative tra loro, ma utilizzabili all’occorrenza anche congiuntamente all’interno di ciascun collegio secondo le esi-genze dei casi concreti, sotto il coor

dinamento e la responsabilità di ciascun presiden-te di collegio), una incentrata sulla istituzione del ruolo del giudice (nel senso che ciascun consigliere componente dei collegi destinati alla trattazione dell’arretrato sarà destinatario dell’assegnazione di un certo numero di procedimenti, affidati alla sua responsabilità per quanto riguarda l’esame preliminare e la successiva destinazione a trattazione secondo il rito della camera di consiglio, in caso di inammissibilità o di manifesta fondatezza o infondatezza del ricorso, o in pubblica udienza secondo sca-denze temporali dallo stesso relatore stabilite all’interno dei predeterminati calendari di udienza del 2011), e l’altra affidata al ruolo del collegio, nel senso che l’assegnazione dei fascicoli ai relatori e la fissazione dei ruoli di udienza saranno sta-bilite dal presidente del collegio secondo i consueti e tradizionali criteri. Sul presup-posto che lo spoglio dei fascicoli sia effettuato quanto più possibile secondo modalità diacroniche su tutti gli anni di arretrato, per poter più agevolmente e in maggior nu-mero intercettare questioni seriali o fattispecie analoghe, l’obiettivo perseguito attra-verso gli enunciati criteri è quello di eliminare entro il 2011 l’arretrato più risalente in ciascuna sezione (anni 2005-2006) e di avviare contestualmente la trattazione di quel-lo relativo all’anno 2007.
2.4. L’Ufficio per il procedimento preparatorio delle decisioni dei ricorsi del-le Sezioni unite civili.
Con decreto presidenziale del 23 dicembre 2010, su proposta del Presidente Ag-
giunto e con il parere favorevole del Consiglio Direttivo, è stato istituito l’Ufficio per il procedimento preparatorio delle decisioni dei ricorsi assegnati alle Sezioni unite ci-vili.
Fino ad oggi, infatti, la decisione dei ricorsi che la legge o il Primo Presidente as-segnano alle Sezioni unite civili era preceduta da un procedimento preparatorio, de-stinato ad assolvere funzioni che richiedevano l’intervento di più uffici, anche per la ragione che a molteplici e differenti uffici della Corte erano assegnati i magistrati tra i quali erano distribuiti i diversi compiti.
La parcellizzazione di tali compiti non consentiva di disporre di un continuo qua-dro di assieme delle questioni che il contenzioso veniva proponendo. E’ sorta quindi la necessità di porre la direzione della Corte nelle condizioni di avere da subito la rappresentazione dei problemi che si prospettano e delle loro interazioni, con la costi-tuzione di un Ufficio del procedimento preparatorio della decisione, composto da tre consiglieri, in cui fare confluire i singoli segmenti del procedimento, con esclusione di quello, specificamente pertinente all’Ufficio del Massimario, consistente nella re-dazione delle relazioni accompagnatorie.
I compiti assegnati all’Ufficio per il procedimento preparatorio consisteranno nel-la classificazione dei ricorsi assegnati alle Sezioni unite, nello spoglio orientato alla individuazione dei modi di avvio della trattazione, sulla scorta del rapporto tra motivi di ricorso e precedenti della Corte, nella selezione dei ricorsi per i quali si ritiene ne-cessaria da parte dell’Ufficio del Massimario la relazione di accompagnamento alla discussione, nella formazione e diffusione dei calepini di udienza, nella prima infor-mazione sui contenuti della decisione ed infine nella diffusione delle ordinanze di ri-messione alle Sezioni unite, nell’intento di provocare sulle relative questioni, oltre a riunioni su temi di maggiore interesse, un proficuo dibattito nella dottrina e nel foro.
A quest’ultimo specifico scopo sta per essere attivato un apposito sito, attraverso il quale sarà reso possibile trovare, una volta pubblicate, le ordinanze di rimessione
alle Sezioni unite segnalate da un apposito neretto e da un numero di pubblicazione2.
2.5. Le pronunzie a motivazione semplificata.
Anche le modalità di redazione dei provvedimenti possono costituire uno degli strumenti utili per incrementare il numero dei procedimenti definiti e per ridurre i tempi necessari alla loro definizione.
La motivazione dei provvedimenti giurisdizionali, che da bisogno di razionaliz-zazione del potere, proprio delle concezioni illuministiche della fine del diciottesimo secolo, è progressivamente divenuta oggetto di precise norme giuridiche, anche di rango costituzionale, come il nostro art. 111, sesto comma, assolve, come è noto, non solo alla funzione tecnica endoprocessuale di consentire l’esercizio del diritto di dife-sa e quindi il controllo da parte del giudice dell’impugnazione, ma è necessaria anche per garantire il controllo democratico delle decisioni e al tempo stesso la soggezione del giudice soltanto alla legge e quindi il nucleo sostanziale del principio di indipen-denza 3.
La motivazione, peraltro, se non esaurisce il lavoro del giudice, certamente ne co-stituisce un aspetto importante che impegna risorse intellettuali e materiali. L’esigenza di ridurre all’essenziale l’impiego di tempo dedicato alla stesura delle mo-tivazioni, unitamente all’obiettivo di evitare quello che, in dottrina4, si è chiamato
2 Il sito sta per essere istituito su Internet e le ordinanze saranno raggiungibili attraverso il percorso: internet- www.cortedicassazione.it – servizio novità – giurisprudenza civile – sezioni unite – questioni pendenti. Cliccando sul numero di pubblicazione appare il testo dell’ordinanza. Al momento i testi sono reperibili sul sito Italgiureweb, median-te i seguenti passaggi: cliccare su icona Italgiureweb – cliccare su SNCIV Sentenze civili Corte di cassazione – inserire nome utente e password – inserire nella maschera che si è aperta sulla parte destra del desktop gli estremi del provve-dimento (anno e numero) – cliccare su “in or” e poi su CERCA ( in basso) – cliccare sugli estremi del documento che appaiono sulla destra del desktop. Le ordinanze relative a ricorsi per cui non è stata ancora fissata udienza, alla data del 19/1/2011, erano 14 e riguardano rimessioni per contrasto o particolare importanza.
3 S. Evangelista, Motivazione, voce dell’Enciclopedia del diritto., XXVII, Milano 1977, 158.
4 E. Fabiani , Clausole generali e sindacato della Cassazione, Torino, 2003, p. 724, 769, 774. – 122 –
“l’eccesso di motivazione”, sono stati da tempo avvertiti nel lavoro della Corte di cassazione. Il 10 maggio 1989 il Primo Presidente Antonio Brancaccio sollecitò la ri-flessione di tutti i magistrati della Corte diffondendo un “Appunto sulla motivazione in Cassazione”5 con il quale, dopo avere richiamato la funzione essenziale della mo-tivazione (“E se la sentenza, a differenza della legge, abbisogna della motivazione, ciò non significa che essa debba necessariamente convincere le parti della bontà del-la soluzione prescelta, ma solo che debba esternare le ragioni di tale scelta, affinché questa non appaia frutto di arbitrio.”), indicò alcuni criteri orientativi per la redazio-ne delle decisioni, diretti a realizzare quella concisione che già il legislatore del 1940 prevedeva come requisito formale delle sentenze (art. 132, n. 4 c.p.c.), aggiungendo che era opportuno che il collegio dicesse all’estensore se doveva redigere una moti-vazione stringata o una più diffusa.
Queste autorevoli indicazioni, elaborate in una situazione in cui alla Corte so-pravvenivano annualmente 11.686 ricorsi civili, e l’arretrato ammontava a 39.935 ri-corsi, rimaste inattuate per oltre venti anni, sono divenute pressanti nell’attuale situa-zione che vede la sopravvenienza civile annua ammontare a 30.382 ricorsi con un ar-retrato di 97.653 ricorsi. Si ca

pisce allora perché i magistrati della Corte ai quali è af-fidata la formazione professionale abbiano avvertito l’esigenza di avviare una pro-fonda riflessione sulla forma delle motivazioni delle sentenze, inizialmente limitata al settore civile, nel quale si è formato l’arretrato di maggiori dimensioni, organizzando un “laboratorio” nel quale hanno avuto modo di esprimersi numerosi magistrati della Corte, all’esito del quale sono state redatte delle linee guida condivise dai partecipanti all’iniziativa, basate, tra l’altro, sull’individuazione di una tipologia di decisioni nelle quali, per la natura delle questioni prospettate con il ricorso, non è richiesta alla Corte l’esercizio della funzione di nomofilachia. Infatti la Corte di cassazione è chiamata ad operare all’interno di fenomeni di cambiamento dei tratti fondamentali della giurisdi-
5 Foro italiano 1990, V, 482.

zione, che interessano l’intero mondo civile, caratterizzati dall’esplosione della do-manda di giustizia, dalla “internazionalizzazione della giurisdizione” e dall’accentuazione degli aspetti relativi alla funzione di servizio pubblico reso ai cit-tadini piuttosto che come mera manifestazione della sovranità statuale. Accanto, quindi, a una domanda di giustizia che sollecita la Corte a svolgere la sua funzione di garanzia della prevedibilità delle decisione e quindi dell’eguaglianza dei cittadini da-vanti alla legge, si pone una domanda, quantitativamente prevalente, che ne sollecita la mera funzione decisoria che ponga fine al contenzioso (da qui la previsione della decisione nel merito quando non sono necessari altri accertamenti di fatto, di cui all’art. 384. 2° comma c.p.c.).
Proseguendo su questa linea e tenendo fede all’impegno preso all’atto del mio in-sediamento, con il quale mi sono proposto di affrontare il problema dell’arretrato ci-vile ho sollecitato un mutamento della mentalità dei magistrati addetti a tale settore che dia rilevanza a tutto tondo al fattore tempo nella decisione del processo e ho pre-disposto uno schema di provvedimento avente ad oggetto la previsione della redazio-ne di “motivazioni semplificate” civili (denominazione tratta dall’art. 74 del d.lgs n. 104 del 2010, codice del processo amministrativo), previa deliberazione del collegio, documentata negli atti interni al giudizio ed esternata con apposita aggiunta all’oggetto del giudizio indicato nell’intestazione della sentenza, nei casi in cui il mo-tivo di ricorso prospetti solo un vizio di motivazione o prospetti questioni che siano state in precedenza decise sulla base di orientamenti conformi e rispetto ai quali non siano fatte valere condivisibili esigenze di mutamento. A ciò mi sono indotto non so-lo per venire incontro ad evidenti esigenze di efficienza e di recupero di risorse nel lavoro della Corte, ma anche per dare seguito a precise indicazioni normative, quali l’abolizione della indicazione dello svolgimento del processo e la previsione secondo la quale la motivazione della sentenza civile deve consistere nella “succinta esposi-zione dei fatti rilevanti della causa e delle ragioni della decisione, anche con riferi-
menti a precedenti conformi” (art. 132, 2° comma n. 4 c.p.c. e 118. 1° comma disp. att. c.p.c., come modificati con la legge n. 69 del 2009).
Sul punto è stato chiesto il parere al Consiglio direttivo della Corte di cassazione, alla cui composizione partecipano due esponenti dell’avvocatura, tra cui il Presidente del Consiglio nazionale forense, il quale ovviamente non mancherà di rappresentare l’autorevole opinione del predetto organismo istituzionale degli avvocati.
2.6. Prospettive per l’immediato futuro.
Alla fine di luglio del 2009, con la legge n. 69, in relazione alle impugnazioni di provvedimenti pronunziati a partire dalla sua entrata in vigore ed ai ricorsi diretta-mente proponibili alla Corte dopo quella data, al filtro a quesiti introdotto con il d. lgs. 40 del 2006, mantenuto attivo per l’impugnazione dei provvedimenti pronunziati in precedenza, è stato sostituito il filtro al giudizio di legittimità.
I due sistemi di filtro rispondono, com’è noto, a logiche diverse.
Quello “a quesiti” ha richiesto al ricorrente, come requisito di contenuto-forma, che il motivo di ricorso, perché la Corte avesse il dovere di esaminarlo, contenesse un sunto esauriente degli elementi di fatto e di diritto rilevanti per la decisione sul vizio lamentato. Il nuovo filtro è stato strutturato partendo dal concetto per cui, se il giudi-ce di legittimità si è già espresso sulle questioni che il ricorrente sostiene essere state mal decise, il dovere della Corte di pronunciarsi presuppone in linea di principio che alla sua precedente giurisprudenza siano state mosse critiche convincenti: diversa-mente il ricorso sarà perciò solo dichiarato infondato in modo manifesto.
In questo senso si è detto che con la nuova disciplina il legislatore ha inteso favo-rire un orientarsi del giudice di legittimità verso il modello di una Corte del preceden-te.
In funzione servente del filtro “a quesiti” aveva ed ha dovuto continuare ad ope-rare la già menzionata “struttura”, tuttora attiva, cui hanno fatto capo, sezione per se-
zione della corte, specifici gruppi di consiglieri, che hanno prevalentemente operato selezionando dagli altri i ricorsi a decisione manifesta, tali in prevalenza per il fatto di non avere soddisfatto il requisito di contenuto-forma, che ne costituiva condizione di ammissibilità.
In funzione servente dell’applicazione del nuovo meccanismo di filtro il legisla-tore ha previsto l’istituzione di una nuova apposita sezione, disponendo che vi fossero destinati magistrati appartenenti a tutte le sezioni.
E’ così emersa una ulteriore articolazione organizzativa interna della Corte, a servizio della quale si è reso necessario anzitutto conformare uno specifico sentiero di supporto telematico.
Di fatto, sia perché ricorsi impostati nel rispetto del nuovo sistema hanno preso ad essere presentati in numero apprezzabile solo alla fine del 2009, sia per porre giu-dici e cancellieri nelle condizioni di familiarizzarsi con le condizioni di applicazione del nuovo sistema informatico, adunanze in camera di consiglio organizzate per l’applicazione del nuovo filtro hanno preso a tenersi tra il luglio ed il settembre del 2010. Di qui l’esiguo numero di provvedimenti decisori presi in applicazione del nuovo filtro.
La successione – nel breve periodo di tre anni – di due sistemi di filtro, oltretutto strutturati ed orientati a scopi diversi, è circostanza che giustifica il non semplice as-sorbimento della novità procedurale, dopo che già la prima aveva incontrato non in-differenti difficoltà di ricezione, per resistenze di ordine culturale.
Guardando però alle prospettive dischiuse dalla nuova disciplina, il giudizio che su di essa si deve esprimere è di cauto ottimismo, perché essa apre alla Corte la pos-sibilità di continuare sulla strada, già con successo battuta dalle sezioni unite negli anni trascorsi, ma anche da altre sezioni, come ad esempio la prima in materia falli-mentare, di cogliere, nel magma dei ricorsi che sopravvengono, le questioni che ri-chiedono immediata risposta, anche, quando ne sia il caso, con un uso appropriato,
pur se cauto, del potere di enunciare il principio di diritto nell’interesse della legge.
Una volta che il filtro al giudizio di legittimità lo si consideri ordinato – come de-ve essere – a consentire alla Cassazione di far emergere in tempo ragionevole una in-terpretazione ponderata della norma, in f

unzione di una uniforme applicazione della legge, se ne rivela possibile un impiego, che da un lato consenta appunto di selezio-nare e portare a rapida decisione i ricorsi che pongono questioni di notevole impor-tanza sociale o economica, dall’altro operi come mezzo di applicazione costante dei principi in precedenza enunciati, quando il ricorso non ne offra critica persuasiva.
Funzionale a tale impiego si rivelerà la modalità che in sede di avvio del funzio-namento della nuova apposita sezione è stata prescelta per la sua costituzione: la de-stinazione alla medesima di tutti i consiglieri delle diverse sezioni e l’assegnazione degli affari da scrutinare, tutti quelli non di competenza delle sezioni unite, a consi-glieri esperti nelle diverse materie.
Da un lato, ne risulterà superato un modo d’essere scaturito dalla applicazione del filtro “a quesiti”, che, concentrata nel gruppo dei magistrati addetti alla “struttura”, non aveva favorito la ricezione del metodo da parte della generalità dei consiglieri della Corte. Dall’altro, il contenzioso che sopravviene risulterà ripartito in tre settori: i ricorsi a decisione manifesta, preparata dalla relazione scritta comunicata ai difenso-ri e destinata ad essere pronunciata all’esito del procedimento in camera di consiglio; i ricorsi nei quali vi è interesse alla rapida formazione di una giurisprudenza di orien-tamento, sollecitamente rimessi alla sezione di pertinenza, per la trattazione in pub-blica udienza; i residui ricorsi destinati ad essere decisi secondo l’ordine numerico, ma con gli opportuni accorpamenti per materia, da trattare nell’anno di spettanza, in udienze tendenzialmente monotematiche.
Va altresì considerato che la nuova disciplina del filtro influirà in modo sicura-mente rilevante sugli assetti organizzativi di tutto il settore civile della Corte, atteso che l\’esame preliminare, da parte della Sesta sezione, di pressoché tutti i ricorsi in – 127 –
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materia civile depositati presso la Corte consentirà di conoscere immediatamente il contenzioso che la stessa è chiamata a risolvere e renderà così possibile l’adozione di nuove modalità di gestione del contenzioso stesso che, valorizzando l’esercizio della funzione nomofilattica e i principi dell’effettività della tutela attraverso miglioramenti dell’efficienza, abbandonino il tradizionale criterio della trattazione dei processi se-condo l\’ordine cronologico stabilito dalla data di presentazione del ricorso, e privile-gino l\’accorpamento dei processi sulla base dell\’identità delle questioni giuridiche trattate, delle materie affrontate, e delle relative problematiche; in tal senso importanti aperture sono contenute nel “Parere sul progetto delle tabelle di organizzazione della Corte di Cassazione per il triennio 2009 – 2010” emesso dal Consiglio Direttivo del-la Corte di cassazione in data 21 settembre 2009, nel quale viene esplicitamente e-spresso un orientamento favorevole ad un modello organizzativo che privilegi, nell’ambito della singola sezione, oltre alle udienze seriali, anche le udienze mono-tematiche.
Una recentissima, significativa applicazione delle possibilità offerte dalla nuova organizzazione della Corte è stata effettuata dalla Sezione lavoro della Cassazione.
All’udienza del 1° dicembre 2010 la detta sezione ha deciso numerose cause (ol-tre venti) del 2010 (R.G. 2692/2010 e altre) intercettate dalla Sesta sezione civile e trasmesse alla Sezione lavoro con indicazione della necessità di una trattazione ur-gente6.
La questione oggetto delle decisioni riguarda i criteri di determinazione dell’ammontare dell’indennità di disoccupazione agricola e di altre prestazione tem-poranee in agricoltura, spettante in un determinato periodo. La soluzione adottata fis-sa un criterio preciso per l’individuazione dei parametri di calcolo per la determina-zione delle suddette indennità.
6 La sentenza capofila reca il n. 202 del 2011 (pubblicata il 5 gennaio 2011).
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Si tratta di una questione che secondo le informazioni avute da alcune Corti di merito, è oggetto di numerose cause pendenti dinanzi a giudici di primo grado e di appello. Il pronto intervento della Cassazione con le decisioni sopra citate fornisce, in una materia complessa e caratterizzata da una disciplina normativa suscettibile di in-terpretazioni diverse, un punto di riferimento per i suddetti giudici e per le stesse parti (in particolare per l’Inps, non solo con riferimento alla gestione del contenzioso pen-dente, ma anche in sede di determinazione amministrativa delle suddette indennità), con evidenti effetti deflattivi del contenzioso.
Deve inoltre sottolinearsi che l’art. 360-bis cod. proc. civ., nel prevedere le ipote-si di inammissibilità del ricorso, invita la Corte a un lavoro di selezione e individua-zione dei principi di diritto che, in quanto costituiscono la giurisprudenza della Corte (art. 360-bis n. 1), sono utilizzabili come parametro per la valutazione dell’inammissibilità del ricorso; analogo discorso può valere con riferimento all’ipotesi di inammissibilità di cui all’art. 360-bis n. 2, che, secondo un’autorevole ipotesi interpretativa, implica una delicata operazione di individuazione delle norme processuali che traducono in disciplina positiva principi di rilevanza costituzionale. I risultati di questa attività, la cui rilevanza non può sfuggire atteso che essi attengono al nucleo fondamentale dell\’esercizio della funzione nomofilattica, si risolvono, in so-stanza, nella creazione di una giurisprudenza che abbia la stabilità del diritto vivente e che, di conseguenza, favorisca, rispetto alle parti e ai giudici di merito, quel requisi-to della prevedibilità della decisione che costituisce momento ineliminabile di un’effettiva eguaglianza di tutti davanti alla legge oltre che un elemento fondamenta-le nella strategia di deflazionare il contenzioso civile.
In questa ottica è stato ideato e realizzato, grazie alla stretta collaborazione fra il CED della Cassazione e l’Ufficio del Massimario, un semplice accorgimento infor-matico che consente l\’immediata individuazione, nell’ambito dell’archivio civile di Italgiureweb, di quei principi di diritto che la Corte di cassazione, e, in particolare, la
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Sesta sezione civile nella sua attività di applicazione delle disposizioni di cui all\’art. 360 bis cod. proc. civ., individua come diritto vivente. Attraverso questo sistema è già possibile individuare alcuni principi giurisprudenziali dotati di particolare stabili-tà e affidabilità. E’ facile prevedere che tale quadro è destinato ad arricchirsi ed a completarsi parallelamente allo sviluppo dell’attività della Sesta sezione, consentendo così a tutti gli operatori, e quindi a magistrati e avvocati in primo luogo, di verificare immediatamente se esista una regola consolidata applicabile al caso concreto e rego-larsi di conseguenza. In altre parole è possibile, senza stravolgere la struttura degli ar-chivi di giurisprudenza, e mantenendo tutte le potenzialità del sistema di ricerca of-ferte da Italgiureweb, far emergere, dalla massa dei principi raccolti in detti archivi, un nucleo di principi stabili e affidabili, da considerare diritto vivente, che costitui-scano un orientamento sicuro che tutti i operatori del diritto e realizzino, da un lato, la funzione nomofilattica che l\’ordinamento attribuisce alla Corte, e dall\’altro, quella es-senziale

deflazione del contenzioso che costituisce un indifferibile presupposto per il corretto funzionamento della Corte e per tutto il sistema della giustizia civile.
3. La Cassazione penale.
3.1 Dati statistici.
Il settore penale presenta purtroppo un bilancio negativo tra sopravvenienze e definizioni, essendosi interrotta una serie positiva iniziata nel 2007, che segnò un’inversione di tendenza rispetto agli anni precedenti.
Nel triennio 2007-2009 le definizioni dei procedimenti hanno registrato un an-damento crescente (con un picco nel 2009, con 49.631 ricorsi definiti), superando le sopravvenienze (indice di ricambio sempre superiore al 100%, compreso tra il 105% e il 110%), cosicché la pendenza per la prima volta ha iniziato a decrescere nel 2009 (che si chiude con 25.560 ricorsi).
Il tendenza positiva si è purtroppo interrotta nel 2010: i ricorsi iscritti in Cassa-
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zione hanno continuato a crescere (circa il 9% rispetto al 2009, da 47.000 a 51.137), mentre i ricorsi eliminati sono diminuiti da 49.631 a 47.316 (con una diminuzione del -5%): la pendenza è pertanto nuovamente aumentata rispetto all’anno precedente (+14,9%, attestandosi a 29.381).
La già evidenziata scopertura dei posti in organico e il conseguente minor nume-ro di magistrati addetti al settore penale ha determinato un decremento del numero delle udienze, che da 1041 nel 2009 sono calate a 984 nel 2010.
La flessione dei procedimenti totali definiti e il minor numero di udienze, lungi dal produrre una flessione del lavoro dei magistrati, ha determinato un accresciuto impegno dei singoli consiglieri, che, in quantità ridotta, hanno dovuto far fronte a un’accresciuta quantità di lavoro, aumentando la produttività del 1,6%, passando da 472 a 480 il numero medio di procedimenti eliminati per unità di magistrato.
Per quanto concerne gli esiti delle definizioni, va segnalato che nell’anno appena trascorso si è avuto il 16% di provvedimenti di annullamento (di cui il 9% con rin-vio), il 17% di rigetto, il 64% d’inammissibilità (di cui quasi i 2/3 dichiarati dalla settima sezione, che in complesso ha definito circa il 42 % dei ricorsi). E’ da rimarca-re che il dato complessivo delle inammissibilità – pur variando tra le sezioni – non mostra grandi oscillazioni dal 2001, ciò che palesa un uso del ricorso per cassazione sovente distorto rispetto alla sua funzione propria.
Emblematica di tale distorsione è che una significativa quantità di ricorsi (ben il 17%) è rivolta contro sentenze di patteggiamento (ex art. 444 c.p.p.), che al 87% ri-sultano inammissibili.
Per quanto riguarda la tipologia, i ricorsi definiti nel 2010 sono in prevalenza re-lativi a sentenze di procedimento di cognizione ordinaria (44%), seguiti da quelli re-lativi al patteggiamento ( 24,4%, di cui 6,7 di patteggiamento in appello) e contro mi-sure cautelari personali (9,4%).
La distribuzione per voci di reato è molto varia, ma è prevalente la quantità di ri-
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corsi in materia di “delitti contro il patrimonio, diversi dai furti” (9.106 ricorsi defini-ti) e di stupefacenti (7.783).
La distribuzione per anno d’iscrizione dei ricorsi definiti nel 2010 evidenzia che il 96% di tali ricorsi è stato iscritto negli anni 2009 – 2010. La durata media della de-finizione dei ricorsi si attesta su 7 mesi (207 gg.), il valore più basso registrato a par-tire dal 2001 ed è di molto migliorata rispetto ai 9 mesi del 2008 e ai 10 mesi del 2009. Ciò conferma che nel settore penale la maggior parte dell’arretrato è stata già eliminata negli anni scorsi.
E’ vero che si tratta di un tempo di definizione ben più lungo rispetto ai 4 mesi necessari alla Cour de Cassation. I colleghi francesi, però, si confrontano con circa 8.000 ricorsi all’anno e con un centinaio di avvocati abilitati alle giurisdizioni supe-riori. Da noi i ricorsi penali sono più di 50.000 e gli avvocati iscritti all’albo della cassazione sono più di 40.000!
3.2. I problemi del settore penale
Come emerge dai dati statistici, a differenza del settore civile, la trattazione e la definizione dei ricorsi penali, relativamente soddisfacente per quantità di definizione e celerità di tempi, non richiede rilevanti interventi organizzativi.
Tenuto conto dell’aumentata sopravvenienza di ricorsi, delle scoperture di orga-nico e della prevalente destinazione del 44 consiglieri di nuova nomina al settore ci-vile, è doveroso dare atto ai magistrati che operano nel settore penale dello straordi-nario impegno con cui hanno fatto fronte ad un accresciuto carico di lavoro.
Non è oggettivamente possibile richiedere alla Corte di accrescere il suo sforzo in questo settore né pare realistico attendersi che un simile impegno si prolunghi in-definitamente senza compromettere la qualità dell’elaborazione giurisdizionale.
E’ perciò assolutamente indifferibile l’adozione di provvedimenti volti a ridurre l’afflusso di procedimenti in Cassazione, che non può essere trasformata da Corte
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Suprema di legittimità, garante dei diritti, della legalità e dell’uniforme applicazione del diritto, in un “sentenzificio” di scadente qualità. Lo richiede il decoro della Corte come istituzione, la dignità professionale dei magistrati e degli avvocati che vi opera-no e, soprattutto, il rispetto dei diritti dei cittadini che rivolgono al massimo organo della giurisdizione domande di giustizia.
Parte considerevole dell’attività svolta, come si è visto, è stato definita dalla Set-tima sezione, a cui deve darsi atto del rilevantissimo apporto dato al risultato globale del settore penale, attraverso moduli procedimentali snelli, ma comunque rispettosi delle esigenze del contraddittorio.
Sarebbe augurabile che, attraverso appropriati interventi normativi, una simile procedura accelerata possa essere applicata ad altre ipotesi, in cui l’esigenza di un contraddittorio in udienza pubblica appare del tutto superflua: ad esempio, in caso di un ricorso dell’imputato che prima facie appaia manifestamente fondato, in assenza di interessi di parti contrapposte. Ricorrendo questa evenienza, anzi, sembra che non vi siano ostacoli a privilegiare un modulo decisorio de plano, una volta acquisita la requisitoria favorevole all’accoglimento del ricorso da parte del procuratore generale.
Come previsto da un d.d.l. governativo all’esame del Senato7 è opportuno sem-plificare, nel settore penale, la procedura destinata a concludersi con la inammissibili-tà del ricorso derivante da cause formali (per esempio:, ricorsi fuori termine, privi dei motivi, non sottoscritti da avvocato cassazionista, sopravvenienza di rinuncia), intro-ducendo, anche in questo caso, meccanismi decisori de plano; fermo restando che, in caso di eventuale errore di valutazione su una simile causa di inammissibilità, è sem-pre possibile l’attivazione da parte dell’interessato del ricorso straordinario ex art. 625-bis cod. proc. pen.
Il ricorso per cassazione richiede uno specifico livello di tecnica e cultura pro-
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fessionale, tanto che esso può essere proposto da avvocati che siano iscritti nell’albo speciale8. Va quindi visto con favore il d.d.l. di iniziativa parlamentare, approvato dal Senato il 23 novembre 2010, il cui art. 21 stabilisce regole più sev

ere per l’accesso all’albo dei cassazionisti: l’elevata percentuale di ricorsi penali inammissibili è di per sé indice di una inadeguata professionalità in questo settore.
Questa ragione sollecita una riflessione critica, in linea con autorevoli voci della dottrina, sulla previsione normativa della legittimazione dell’imputato a proporre ri-corso di persona. In tal senso è stato anche di recente proposta una riforma legislativa di iniziativa governativa9. L’evidenza statistica mostra del resto come la quasi totalità di simili ricorsi, che rappresentano una rilevante percentuale del totale (stimabile at-torno al 20 per cento), vengono dichiarati inammissibili o comunque rigettati10.
A prescindere da interventi normativi, il principio della ragionevole durata del processo proietta nuova luce sui casi in cui la sentenza impugnata possa essere annul-lata senza rinvio. L’art. 620, comma 1, lett. l), cod. proc. pen. impone alla Corte di cassazione di valutare quando il rinvio sia “superfluo”, come nel caso in cui sia pos-sibile procedere direttamente alla determinazione della pena o alla determinazione degli altri provvedimenti necessari. Avendo riguardo a tale disposizione, occorre chiedersi quale sia il costo sostenibile in termini di durata del processo e di risorse impiegate dallo Stato quando, ad esempio, per la determinazione di una porzione di pena a titolo di aumento della continuazione o di diminuzione per un’attenuante, si
8 Il possesso di particolari requisiti attitudinali per la difesa davanti alla Corte di cassazione è valorizzato, a garan-zia di una efficiente difesa tecnica, dalla giurisprudenza costituzionale (v., tra le altre, Corte cost., sent. n. 173 del 1996).
9 Dopo il d.d.l. n. 2664-C della XV Legislatura (art. 18) vedi ora il citato d.d.l. n. 1440-S della presente Legislatu-ra (art. 8): è il caso di sottolineare che devono ritenersi infondate le preoccupazioni di contrasto con la CEDU espresse, in sede di parere a quest’ultimo d.d.l., dal Consiglio Superiore della Magistratura.
10 E’ bene rimarcare che un non marginale disincentivo alla proposizione di ricorsi manifestamente infondati è rappresentato dalla condanna del ricorrente al pagamento di una sanzione pecuniaria a favore della cassa delle ammen-de; sanzione però che è ragguagliata a valori fermi ai livelli stabiliti nel lontano anno 1988.
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disponga il rinvio del processo dinanzi, in ipotesi, a una corte di assise di appello. In tali e simili casi non sembra arbitrario sostenere che, sulla base degli stessi criteri resi espliciti o comunque ricavabili dalla sentenza impugnata, possa essere la stessa Corte di cassazione a emendarla, ponendo fine definitivamente, senza ulteriori aggravi di tempo e di costi materiali e umani, alla vicenda processuale; il tutto, del resto, in as-sonanza con la già citata previsione dell’art. 384, comma secondo, cod. proc. civ., se-condo cui la Corte, quando accoglie il ricorso, “decide la causa nel merito qualora non siano necessari ulteriori accertamenti di fatto”.
In tema di necessario miglioramento della qualità della giurisprudenza penale al fine di un pieno assolvimento della funzione di nomofilachia, la massima attenzione va dedicata all’esistenza di troppi contrasti giurisprudenziali in materia processuale, non prontamente risolti, che, oltre a determinare negli operatori incertezze interpreta-tive e, quindi, proliferazione di iniziative giudiziarie, spesso producono divergenti decisioni e annullamenti con rinvio da parte della Corte di cassazione, con conse-guente protrazione del momento di formazione del giudicato.
A differenza di quanto avviene nel settore civile, ove sono individuate specifiche competenze tabellari per i ricorsi aventi ad oggetto esclusivamente o prevalentemente questioni processuali, le sezioni penali hanno una competenza interna che si basa es-senzialmente sul criterio della tipologia delle fattispecie criminose; scelta sostanzial-mente obbligata, dato che la gran parte dei ricorsi investe di massima aspetti di dirit-to processuale e involge quasi sempre anche problemi di diritto sostanziale. Ne con-segue che una competenza indifferenziata tra tutte le sezioni nella materia processua-le non favorisce la formazione unitaria di orientamenti giurisprudenziali.
Ritengo auspicabile, dunque, che i ricorsi aventi ad oggetto questioni controver-se di diritto processuale, specialmente se già oggetto di segnalazione da parte dell’Ufficio del Massimario e del ruolo, siano dalle sezioni rimesse alle Sezioni unite. E’ necessario, inoltre, che già in sede di spoglio, i ricorsi che presentano simili que-
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stioni siano segnalati alla Prima Presidenza per l’assegnazione all’organo che riassu-me al massimo livello la funzione di nomofilachia attribuita alla Corte di cassazione dall’art. 65 ord. giud.11.
4. Gli interventi organizzativi
Come si è visto nelle pagine precedenti, nella progressiva realizzazione di un complessivo programma di direzione della Corte si è cercato di utilizzare tutti i pos-sibili piani di intervento: quello normativo (con riferimento dell’attuazione della leg-ge n. 69/2009 e all’istituzione della Sesta sezione civile); quello culturale-interpretativo (cd. motivazione semplificata e più attivo ruolo delle Sezioni Unite pe-nali); quello organizzativo (in relazione all’esigenza di ridurre l’enorme arretrato di ricorsi civili).
In coerenza con il contributo che ho tentato di fornire ad un piano generale per perseguire una ragionevole durata dei processi, per la Corte di Cassazione, cioè l’ufficio che ho l’onore, ma soprattutto la responsabilità di dirigere, una più efficace ed efficiente organizzazione è l’obiettivo prioritario che mi sono prefisso e che ha costituito l’oggetto dei miei primi interventi subito dopo l’insediamento nell’incarico.
In presenza di un’enorme carenza di magistrati (al luglio scorso era scoperto 1/3 dell’organico dei magistrati!) e di un enorme carico di lavoro che non ha uguali in Europa, ho la piena consapevolezza di non dovere né potere gravare ulteriormente su impegno e disponibilità individuale dei consiglieri.
Come ho già rilevato, ai magistrati di questa Corte non si possono chiedere ulte-riori personali sacrifici, accettabili per un periodo delimitato in relazione emergenze contingenti, insostenibili a tempo indeterminato con riferimento a difficoltà strutturali
11 Sull’affermazione che il mutamento di giurisprudenza intervenuto con una decisione delle Sezioni unite integra un nuovo elemento di diritto idoneo a rendere superabili, in determinati casi, le preclusioni processuali, si veda l’impo9rtante decisione delle Sez. un. pen. n. 18288 del 21 gennaio 2010.
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derivanti dall’incessante flusso di sopravvenienze.
Anche noi possiamo ambire ai risultati che, con giusta soddisfazione Vincent Lamanda, Primo Presidente della Cour de Cassation, ha sottolineato nel discorso i-naugurale tenuto il 7 gennaio scorso (tempi medi per la definizione dei ricorsi: un an-no in materia civile, quattro mesi in materia penale). Ma perché questa ambizione non rimanga pura illusione, delle risorse personali e materiali della Corte francese, do-vremmo almeno avere quel meraviglioso sistema di informatizzazione che lì è stato realizzato.
Alla stessa maniera, per conseguire i risultati qualitativi del Tribunál Supré-mo, è stato necessario alla giovane e attiva democrazia spagnola dotare ogni consi-gliere di cassazione di un uff

icio del giudice, con assistenti idonei a coadiuvare il consigliere nel lavoro di ricerca e di preparazione.
Si potrebbe anche nutrire il più modesto intento di ottenere una maggiore pre-senza dei consiglieri in questo palazzo di giustizia (come vorrebbe il Ministro Brunet-ta), ma dovremmo avere la possibilità di assegnare ad ogni consigliere una stanza, mentre oggi non siamo nelle condizioni di assegnare neppure una scrivania a cui la-vorare e siamo costretti fare sostare gli avvocati nei corridoi anche durante le più fredde mattinate invernali.
Il nostro obiettivo – considerati il carico e i ritmi attuali – non è quello di richie-dere ai magistrati della Corte di lavorare di più, ma di lavorare meglio.
Una più alta produttività della Corte nel suo complesso è possibile realizzando migliori condizioni generali in cui operare, attraverso:

una più funzionale organizzazione;

una più moderna ed efficiente complessiva informatizzazione dei servizi;

una più elevata motivazione e qualificazione del personale amministrativo e tecnico che, a tal fine, non può esser mortificato, ma va sostenuto con incenti-vi concreti finalizzati alla migliore qualificazione professionale.
Per far fronte al crescente carico di lavoro, che fa della Corte Suprema italiana un unicum nel panorama internazionale, occorre, come ho già detto, agire a vari livel-li (normativo, culturale, organizzativo).
Vogliamo affrontare con visione unitaria i temi legati alla distribuzione del lavo-ro e alla complessiva organizzazione della Corte e delle sue tredici sezioni (sette pe-nali e sei civili) nella prospettiva di recuperare la ragionevole durata del processo e di garantire una qualità della risposta giudiziaria adeguata ai compiti di una Corte su-prema.
Come si è visto dall’analisi dei dati statistici, i risultati dello sforzo fatto in que-sti anni non appaiono uniformi, risultando ancora differenze significative fra settore penale e settore civile e fra le diverse sezioni della Corte.
Per ottenere uno strumento di compiuta conoscenza e di più adeguato intervento, abbiamo potenziato le attribuzioni e la struttura del Segretariato generale, caratteriz-zandolo come “centro di coordinamento dell’organizzazione” complessiva della Cor-te. Muovendo dalla quantità e qualità della domanda di giustizia, questo Ufficio potrà e dovrà offrire alla Presidenza un adeguato supporto ai momenti decisionali mediante l’individuazione dei bisogni dei diversi settori e di tutte le soluzioni volte alla piena utilizzazione delle risorse disponibili nel rispetto dell’esigenza di qualità della rispo-sta giudiziaria. Ciò consentirà di valorizzare le attività delle strutture e dei progetti organizzativi già in atto e di individuare nuovi strumenti d’intervento, curando che le singole iniziative operino all’interno di un progetto unitario rispettoso delle linee or-ganizzative adottate dalla Presidenza.
In stretto collegamento con tali obiettivi, un’attenzione speciale stiamo prestando alla migliore utilizzazione degli strumenti tecnologici e delle possibilità di migliora-mento organizzativo che essi offrono se collocati all’interno di un progetto comples-sivo di qualità del lavoro. Il progetto in corso per la realizzazione della “scrivania del giudice”, le potenzialità dei sistemi di comunicazione certificati e, più in generale, i
collegamenti tra la Corte e i progetti organizzativi a livello nazionale dovranno essere oggetto di specifico coordinamento in modo da ottenere i migliori risultati possibili.
Ma il ruolo fondamentale, in qualunque tipo di organizzazione, resta affidato ai presidenti titolari delle 13 sezioni della Corte, sui quali incombono i compiti di rile-vare i contrasti giurisprudenziali e, soprattutto, d’individuazione moduli organizzativi idonei a favorire la razionale formazione dei ruoli di udienza e l’accorpamento in una stessa udienza di ricorsi collegati o tematici. Ai presidenti titolari di sezione devono peraltro offrire un apporto propositivo gli altri presidenti di sezione.
L’art. 47-quater dell’Ordinamento giudiziario, nell’individuare le attribuzioni dei presidenti di sezione di tribunali, delinea compiti che rispondono a criteri genera-li di buona organizzazione, e perciò estensibili anche all’attività delle sezioni di que-sta Corte.
In particolare, va sottolineata, oltre alla funzione di collaborazione dei presidenti di sezione con il presidente titolare nell’attività di direzione della sezione, il compito di curare lo scambio di informazioni sulle esperienze giurisprudenziali all’interno della sezione. La pluralità di presidenti di sezione (e in ogni caso la presenza di con-siglieri anziani che presiedono i collegi) consente di affidare ad essi il coordinamento e la sovra ordinazione di settori specializzati all’interno delle materie di competenza sezionale, per modo che sia resa più agevole l’attività di conoscenza di tutte le sen-tenze emesse nei rispettivi settori e l’indicato scambio di informazioni, anche tramite periodiche riunioni tra tutti i consiglieri aventi ad oggetto sia problemi organizzativi sia la l’esame e lo studio di questioni di diritto nuove o sulle quali siano sorti contra-sti giurisprudenziali interni.
Avendo di vista le medesime finalità, sarà cura della Prima presidenza convoca-re riunioni intersezionali, con la partecipazione dei presidenti titolari delle singole se-zioni e, se del caso, di altri magistrati della Corte.
5. Il C.E.D. e l’attività informatica.
La gestione informatica dei servizi della Corte è garantita da una struttura centra-lizzata, il CED, che opera sia sul versante dell’informatica giudiziaria, a servizio dei magistrati, delle cancellerie e degli utenti, sia sul versante dell’informatica giuridica. Tale struttura opera in stretto coordinamento con la competente Direzione generale del Ministero ed è supportata dal lavoro di due magistrati referenti nominati dal C.S.M..
La rilevanza del CED per la funzionalità complessiva della giurisdizione è stata particolarmente sottolineata nella deliberazione adottata dal C.S.M. il 28 luglio 2010, con cui ha richiamato l’essenziale partecipazione del Primo Presidente e del Consi-glio direttivo della Corte di Cassazione a tutte le decisioni significative riguardanti ta-le struttura.
La Presidenza si è assunta l’impegno di procedere a nuova valutazione delle scelte organizzative precedentemente operate al fine per “recuperare” il ruolo centrale e trainante del CED nell’informatica giuridica, svolto nell’interesse della giurisdizio-ne in oltre 40 anni di funzionamento, anche al fine di valorizzarne la funzione svolta nel più ampio settore dell’informatica giudiziaria.
Il bilancio dell’attività svolta nel corso dell’anno 2010 può essere valutato posi-tivamente, tenendo in considerazione le crescenti limitazioni delle risorse a disposi-zione.
5.1. L’informatica giudiziaria.
Per il supporto fornito alla Corte e agli utenti dei servizi giudiziari è possibile mettere in evidenza alcuni aspetti principali.
Particolare attenzione è stata prestata all’attività del settore civile in considera-zione delle pendenze che esso conosce e dell’entrata in vigore della legge 18 giugno 2009, n.69, che ha introdotto una procedura di “filtro” ed esige che le modalità di la-
voro e quelle di diffusione delle decisioni rispondano quanto più possibile alla fun-zione nomofilattica della Corte. In particolare:

sono stati introdotti adeguamenti ai programmi informatici esi

sten-ti (il c.d. SIC) che ne accrescono la versatilità e che supportano le modalità di lavoro della Sesta sezione civile, soprattutto per quanto riguarda la facilità di consultazione delle relazioni e la possibilità di procedere agli opportuni accor-pamenti dei ricorsi;

analoghi interventi sono stati effettuati al fine di rendere più age-vole ed efficace l’attività di “spoglio” dei ricorsi, evitando la dispersione delle informazioni acquisite e agevolando la loro utilizzazione, mediante ricerche incrociate attraverso parole chiave e altri elementi identificativi, da parte dei giudici e delle cancellerie;

sono state introdotte innovazioni che consentiranno, in raccordo con i programmi nazionali, di sviluppare anche in Cassazione il processo civi-le telematico, garantendo sia il deposito telematico dei ricorsi e della docu-mentazione sia la successiva gestione elettronica dell’intero procedimento;

è stato dato avvio alla realizzazione della c.d. “scrivania del magi-strato”, che consentirà ai giudici di valorizzare al massimo le informazioni ac-quisite in sede di spoglio dei fascicoli, ad esempio identificando le questioni nuove, e di ottenere supporto per una più agevole redazione dei provvedimen-ti.
Merita di ricordare che i servizi informatici offrono un contributo importante alla funzione nomofilattica della Corte anche attraverso gli strumenti che agevolano la tempestiva conoscenza delle decisioni adottate. Ciò vale sia per la procedura che con-sente ai difensori di conoscere in tempo reale lo stato e l’esito dei ricorsi mediante l’utilizzo di smart card sia per gli strumenti on line, rappresentati dalla pagina web della Corte – e il relativo servizio “Novità” da tutti consultabile – e dal sistema Italgiu-
reweb, al quale sono iscritti oltre 32.000 utenti e che costituisce da decenni un servi-zio internazionalmente conosciuto per la sua qualità .
5.2. Il servizio Italgiureweb.
Il servizio ha, purtroppo, risentito nel recente passato della contrazione delle ri-sorse disponibili ed è stato necessario concentrare le attività di manutenzione e di ag-giornamento su un numero ristretto di archivi. Ciò nonostante, il servizio ha potuto mettere a disposizione degli utenti due nuove banche dati importanti, l’una concer-nente la giurisprudenza disciplinare del C.S.M., l’altra concernente la giurisprudenza e la documentazione della CEDU; quest’ultima, frutto di un progetto che ha visto coinvolti la Camera dei Deputati e il Senato della Repubblica, la Corte Costituziona-le, la Presidenza del Consiglio dei Ministri. Infine, grazie ad uno sforzo di razionaliz-zazione delle risorse e del lavoro, sono stati avviati progetti di miglioramento e di ri-lancio del servizio Italgiureweb che dovrebbero condurre alla riattivazione di alcuni archivi, primi fra tutti quelli che mettono a disposizione degli utenti la giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea e la normativa comunitaria.
5.3. Le difficoltà del CED della Corte e la loro soluzione.
Non è possibile concludere la pur sintetica illustrazione dei servizi informatici della Corte, la cui importanza decisiva per l’efficienza e l’efficacia del lavoro dell’intero ufficio è stata appena sottolineata, senza ricordare che nel corso dell’anno 2010 il CED ha conosciuto momenti di rilevanti difficoltà nell’erogazione dei propri servizi all’utenza esterna ed interna. Tali difficoltà sono state accolte con grande pre-occupazione da parte della magistratura tutta e hanno dato origine ad un dibattito che ha coinvolto anche la validità delle modifiche apportate alla struttura dello stesso CED con decreti del primo Presidente risalenti all’anno 2009.
A tale proposito va sottolineato che con la citata deliberazione del 28 luglio 2010
il C.S.M., investito del problema dai magistrati referenti per l’informatica e da una deliberazione del Consiglio direttivo della Corte, ebbe ad esprimere valutazioni criti-che sul mutato assetto del CED e sulla sua rispondenza al regime giuridico che ne fis-sa obiettivi e caratteristiche, nonché alle esigenze di funzionalità.
Preso atto di questa realtà, nello scorso mese di ottobre ho ritenuto inopportuno intervenire con decreti modificativi dell’assetto del Centro in assenza di una valuta-zione attenta delle cause dei disservizi e delle possibili soluzioni; ho perciò istituito un gruppo di lavoro incaricato di effettuare una ricostruzione della disciplina rilevan-te e un’analisi delle problematiche organizzative e funzionali al fine di giungere a de-terminare i possibili interventi migliorativi. A far parte del Gruppo sono stati chiama-ti, oltre ai magistrati che compongono il CED e ai magistrati referenti per l’informatica di nomina consiliare, anche alcuni rappresentanti del Ministero della giustizia indicati da tale istituzione, nonché rappresentanti del personale amministra-tivo della Corte, che hanno operato sotto il coordinamento di un consigliere della Corte da me delegato.
La partecipazione ai lavori di tutte le componenti giudiziarie, amministrative e tecniche interessate all’attività del CED ha garantito la pluralità degli approcci e la completezza dell’analisi, consentendo anche di ampliare i campi oggetto di osserva-zione.
Il Gruppo di lavoro ha concluso nei giorni scorsi la propria attività e consegnato una relazione che suggerisce alcune linee di intervento che possono così sintetizzarsi:
a) il mantenimento di un forte collegamento fra informatica giuridica e informa-tica giudiziaria;
b) la ricostituzione dell’unitarietà del Centro sotto il coordinamento del direttore;
c) la chiara definizione delle competenze giurisdizionali e amministrative;
d) la valorizzazione delle professionalità tecniche anche mediante l’istituzione di settori specifici e della relativa direzione;
e) il potenziamento dei momenti collegiali di individuazione degli obiettivi e di indirizzo dei progetti;
f) il rafforzamento del collegamento tra il CED e la competente Direzione gene-rale del Ministero della Giustizia;
g) il rilancio del servizio Italgiureweb nelle sue articolazioni e la possibilità di incrementare i finanziamenti ad esso destinati.
Condivido le linee guida proposte nella relazione e saranno predisposte, nelle prossime settimane, le bozze dei provvedimenti riorganizzativi richiesti dal C.S.M., bozze da sottoporre alla valutazione di tutte le componenti interessate all’attività del C.E.D.

CONCLUSIONI
Questa relazione sull’amministrazione della giustizia, che apre il nuovo anno giudiziario, cade in una fase particolarmente delicata e critica della vita del nostro Paese, in cui sembrano prevalere contrapposizioni, frammentazioni e interessi setto-riali, mentre è necessario fortificare il senso della dimensione comune e della coesio-ne collettiva, come presupposto per uscire dalle difficoltà che vive il Paese.
Come ho premesso all’inizio, ho tentato di offrire – a nome dei magistrati di que-sta Corte – un contributo di razionalità da immettere nel dibattito pubblico e istitu-zionale, un contributo che nasce dall’esperienza di un lungo esercizio di funzioni giu-risdizionali, esperienza che identifica nell’effettività del principio di legalità, inteso in tutta la sua ricchezza costituzionale, la precondizione della libertà e del rilancio eco-nomico, sociale e morale del paese.
Per quanto ci compete, assicuriamo a Lei, signor Presidente, e all’intera comunità nazionale che i magistrati continueranno a compiere il loro compito con serenità e con impegno, fedeli al modello di giudice che efficacemente un nostro filosofo del di-ritto ha delineato come proprio dello Stato democratico costituzionale: «un giudice capace, per la sua indipendenza, di assolvere un cittadino in mancanza di prove della sua colpevolezza, anche quando il sovrano o la pubblica opinione ne chiedono la condanna, e di condannarlo in presenza di prove anche quando i medesimi poteri ne vorrebbero l\’assoluzione»12.
12 L. Ferrajoli, Principia juris – Teoria del diritto e della democrazia, Laterza, 2007, vol. II, pag. 214.
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