martedì, Maggio 14, 2024
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MOBBING: Manca la prova persecutoria del datore di lavoro

        

CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 22 ottobre 2013, n.
23949

Lavoro – Estinzione del rapporto – Mobbing – Dequalificazione –
Mancanza della prova del comportamento persecutorio del datore di lavoro

Svolgimento del processo

La Corte d’appello di Roma, confermando la sentenza
di primo grado, ha rigettato la domanda di M.G.P., diretta ad ottenere
l’accertamento che gli atti e i comportamenti adottati nei suoi confronti dal
Ministero per i beni culturali e ambientali – dopo che il Tar Lazio aveva
annullato gli atti con i quali la ricorrente era stata trasferita dall’Ufficio
centrale per i beni ambientali e paesaggistici al Gabinetto del Ministro per
esigenze del Servizio tecnico e poi all’Istituto centrale per il catalogo e la
documentazione – avevano avuto lo scopo di eludere gli effetti della sopra
citata sentenza del giudice amministrativo, assegnandola ad incarichi avulsi
dalle competenze proprie della sua qualifica (architetto di nono livello) e
caratterizzandosi per un intento persecutorio e punitivo nei suoi confronti. La
domanda della ricorrente era diretta ad ottenere, inoltre, l’accertamento del
proprio diritto allo svolgimento effettivo delle competenze ministeriali in
materia di tutela ambientale e paesaggistica, il riconoscimento di una posizione
funzionale adeguata alla sua qualifica e la condanna dell’Amministrazione (e dei
dirigenti preposti all’ufficio) al risarcimento dei danni conseguenti alla
perdita dei compensi previsti nel contratto e alla perdita delle opportunità
professionali, nonché al risarcimento del danno biologico e del danno
all’immagine professionale. Alla statuizione di rigetto la Corte territoriale è
pervenuta osservando, in sintesi, che le vicende intervenute nel corso del
rapporto non evidenziavano l’esistenza di un intento persecutorio da parte
dell’Amministrazione, ma piuttosto l’esistenza di una situazione di conflitto
tra le parti, determinata anche da una diversa interpretazione dei diritti e
degli obblighi derivanti dai provvedimenti del giudice amministrativo.

Avverso tale decisione propone ricorso per cassazione
M.G.P., affidandosi a due motivi di ricorso cui resistono con controricorso il
Ministero per i beni e le attività culturali e i dirigenti chiamati in giudizio
dalla ricorrente.

La P. ha depositato memoria ai sensi dell’art. 378
c.p.c. e, all’esito della discussione, osservazioni scritte sulle conclusioni
del pubblico ministero.

 

Motivi della decisione

 

1- Con il primo motivo si deduce la nullità della
sentenza impugnata per violazione dell’art. 112 c.p.c., chiedendo a questa Corte
di stabilire se “proposta domanda di accertamento dell’esistenza di un
comportamento di mobbing e dequalificazione con conseguente richiesta (anche) di
risarcimento dei relativi danni” e “allegati e chiesti di provare, alla prima
udienza, a sostegno dell’esistenza e continuità di tali comportamenti e anche ai
fini della determinazione della misura del danno, fatti accaduti successivamente
al deposito del ricorso, debba ritenersi nulla per violazione dell’art. 112
c.p.c. la sentenza che abbia pronunciato solo sui fatti precedenti il deposito
del ricorso e non su quelli sopra indicati”.

2- Con il secondo motivo si deduce la nullità della
sentenza e del procedimento per violazione dell’art. 420, quinto comma, c.p.c.,
anche in relazione ai principi di economia processuale, ragionevole durata del
giudizio e divieto di frazionare in più processi una pretesa fondata su un
comportamento lesivo, sostanzialmente unitario, che si protrae nel tempo,
chiedendo a questa Corte di stabilire se “proposta domanda per l’accertamento di
un comportamento di dequalificazione e mobbing, ai sensi del quinto comma
dell’art. 420 c.p.c., tra i mezzi di prova “che le parti non abbiano potuto
proporre prima” e che, pertanto, il giudice alla prima udienza deve ammettere,
rientrino anche quelli relativi a fatti avvenuti successivamente al deposito del
ricorso, purché rientranti nella causa petendi e nel petitum della domanda”.

3- Il primo motivo è infondato, posto che la Corte
territoriale non ha omesso di prendere in esame un capo della domanda o una
questione di merito prospettata dalla parte, ma, al contrario, ritenendo che la
proposizione di una domanda intesa ad ottenere la liquidazione del danno con
riguardo a fatti verificatisi in epoca successiva al deposito del ricorso
introduttivo venisse ad integrare una causa petendi diversa da quella
originariamente dedotta, ha adottato una decisione che si pone esplicitamente in
contrasto con la pretesa fatta valere dalla parte, comportandone il rigetto, con
conseguente esclusione della possibilità di configurare, nel caso in esame, il
vizio di omessa pronuncia.

4- Anche il secondo motivo deve ritenersi
infondato.

Questa Corte ha già precisato (cfr. ex plurimis Cass.
n. 10045/96) che la domanda giudiziale di risarcimento del danno si fonda su di
una causa petendi identificabile in uno specifico accadimento lesivo
spazialmente e temporalmente determinato, sicché, una volta che essa sia stata
proposta in relazione a determinati fatti, il riferimento all’eventualità che
nelle more del giudizio abbiano a verificarsi nuovi accadimenti (siano pur essi
omogenei rispetto ai precedenti), suscettibili di ledere ancora la situazione
giuridica protetta e di cagionare cosi una ulteriore ragione di danni, non
introduce alcuna valida domanda, né, una volta che tali fatti si siano
verificati, può legittimare alla sua proposizione nel corso del giudizio. Ne
deriva che la richiesta di ristoro del danno per fatti sopravvenuti in corso di
causa comporta un non consentito mutamento della primitiva domanda, con la
conseguente inammissibilità della stessa anche in appello, senza che, in
contrario, possa argomentarsi dalla deroga al divieto di domande nuove in
appello con riferimento ai danni sofferti dopo la sentenza impugnata, ai sensi
dell’art. 345, primo comma, c.p.c., trovando tale norma applicazione solo quando
nel giudizio di primo grado sia stato richiesto il risarcimento del danno
maturato in precedenza, e giustificandosi tale deroga solo nel presupposto che
si incrementino le conseguenze dannose del medesimo fatto generatore posto a
fondamento della pretesa, senza che gli ulteriori danni siano ricollegabili
anche a fatti nuovi e diversi.

Né, per giungere a diverse conclusioni, potrebbe
valere il richiamo al principio espresso in alcune decisioni di questa Corte
(cfr. ex plurimis Cass. n. 17101/2009, citata nella memoria ex art. 378 c.p.c.
di parte ricorrente) secondo cui nel rito del lavoro, proposta una domanda
risarcitoria ex art. 414 c.p.c., la richiesta del risarcimento degli ulteriori
danni maturati nel corso del processo e di una somma maggiore rispetto a quella
inizialmente indicata in relazione ad un più ampio periodo temporale maturato
nel corso dello svolgimento del giudizio, non comporta alcuna immutazione dei
fatti posti a fondamento della domanda, non introducendo alcun nuovo tema di
indagine sul quale la controparte non abbia potuto svolgere le proprie difese,
né un ampliamento del tema sottoposto all’indagine del giudice, versandosi in
tema di conseguenze risarcitorie dipendenti dall’unico fatto dedotto con il
ricorso introduttivo e maturate in corso di causa, e non già di eventi provocati
da circostanze diverse successive alla proposizione della domanda e sulle quali
sarebbe necessaria un’ulteriore indagine in punto di fatto.

E’ evidente, infatti, che anche nelle ipotesi prese
in esame nelle suddette pronunce viene sì ammessa la risarcibilità degli
“ulteriori danni maturati nel corso del processo”, ma viene anche sottolineato
come sia pur sempre necessario, a questi fini, che si tratti di “conseguenze
risarcitorie dipendenti dall’unico fatto dedotto con il ricorso introduttivo”, e
non già di “eventi provocati da circostanze diverse successive alla proposizione
della domanda”, sulle quali si renda necessaria un’ulteriore indagine in punto
di fatto.

5 – Nella specie, come è stato rilevato dai giudici
di merito, le ulteriori conseguenze dannose che si assumono verificate dopo il
deposito del ricorso introduttivo sarebbero, per l’appunto, dipendenti da
ulteriori sviluppi della vicenda lavorativa – consistenti, fra l’altro,
nell’avvio di un procedimento disciplinare in relazione alla mancata esecuzione
di un incarico di lavoro – e cosi da eventi successivi alla proposizione della
domanda e sui quali sarebbe stata senz’altro necessaria un’ulteriore indagine
istruttoria (come, peraltro, richiesto anche dalla ricorrente nel corso del
giudizio di primo grado). Ne consegue la correttezza della decisione della Corte
d’appello, che ha confermato la statuizione con cui il primo giudice ha ritenuto
di non dare ingresso alle richieste proposte dalla ricorrente con riguardo alla
verificazione dei suddetti eventi.

6 – In conclusione, il ricorso deve essere rigettato
con la conferma della sentenza impugnata.

Le spese del giudizio di legittimità seguono la
soccombenza e vengono liquidate come da dispositivo, facendo riferimento alle
disposizioni di cui al d.m. 20 luglio 2012, n. 140 e alla tabella A ivi
allegata, in vigore al momento della presente decisione (artt. 41 e 42 d.m.
cit.), e procedendo ad una liquidazione unitaria delle stesse in ragione della
identità delle posizioni processuali delle parti resistenti. 

P.Q.M. 

Rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al
pagamento delle spese del presente giudizio liquidate in € 4.000,00 oltre
accessori di legge.

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