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LAVORO: Ritardo all’entrata e anticipo all’uscita portano al licenziamento per giusta causa

        

CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 31 ottobre 2013, n.
24574

Lavoro subordinato – Reiterati ritardi nell’ingresso o per
l’anticipazione dell’uscita dal luogo di lavoro – Giusta causa di
licenziamento

Svolgimento del processo

G.C. ha impugnato il licenziamento intimatogli dalla
società V. spa (ora VDC T. spa) in data 22.11.2001 per reiterati ritardi
nell’ingresso o per l’anticipazione dell’uscita dal luogo di lavoro, ai sensi
dell’art. 55 del c.c.n.l., che prevede il licenziamento in caso di recidiva
nella violazione dell’art. 54, quando siano stati comminati tre provvedimenti di
sospensione negli ultimi due anni. Ha inoltre chiesto il risarcimento del danno
biologico, del danno morale e del danno alla professionalità provocatigli dal
comportamento della società e l’accertamento del diritto alla corresponsione del
premio di produttività per il periodo 1990-1999.

Il Tribunale di Frosinone ha rigettato tali domande
con sentenza che è stata confermata dalla Corte d’appello di Roma, che,
respingendo l’appello del lavoratore, ha ritenuto che, essendo stati i ritardi e
le anticipazioni dell’uscita dal luogo di lavoro ammessi dal lavoratore, e
quindi provati nella loro materialità – a prescindere dalle risultanze della
c.t.u. in ordine alla contraffazione, in alcuni casi, dei documenti attestanti
gli orari di ingresso e di uscita -, gli addebiti contestati dovevano ritenersi
comunque idonei a giustificare l’irrogazione del provvedimento espulsivo. Quanto
alle altre domande, esclusa l’ingiuriosità del comportamento aziendale, la
legittimità della sanzione escludeva ogni responsabilità del datore di lavoro a
titolo di danno biologico, morale o alla professionalità. La Corte di merito ha
rigettato, infine, anche le domande dirette ad ottenere il risarcimento del
danno biologico e del danno alla professionalità, asseritamente derivati da un
licenziamento del 1990, successivamente annullato in sede giudiziaria, nonché la
domanda relativa al premio di produttività. Ha ritenuto inammissibili, e
comunque infondate, le ulteriori domande reiterate dall’appellante nelle
conclusioni “definitive”, ma non sorrette, nell\’atto di gravame, dalla
proposizione di specifiche censure.

Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione
G.C. affidandosi a dodici motivi di ricorso cui resiste con controricorso la VDC
T. spa in liquidazione.

 

Motivi della decisione

 

1. – Con il primo motivo si denuncia violazione degli
artt. 115 e 416 c.p.c., 1455, 1460 e 2119 c.c., 54 e 55 c.c.n.l. per gli addetti
alle industrie produttrici di lampade, valvole, cinescopi, etc., nonché vizio di
motivazione, censurando la sentenza impugnata per avere la Corte territoriale
trascurato di considerare che, essendo sostanzialmente incontroverso tra le
parti che al ricorrente non era stato affidato alcun incarico concreto di
lavoro, veniva meno il presupposto logico necessario per la configurabilità
dell\’infrazione prevista dall’art. 54, lettera b) del c.c.n.l., che sanziona
unicamente i! lavoratore che “ritardi l’inizio del lavoro, lo sospenda o ne
anticipi la cessazione”.

2. – Con il secondo motivo si denuncia violazione
degli artt. 112 e 115 c.p.c. per avere la Corte d’appello ritenuto che il
licenziamento fosse fondato sulla “irrogazione di tre sospensioni nell’ultimo
biennio”, laddove la lettera di licenziamento conteneva solo un generico
riferimento ai provvedimenti di sospensione, senza specificarne né il numero né
l’arco temporale nel quale gli stessi erano stati comminati.

3. – Con il terzo motivo si denuncia violazione degli
artt. 115 c.p.c., 53 e 48 del c.c.n.l. 7 della legge n. 300/70, nonché vizio di
motivazione, relativamente alla statuizione con cui la Corte di merito ha
ritenuto che le contestazioni disciplinari, alle quali era seguita la sanzione
della sospensione del lavoratore dal servizio, non fossero mai state impugnate a
norma dell’art. 7 della legge n. 300/70, mentre il lavoratore le aveva impugnate
ai sensi dell’art. 53 del contratto collettivo.

4. – Con il quarto motivo si denuncia violazione
degli artt. 115 e 437 c.p.c., 87 disp. att. c.p.c., nonché vizio di motivazione,
censurando la sentenza impugnata nella parte in cui la Corte territoriale ha
ritenuto che il ricorrente fosse tenuto ad osservare un orario rigido di lavoro,
laddove tale circostanza era stata smentita dalle dichiarazioni del procuratore
speciale della V. e dalle deposizioni testimoniali.

5. – Con il quinto motivo si denuncia violazione
degli artt. 115 e 116 c.p.c. relativamente all’affermazione dei giudici di
merito secondo cui il ricorrente non avrebbe specificamente contestato
l’esistenza dei ritardi nell’ingresso e le anticipazioni nell’uscita dai posto
di lavoro, laddove tale affermazione sarebbe smentita quanto meno dalla lettera
raccomandata inviata dal lavoratore in risposta al primo provvedimento di
sospensione.

6. – Con il sesto motivo si denuncia violazione degli
artt. 115 e 116 c.p.c. e dell’art. 55 del c.c.n.l, relativamente
all’argomentazione svolta nella sentenza impugnata secondo cui, anche ammettendo
che in alcuni casi i dati informatici relativi alla registrazione degli orari di
ingresso e di uscita del lavoratore dal luogo di lavoro fossero stati alterati,
le residue infrazioni sarebbero state sufficienti a consentire l’irrogazione di
tre provvedimenti di sospensione dal servizio e, di conseguenza, del
licenziamento disciplinare.

7. – Con il settimo motivo si denuncia violazione
degli artt. 88, 92, 115 e 116 c.p.c., nonché vizio di motivazione, per non avere
la Corte territoriale valutato il reiterato impedimento opposto dalla società
appellata agli accertamenti del consulente tecnico d’ufficio concernenti la
sussistenza o meno della contraffazione della documentazione relativa agli orari
di ingresso e di uscita del ricorrente dal posto di lavoro.

8. – Con l’ottavo motivo si denuncia violazione
dell’art. 115 c.p.c., nonché vizio di motivazione, censurando la sentenza
impugnata per aver omesso di valutare le discrepanze risultanti dal confronto
tra le indicazioni degli orari di ingresso e di uscita dal lavoro contenute
nelle lettere di contestazione disciplinare e le timbrature prodotte
dall’azienda.

9. – Con il nono motivo si denuncia violazione degli
artt. 115 e 416 c.p.c., nonché vizio di motivazione, sostenendo che
l\’affermazione contenuta nella sentenza impugnata secondo cui le trattenute
sulla retribuzione sarebbero “fondate sui ritardi”, sarebbe smentita dalle buste
paga di ottobre e novembre 2001.

10. – Con il decimo motivo si denuncia violazione
degli artt. 115 e 416 c.p.c., del contratto collettivo di lavoro, nonché vizio
di motivazione, censurando la sentenza impugnata per aver ritenuto che al
ricorrente non spettassero le differenze retributive richieste a titolo di
“premio di produttività” per il periodo dal 1990 al 1999, non avendo egli, in
ragione dell’assenza dal servizio, contribuito in alcun modo ad incrementare i
risultati raggiunti dall’azienda.

11. – Con l’undicesimo motivo si denuncia violazione
dell’art. 115 c.p.c., nonché vizio di motivazione, lamentando l’erroneità della
decisione della Corte territoriale nella parte in cui i giudici d’appello hanno
ritenuto che il ricorrente non avesse proposto specifiche censure avverso la
statuizione del primo giudice con cui era stata respinta la domanda del
lavoratore diretta ad ottenere il riconoscimento del diritto alla qualifica
superiore.

12. – Con il dodicesimo motivo si denuncia violazione
dell’art. 115 c.p.c., nonché vizio di motivazione, censurando la sentenza
impugnata per aver ritenuto che il ricorrente non avesse allegato “quali fossero
state le precedenti mansioni, quali fossero le declaratorie contrattuali del
quadro e dell’impiegato di sesto livello, per quale ragione le mansioni
precedentemente svolte potessero essere sussunte nella qualifica di quadro”.

13. – Il primo motivo è inammissibile in quanto il
ricorrente avrebbe dovuto indicare specificamente nel ricorso per cassazione che
la circostanza secondo cui al lavoratore non era stato affidato alcun incarico
concreto di lavoro, era stata fatta oggetto di specifica allegazione non solo
davanti al primo giudice, ma anche davanti al giudice d’appello; e ciò tanto più
che dalla sentenza impugnata risulta che il Tribunale, nel respingere la
domanda, aveva affermato che “la società datrice aveva attribuito al C. funzioni
in precedenza svolte dal quadro D.G. e, poi, all’ing. N., di guisa da essere
inconferente il richiamo all’art. 1460 c.c.” e che la Corte d’appello ha
ritenuto insussistente il diritto dell’appellante di non adempiere all’obbligo
di osservare l’orario di lavoro “sia per l’adempimento datoriale”, sia per la
previsione di specifiche tutele ordinamentali in caso di violazione dell’art.
2103 c.c.

E’ invero principio consolidato nella giurisprudenza
di questa Corte (cfr. ex plurimis Cass. n. 20518/2008, Cass. n. 18440/2007,
Cass. n. 7981/2007, Cass. n. 25546/2006, Cass. n. 3664/2006, Cass. n. 230/2006)
quello secondo cui ì motivi del ricorso per cassazione devono investire, a pena
d’inammissibilità, questioni che siano già comprese nel tema del decidere del
giudizio d’appello, non essendo prospettabili per la prima volta in sede di
legittimità questioni nuove o nuovi temi di contestazione non trattati nella
fase di merito, tranne che non si tratti di questioni rilevabili d’ufficio.
Pertanto, ove il ricorrente proponga detta questione in sede di legittimità, al
fine di evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura, ha
l’onere non solo di allegare l’avvenuta deduzione della questione avanti al
giudice del merito, ma anche di indicare in quale atto del precedente giudizio
lo abbia fatto, onde dar modo alla S.C. di controllare ex actis la veridicità di
tale asserzione, prima di esaminarne il merito.

14. – Anche il secondo e il terzo motivo devono
ritenersi inammissibili. Il ricorrente sostiene, infatti, che la lettera di
licenziamento conterrebbe solo “un generico riferimento ai provvedimenti di
sospensione, senza specificarne né il numero né l’arco temporale nel quale sono
stati comminati” (secondo motivo), e sostiene, inoltre, di aver impugnato i
provvedimenti disciplinari – ai sensi dell’art. 53, comma 6, del c.c.n.l. – con
lettera del 14.11.2001, con cui si chiedeva “la sospensione di ogni qualsivoglia
azione disciplinare” e “un incontro urgente per opportuni chiarimenti sulla
vicenda” (terzo motivo), ma non ha riprodotto in ricorso (con violazione del
principio di autosufficienza del ricorso per cassazione) né il testo della
lettera di licenziamento, né il contenuto specifico della lettera del
14,11.2001, né il testo dell’art. 53 del c.c.n.l. (e dell’art. 48 dello stesso
contratto collettivo) di cui ha denunciato la violazione. Di qui
l’inammissibilità delle relative censure.

15. – Il quarto motivo è infondato perché anche dalle
deposizioni testimoniali riportate (peraltro, solo parzialmente) nel ricorso
risulta sì che il ricorrente godeva di una certa flessibilità per quanto
riguarda l’orario di entrata e di uscita dal posto di lavoro; ciò che, tuttavia,
non è sufficiente a diminuire la gravità degli addebiti, posto che Ì ritardi
contestati dall’azienda (non indicati dal ricorrente, ma specificamente
riportati nel controricorso) si sono protratti, generalmente, ben al di là di
quanto sarebbe stato consentito dalla flessibilità dell’orario di lavoro – ed
erano stati giustificati dal ricorrente sul rilievo che egli “non aveva
l’obbligo di osservare rigidamente l’orario di servizio, essendo stato privato
di compiti a sé confacenti ed utili per l’azienda”: cfr. pag. 4 dell\’impugnata
sentenza – e che in ogni caso la flessibilità dell’orario non giustificherebbe
le anticipazioni nell’uscita o l’eccessiva dilatazione della c.d. pausa
pranzo.

16. – Parimenti infondato è il quinto motivo, posto
che la lettera del 4.10.2001 riguarda soltanto uno degli episodi di ritardo
nell’entrata {ritardo che, peraltro, stando a quanto si legge nella sentenza
impugnata, non formerebbe neppure oggetto della contestazione disciplinare) e
che, comunque, la genericità della contestazione, alla quale fa riferimento la
sentenza impugnata, riguarda essenzialmente il contenuto del ricorso
introduttivo del giudizio di primo grado.

17. – Il sesto motivo è infondato. Il ricorrente
censura la sentenza impugnata sostenendo che la Corte di merito sarebbe incorsa
nel vizio di extrapetizione per aver ritenuto che, anche escludendo la
sussistenza di alcune delle infrazioni contestate al lavoratore, le altre
sarebbero state comunque sufficienti a giustificare la sanzione espulsiva.

La censura è priva di fondamento in quanto la Corte
territoriale, decidendo nel senso sopra indicato, ha fatto corretta applicazione
del principio più volte affermato da questa Corte (cfr ex plurimis Cass. n.
2579/2009) secondo cui quando vengano contestati al dipendente diversi episodi
rilevanti sul piano disciplinare, non occorre che l’esistenza della “causa”
idonea a non consentire la prosecuzione del rapporto sia ravvisabile
esclusivamente nel complesso dei fatti ascritti, ben potendo il giudice –
nell’ambito degli addebiti posti a fondamento del licenziamento dal datore di
lavoro – individuare anche solo in alcuni o in uno di essi il comportamento che
giustifica la sanzione espulsiva, se lo stesso presenti il carattere di gravità
richiesto dall’art. 2119 c.c.

Questa Corte aveva, del resto, già evidenziato (cfr.
Cass. n. 7860/91, Cass. n. 3946/89) che nell’ipotesi in cui al lavoratore siano
state contestate più infrazioni, alcune delle quali siano di per sé sole
sufficienti a giustificare la sanzione irrogata, la validità del provvedimento
sanzionatorio non è inficiata dal fatto che determinate infrazioni, fra quelle
contestate dal datore di lavoro, non risultino provate in giudizio, ove lo
stesso giudice – al quale compete ogni valutazione circa la proporzionalità
della sanzione inflitta – fornisca logica spiegazione della ritenuta
proporzionalità fra la sanzione in concreto irrogata dal datore di lavoro e la
violazione dei doveri del lavoratore della quale sia stata fornita prova
certa.

Non sussiste quindi il vizio di extrapetizione
denunciato dal ricorrente.

18. – Con il settimo motivo, come già detto, il
ricorrente ha censurato la sentenza impugnata per non avere valutato il
reiterato impedimento opposto dalla società appellata agli accertamenti del
consulente tecnico d’ufficio concernenti la sussistenza o meno della
contraffazione della documentazione che conteneva i dati relativi agli orari di
ingresso e di uscita del ricorrente dal posto di lavoro.

La censura è inconferente, giacché la decisione della
Corte territoriale, quanto alla materialità dei fatti contestati al lavoratore,
non si fonda sulla predetta documentazione o sugli accertamenti svolti dal
c.t.u., bensì sulla mancata contestazione di tali fatti da parte del ricorrente
(“Inoltre, né nelle sue giustificazioni, né nel ricorso di primo grado (pag. 9 e
segg.) – in cui il ricorrente non contesta i ritardi o le anticipazioni delle
uscite, limitandosi a sostenere che, all’ingresso, il ritardo era imputabile al
personale di vigilanza che lo tratteneva -, né nel corso del suo interrogatorio
libero, il C. ha mai contestato sia di essere entrato in ritardo sia di essere
uscito in anticipo sia di aver superato l’orario della pausa pranzo – in tale
evenienza giustificandosi per essersi dovuto recare all’ufficio postale per
inviare alla società datrice le sue giustificazioni”).

19. – Le censure svolte con l’ottavo, il nono e il
decimo motivo devono ritenersi inammissibili in quanto il ricorrente, in forza
del principio di autosufficienza, avrebbe dovuto riportare nel ricorso il
contenuto della documentazione che forma oggetto dell’ottavo motivo, delle buste
paga e degli scritti difensivi ai quali fa riferimento nel nono motivo, ed
infine della documentazione, degli scritti difensivi e, soprattutto, del testo
delle disposizioni del contratto collettivo che si assumono violate con il
decimo motivo, restando, in difetto, impedito a questa Corte qualsiasi sindacato
al riguardo (cfr. ex plurimis Cass. n. 6937/2010, Cass. n. 2045/2006, Cass. n.
6265/2005 e – con riferimento al permanere dell’onere di trascrizione della
clausole contrattuali anche a seguito della nuova formulazione, ex artt. 2 e 7
del d.lgs. n. 40 del 2006, dell’art. 360, n. 3, c.p.c. e dell’art. 369, comma 2,
n. 4, c.p.c. – v. Cass. n. 6640/2011).

20. – Le censure formulate con l’undicesimo e con il
dodicesimo motivo – che possono essere esaminati congiuntamente per la
connessione tra le diverse censure – devono ritenersi, anch’esse,
inammissibili.

21. – La Corte territoriale, nel confermare la
statuizione di rigetto della domanda del ricorrente diretta ad ottenere il
riconoscimento del diritto alla qualifica di quadro, ha osservato anzitutto che
l’appello doveva ritenersi del tutto carente sotto il profilo del requisito
della specificità dei motivi di gravame e che, in ogni caso, la domanda non
avrebbe potuto trovare accoglimento, non essendo stato oggetto di specifica
allegazione “quali fossero state le precedenti mansioni, quali fossero le
declaratorie contrattuali del quadro e dell’impiegato di sesto livello, per
quale ragione le mansioni precedentemente svolte potessero essere sussunte nella
qualifica di quadro”.

Il ricorrente, nel censurare tali affermazioni, ha
denunciato violazione dell’art. 115 c.p.c. e contraddittoria motivazione su
entrambi i punti presi in esame dalla Corte di merito (quello del difetto di
specificità dei motivi di appello e quello del difetto di allegazione degli
elementi posti a fondamento della domanda di attribuzione della qualifica
superiore), sostenendo, in definitiva, che la Corte territoriale avrebbe dovuto
tenere conto, ai fini della validità del ricorso introduttivo, anche degli
elementi desumibili dalla documentazione depositata unitamente a tale atto,
considerando anche che le deduzioni formulate dal ricorrente avevano trovato
conferma in alcune deposizioni testimoniali.

22- Premesso che il richiamo all’art. 115 c.p.c. –
che riguarda la disponibilità delle prove – non appare conferente, poiché il
tema della discussione (in base al decisum della sentenza) attiene alla
sufficienza della allegazione dei fatti posti a fondamento della domanda (art.
414 n. 4 c.p.c., richiamato dall’art. 434 c.p.c. per il ricorso in appello) e
non alla attività di deduzione delle prove (art. 414 n. 5 c.p.c.; sulla
distinzione, pur nella loro necessaria correlazione, tra oneri di allegazione,
oneri di contestazione e oneri di prova, cfr., fra le altre, Cass. sez. unite n.
11353/2004, nonché Cass. sez. unite n. 8202/2005), va rilevato che, in ogni
caso, le censure proposte dal ricorrente sono inammissibili sia nella parte in
cui sostengono (implicitamente) che i documenti depositati unitamente al ricorso
introduttivo, integrandone il contenuto, valevano ad individuare gli elementi
essenziali della domanda (senza però riportare in ricorso lo specifico contenuto
né dell’atto introduttivo, né dei suddetti documenti, così come sarebbe stato
necessario in virtù del principio di autosufficienza, ed impedendo così a questa
Corte qualsiasi sindacato al riguardo), sia nella parte in cui rinviano
genericamente al contenuto del ricorso introduttivo – laddove sarebbero
“ampiamente spiegate” le ragioni per cui le mansioni svolte dal ricorrente
sarebbero “incompatibili” con l’inquadramento nel sesto livello e dovrebbero
invece ritenersi riconducibili a quelle proprie della qualifica di quadro –
senza tuttavia indicarne, ancora una volta, lo specifico contenuto.

E’ evidente poi che, ai fini della valutazione circa
la sufficienza delle indicazioni contenute nel ricorso introduttivo, non possa
tenersi conto di elementi emersi nel corso delle deposizioni di alcuni dei
testimoni escussi in prime cure; anche perché, non essendo stato riportato in
ricorso né il contenuto integrale di tali deposizioni ne quello dei capitoli di
prova sui quali le testimonianze erano state ammesse, oltre che quello del
ricorso introduttivo, non è possibile formulare un giudizio positivo circa la
sufficienza delle predette indicazioni sul rilievo che esse avrebbero consentito
al giudice di primo grado di impostare e svolgere l’istruttoria ritenuta
indispensabile alla decisione della causa (cfr. per tale indirizzo, explurimis,
Cass. n. 10316/2002, nonché Cass. n. 7843/2003). 23.- In conclusione, il ricorso
deve essere rigettato. Le spese del giudizio di legittimità seguono la
soccombenza e vengono liquidate come da dispositivo, facendo riferimento alle
disposizioni di cui al d.m. 20 luglio 2012, n. 140 e alla tabella A ivi
allegata, in vigore al momento della presente decisione (artt. 41 e 42 d.m.
cit.). 

P.Q.M. 

Rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al
pagamento delle spese del presente giudizio liquidate in € 50,00 oltre €
3.500,00 per compensi professionali, oltre accessori di legge.

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