mercoledì, Maggio 15, 2024
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ENTE LOCALE: Modifica, fusione e istituzione di Comuni

Modifiche territoriali fusione ed istituzione di Comuni



Immagine di un palazzo comunale

Modifiche territoriali fusione ed istituzione di Comuni. ll Comune tra vecchia e nuova governance in Italia e in Europa


SOMMARIO:
1. Premessa. 2. La qualità della spesa pubblica. 3. L’intercomunalità
in Italia. 4. L’intercomunalità in Europa. 4.1. La cooperazione
intercomunale in Francia. 4.2.L’intercomunalità in Spagna. 4.3. La
cooperazione intercomunale in Germania.




4.4. L’intercomunalità in Danimarca. 5. Il rapporto tra Costituzione e
fusione di Comuni. 6. La fusione di Comuni nella legislazione
ordinaria. 6.1. Le modifiche territoriali del Comune. 6.2. Istituzione
di nuovi Comuni. 6.3. I Municipi forme di partecipazione e decentramento
delle comunità originarie. 6.4. L’incentivazione finanziaria statale.
6.5. L’incentivazione finanziaria regionale. 6.6. Lo studio di
fattibilità nel processo di fusione. 6.7. La centrale di committenza e
la fusione di comuni. 6.8. La fusione di comuni nella legge di stabilità
2015. 6.8. Valutazioni conclusive. 7. Bibliografia. 8. Sitografia.

1. Premessa.

Il
nostro è un Paese particolare. Alla congerie di leggi, a volte prive di
inquadramento sistematico, il legislatore fa seguire una frenetica
volontà riformatrice, spesso animata da una preoccupante frettolosità,
nel tentativo di concludere in modo alquanto rapido un processo, quello
riformatore, che necessita invece di ponderata riflessione, visione
olistica e per quanto possibile di condivisione, politica e sociale.

Certo
è che il fattore temporale deve essere tenuto in debita considerazione
anche in ambito politico, non potendoci più permetterci come sistema
Paese lungaggini ed ostruzionismi parlamentari che rallentano ogni iter
legislativo; ma la centralità del fattore temporale anche all’interno
dei meccanismi di elaborazione e approvazione delle leggi non può far
passare in second’ordine la tesi che le riforme organizzative che
toccano la struttura socio economica e politica del Paese non possono
essere approvate dal Parlamento sotto l’egida della fretta, poiché una
pessima riforma rischia di provocare molti guasti al sistema
istituzionale nazionale e di risolvere ben poche questioni rilevanti.

La legge 5 aprile 2014, n. 56,Disposizioni sulle città metropolitane, sulle province, sulle unioni e fusioni di comuni(in
G.U. 7 aprile 2014, n. 81) appare ispirata più alla logica della
frettolosità ed quella della presunzione (nel ritenere che la riforma
del sistema delle autonomie locali, basatain primissullo
svuotamento delle Province, ma anche sulla creazione delle Città
metropolitane, sul riordino delle Unioni di comuni e sulle Fusioni di
comuni1,
sia una riforma necessaria da esibire come risultato storico) che alla
logica della razionalità, la quale avrebbe richiesto una più pacata
riflessione sulla nascita di una “nuova” Provincia ed un altrettanto
serena valutazione sul sistema politico organizzativo delle Regioni che
avrebbe dovuto essere tenuto in debita considerazione all’interno del
nuovo impianto istituzionale del nostro Paese.

La legge n. 56/2014 crea, ad avviso di chi scrive, più problemi di quanti sia destinata a risolvere.

A
cosa siano servite le numerose audizioni della dottrina, l’autorevole
appello delle decine di costituzionalisti alla riflessione e alla
saggezza comportamentale rispetto alle decisione assunte e non senza
sofferenza da parte del Parlamento è sotto gli occhi di tutti gli
addetti a i lavori: sono servite a poco, viste come sono andate a finire
le cose; audizioni che appaiono essere sempre più dei rituali vuoti che
non smuovono affatto decisioni già assunte a monte e a prescindere da
ogni loro considerazione e tenuta in debito conto.

Qualificata dottrina (POGGI A.,Sul disallineamento tra il d. d. l. Delrio ed il disegno costituzionale attuale, infederalismi.it,
n. 1, 8 gennaio 2014), tra i meriti principali della legge Delrio
rileva quello dell’istituzione delle Città metropolitane come enti
territoriali di area vasta e «come volano di una maggiore integrazione
europea dell’area stessa», attribuendo a Province e Comuni «la
responsabilità politica di aver frenato in questi anni l’istituzione
dell’area vasta, a causa degli infiniti litigi sulla leadership politica
della stessa».

Tolte le Città metropolitane, tuttavia, il d. d.
l. Delrio presenta parecchi problemi, la cui causa principale, va detto
subito, è dovuta al disallineamento tra ambizioni dello stesso d. d. l.
in termini di ricostruzione di un razionale assetto del sistema
territoriale e disegno costituzionale.

Ancora più preoccupante,
in questa prospettiva, la figura dell’Unione di comuni, tanto più se è
destinata a sostituirsi o sovrapporsi alle Province.

Ulteriore e autorevole dottrina (PORTALURI P.L.,Osservazioni sulle Città metropolitane nell’attuale prospettiva di riforma, infederalismi.it,
n. 1, 8 gennaio 2014) è dell’avviso che «l’assetto normativo del
mosaico territoriale italiano continua ad attraversare – anchede iure condendo– una fase davvero confusa e piena di turbolenze.

Con
la legge Delrio «la «spina dorsale del drago» diverrebbero solo le
Regioni e i Comuni; le Città metropolitane conserverebbero sì una
garanzia costituzionale (peraltro criptica nel suo contenuto minimo), ma
collocandosi a un livello diverso – più basso, non equiparato –
rispetto ai primi due enti.

A parere di Ferrara (FERRARA A.,Una pericolosa rottamazione istituzionale, infederalismi.it,
n. 1, 8 gennaio 2014), va evidenziato «il carattere, almeno
apparentemente, schizofrenico delle riforme avviate dal Governo Letta.
Da una parte, infatti, si avvia il procedimento di revisione della
Costituzione per l’abolizione delle Province e dall’altra si dà inizio e
si porta avanti il procedimento legislativo ordinario per la
trasformazione delle Province in enti elettivi di secondo grado … il
rapido succedersi e accavallarsi negli ultimi due o tre anni di tante
diverse ipotesi di riforma delle Province (svuotamento dei poteri,
riduzione del numero, trasformazione in enti elettivi di secondo grado,
abolizione, differenziazione di soggetti, poteri e funzioni per aree
metropolitane ed aree montane) rende confuso e incerto ogni possibile
ragionamento sul governo dell’area vasta … per quanto riguarda poi, in
particolare, il d. d. l. Delrio, risulta difficile prendere in grande
considerazione una riforma, di questo rilievo, che manifesta la chiara
intenzione di essere soltanto transitoria e incompatibile con la
successiva riforma costituzionale … ».

Altra dottrina (GIGLIONI F.,La riforma del governo di area vasta tra eterogenesi dei fini e aspettative autonomistiche, infederalismi.it,
n. 1, 8 gennaio 2014) rileva che «una scelta tanto importante quale la
riscrittura del disegno organizzativo territoriale amministrativo è
affidata a obiettivi di risparmio dei costi e per questo appare dubbia
sia nel metodo sia per la capacità di conseguire i fini prestabiliti …
per quanto riguarda le Unioni dei comuni, poi, l’obiettivo è quello di
fugare il rischio che la costituzione degli organi unionali comporti
nuovi costi istituzionali e che sui territori si trovino soluzioni
differenziate. Anche in questo caso la matrice culturale che muove la
riforma è soprattutto di carattere finanziario, mentre su questo piano
si avverte forte il bisogno di un rilancio di questi enti … rispetto a
quanto detto finora sta da contraltare la riforma delle Città
metropolitane che pare ispirata invece da una forte impronta
autonomistica tanto che il contributo più importante e valido che il
disegno di legge apporta è quello riferito proprio a questi soggetti […]
».

In conclusione si è dell’avviso che la legge Delrio sia un
coacervo di puntigliosità (occorre andare avanti costi quel che costi
con l’abolizione delle Province) e di velata demagogia (l’abolizione
delle Province per com’è stata pensata non produrrà gli effetti sperati
sui risparmi di spesa pubblica, cioè una notevole quantità di risorse
finanziarie risparmiate che giustifichino quanto, giuridicamente
disordinato, prodotto finora), mancando un’ampia visione riformatrice
che coinvolga l’intero sistema territoriale: Regioni, Province e
autonomie locali territoriali, quest’ultime riformabili soltanto
all’interno di una concezione olistica dello Stato .

Ciò detto,
l’avviato processo riformatore degli enti locali territoriali
s’inserisce in un quadro economico-finanziario del Paese estremamente
drammatico; a fronte del PIL che ammonta a 1.560.024 milioni di euro, il
debito pubblico totalizza ben 2.069.216 milioni di euro ed è pari al
132,6 % del PIL (valori riferiti al 31 dicembre 2013)2, fatto questo che determina un’impossibilità di crescita dei consumi e un impoverimento generale del nostro Paese.

Uno
degli effetti prodotti da tale situazione strutturale riguarda le
politiche di entrata che si basano sull’aumento della pressione fiscale
sui cittadini e sulle imprese e anche il livello della spesa pubblica,
oggetto di tagli a volte selettivi e a volte lineari delle risorse
finanziarie disponibili; effetti che introducono a politiche dispending review.

2. La qualità della spesa pubblica.

La cd.spending reviewha un antecedente nelLibro verde sulla spesa pubblica3,
predisposto nel 2007 dalla Commissione tecnica per la finanza pubblica,
con il fine di fornire un quadro esaustivo della dinamica della spesa
pubblica e offrire alcuni tentativi di governarla.

In tale libro
si affronta la questione della riqualificazione della spesa pubblica
dello Stato, ma anche delle Regioni, delle Province, dei Comuni, in
quanto solo così è possibile fare crescere il Paese, migliorare il
livello di benessere generale, consentire una prospettiva di prosperità
nei confronti delle giovani generazioni.

Le risorse finanziarie a
disposizione sono scarse, fatto questo che obbliga tutti a
riqualificare la spesa pubblica, eliminare gli sprechi, ridurre i costi
della politica, riordinare gli uffici anche in chiave territoriale,
eliminare programmi ormai non più necessari a causa della loro
obsolescenza.

L’Italia sino al 2004 si trovava con un livello di
spesa pubblica non molto diverso da quello della media degli altri
Paesi europei; anche se a differenza di quest’ultimi, il nostro Paese
presentava alti valori di spesa per interessi sul debito pubblico e per
le pensioni4.

I ministri delle finanze dell’Unione europea, nel Consiglio informale ECOFIN7 di Berlino dell’anno 20075,
sono pervenuti alla conclusione che nei Paesi membri è indispensabile
migliorare i livelli d’efficienza e d’efficacia della spesa pubblica, al
fine di incoraggiare la crescita economica.

«Laspending reviewnasce
essenzialmente dall’esigenza di superare un approccio puramente
incrementale nelle decisioni di allocazioni di bilancio; un approccio
cioè che si concentra sulle risorse “aggiuntive” e sui nuovi programmi
di spesa, trascurando l’analisi della spesa in essere […] L’oggetto
dell’analisi dellaspending reviewsono i programmi di spesa,
ovvero l’insieme di attività e risorse impiegate dalla p.a. per
conseguire determinati obiettivi. Nelle esperienze internazionali lo
strumento è stato ed è utilizzato sia per far fronte a situazioni di
stress dei conti pubblici – e quindi per attuare contenimenti della
spesa razionali (superando l’approccio dei tagli generalizzati), sia, e
sempre di più, nei Paesi con una più solida situazione di finanza
pubblica, allo scopo di migliorare l’efficienza allocativa delle risorse
a disposizione e la qualità dei servizi della Pubblica Amministrazione
[…] In particolare, laspending reviewrappresenta la
metodologia da utilizzare per superare alcuni degli aspetti negativi
degli strumenti di contenimento della spesa utilizzati in passato (come i
“tagli lineari”), per assicurare che i risparmi di spesa siano
consapevoli e mirati, e che non portino ad un peggioramento della
qualità dei servizi offerti dalla Pubblica amministrazione»6.

Un
posto di rilievo nel processo di revisione della spesa pubblica è
assunto dal federalismo fiscale, con cui si riconsiderano le politiche
di bilancio degli enti locali che assorbono il trenta per cento della
spesa totale della p.a. e dunque pone in essere una seria revisione del
sistema di finanziamento degli enti territoriali che deve fondarsi
sull’equilibrio tra funzioni pubbliche e responsabilità finanziarie;
sulla sostituzione del criterio della spesa storica con quello inerente i
costi standard; sul coordinamento tra i diversi livelli di governo; sul
rispetto del Patto europeo di stabilità e crescita.

Detto in altri termini, laspending reviewè finalizzata al miglioramento di allocazione delle risorse e alla trasformazione positiva dellaperformancedella
p.a., in virtù di più elevati standards d’efficienza, efficacia,
economicità e qualità dei servizi da essa offerti, grazie ai quali è
possibile vedere quanta spesa pubblica può essere considerata
“aggredibile” o rivedibile, in base agli interventi derivanti dalla
revisione della spesa pubblica.

La riduzione della spesa
pubblica passa attraverso la definizione dei fabbisogni standard e dei
costi standard dei programmi di spesa delle amministrazioni dello Stato,
dei Comuni, delle Città metropolitane, delle Province e delle Regioni.

I
fabbisogni standard e i costi standard sono previsti dalla L. n.
42/200918 con la quale il legislatore intende richiamare tutti i livelli
di governo ad una maggiore responsabilità amministrativa, finanziaria e
contabile, al fine di conseguire gli obiettivi di finanza pubblica,
coerentemente con i vincoli posti dall’Unione europea e dai trattati
internazionali; per questo è necessario pervenire alla determinazione
del costo e del fabbisogno standard, quale costo e fabbisogno che
migliorando l’efficienza e l’efficacia, costituisce l’indicatore tramite
il quale confrontare e valutare l’azione della p.a. e definire
obiettivi di servizio cui devono tendere le Regioni e le amministrazioni
locali nell’esercizio delle funzioni riconducibili ai livelli
essenziali delle prestazioni o delle funzioni fondamentali, di cui
all’art. 117, comma 2, lett. m) e lett. p) della Costituzione7.

La
L. n. 42/2009, all’art. 2, comma 2, lett. m), si pone l’obiettivo del
progressivo superamento, per tutti i livelli istituzionali, del criterio
della spesa storica a favore del fabbisogno standard, per finanziare i
livelli essenziali e le funzioni fondamentali di Comuni, Province, Città
metropolitane e a favore della perequazione della capacità fiscale per
le altre funzioni8;
perequazione che in base all’art. 9, comma 1, lett. a), impone
l’istituzione di un fondo perequativo statale a favore delle Regioni che
abbiano minore capacità fiscale per abitante, al fine della riduzione
delle differenze tra territori con diverse capacità fiscali per
abitante.

La L. n. 42/2009 delega il Governo ad emanare uno o
più decreti legislativi per dare attuazione all’art. 119 della
Costituzione, per assicurare autonomia di entrata e di spesa di Comuni,
Province, Città metropolitane e Regioni e garantire i princìpi di
solidarietà e di coesione sociale, in maniera da sostituire
gradualmente, per tutti i livelli di governo, il criterio della spesa
storica e da sostenere la loro massima responsabilizzazione e
l’effettività nonché la trasparenza del controllo democratico nei
confronti degli eletti.

A seguito della legge delega n. 42/2009,
i fabbisogni standard di Comuni, Città metropolitane e Province sono
determinati dal d.lgs. n. 216/20109;
i fabbisogni standard, così come prevede l’art. 1 del suddetto d.lgs.
n. 216/2010 «rappresentano l’elemento al quale va correlato in modo
progressivo, il finanziamento integrale della spesa inerente le funzioni
fondamentali e i servizi essenziali delle prestazioni»; attraverso i
quali il Governo intende superare, a partire dall’anno 2013, il criterio
della spesa storica.

Nell’art. 4, il d.lgs. n. 216/2010 traccia
il procedimento e il metodo per determinare i fabbisogni standard,
basato sull’assunzione di una serie d’informazioni, di dati di natura
strutturale e contabile, da acquisire tanto ricorrendo a banche dati,
quanto tramite informazione diretta attraverso questionari da
trasmettere ai Comuni e alle Province e in base all’individuazione
d’idoneo sistema d’indicatori e obiettivi significativi, per consentire
la valutazione l’adeguatezza dei servizi in relazione alla natura delle
singole funzioni fondamentali. Tale metodo dovrà tenere conto delle
specificità legate ai recuperi di efficienza ottenuti attraverso le
Unioni di comuni ovvero le altre tipologie d’esercizio di funzioni in
forma associata.

Sempre in tema di riordino della spesa pubblica si muove il d. l. n. 52/201210(c.d. decretospending reviewuno), convertito in L. n. 6 luglio 2012, n. 94.

Attraverso
il d. l. n. 52/2012, art. 1, comma 1, il Governo si pone l’obiettivo di
rivisitare: «i programmi di spesa e dei trasferimenti alle imprese,
razionalizzazione delle attività e dei servizi offerti,
ridimensionamento delle strutture, riduzione delle spese per acquisto di
beni e servizi, ottimizzazione dell’uso degli immobili e nelle altre
materie individuate dalla direttiva del Presidente del Consiglio dei
Ministri del 3 maggio 2012».

Il d. l. n. 95/201211apre la seconda fase dellaspending review,
con la quale il Governo e il Parlamento mirano al raggiungimento di
alcuni obiettivi ritenuti strategici per il riordino dei conti pubblici
del nostro Paese.

La normativa approvata tende a riportare la
p.a. all’interno di un quadro programmatorio di natura strutturale e non
contingente, attraverso cui è possibile pervenire ad un’ottimale allocazione delle risorse a disposizione; all’eliminazione di enti ritenuti
superati; al riordino d’importanti istituzioni territoriali; alla
gestione associata di funzioni e servizi comunali, arrivando così ad un
uso ragionevole dell’organizzazione pubblica nel suo complesso.

Anche
gli enti locali territoriali devono concorrere alla realizzazione degli
obiettivi di finanza pubblica mediante la riduzione dei consumi
intermedi.

Questa la cornice di riferimento degli ultimi anni,
all’interno della quale il disegno da portare a compimento è basato
sulla riduzione dei costi dei beni, dei servizi e delle opere; sulla
riduzione delle dotazioni organiche delle pubbliche amministrazioni;
sulla razionalizzazione del patrimonio pubblico e riduzione dei costi
per locazioni passive; sulla messa in liquidazione e privatizzazione di
società pubbliche; sul monitoraggio continuo dei conti pubblici; sulla
razionalizzazione amministrativa; sul divieto di istituzione e sulla
soppressione di enti, agenzie e organismi; sulla riorganizzazione della
presenza dello Stato sul territorio; sulla riduzione delle spese di
personale.

Ciò detto appare del tutto evidente che la
particolare situazione economico-finanziaria che attraversa il Paese
impone una pacata riflessione, tanto sull’attuale modello organizzativo
comunale, fatto di azione “solitaria” del Comune, poco collaborativa con
altre e simili realtà territoriali, quanto su figure organizzative
fondate su forme associative comunali, attraverso le quali i Comuni,in primis,
quelli Piccoli, possono superare la loro fase di debolezza strutturale e
puntare ad erogare servizi migliori e più economici, ai cittadini e
alle imprese.

3. L’intercomunalità in Italia.

Nel nostro Paese la questione delle forme associative comunali è antica e va indietro negli anni.

Il
Ministro degli Interni del primo governo Cavour, Luigi Carlo Farini (21
gennaio 1860-21 marzo 1861) presentava nel 1860 un disegno di legge per
l’istituzione della Commissione legislativa per lo studio e la
compilazione di progetti di legge sulla riforma dell\’ordinamento
amministrativo del nuovo Regno12,
proponendo un progetto per accorpare i Comuni con meno di 1.000
abitanti, nell’ambito di una generale riforma dell’ordinamento
amministrativo; proposta che non ebbe però seguito.

A partire dal 1865, con la legge n. 2248/186513si
prevedeva la facoltà di creare un Consorzio per la costruzione,
adattamento e sistemazione di una strada comunale od opere relative,
qualora vi sia «un interesse collettivo», la formazione del Consorzio di
cui all’art. 39 è promossa da quel Comune che crederà aver ragione di
chiamare altri a concorrere nella spesa.

Successivamente con il r. d. n. 148/191514, nuovoTesto Unico della legge comunale e provinciale,
veniva reiterata la possibilità ai Comuni di costituirsi in Consorzio
tra loro o con la Provincia, per provvedere ad alcuni individuati
servizi o opere di che fossero di comune interesse.

Già con la c.d. legge Serpieri, (r. d. n. 3267/192315),
ai sensi dell’art. 155, più Comuni o più enti morali, mantenendo
separata la gestione dei rispettivi patrimoni silvo-pastorali nella
forma di economia od in quella dell’azienda speciale, potevano
costituirsi in Consorzio per l’assunzione di un unico Direttore per la
gestione tecnica dei patrimoni stessi; Consorzio che poteva estendersi
anche all’assunzione di personale di custodia.

La forma consortile era presente nella legislazione attinente alla bonifica integrale, di cui al r. d. n. 215/1933,16alla
quale si provvedeva «per scopi di pubblico interesse, mediante opere di
bonifica e di miglioramento fondiario»; soggetto consortile che trovava
una successiva sistemazione con il r. d. 30 dicembre 1923, n. 283917(con
il quale veniva riformato il T.U. della legge comunale e provinciale,
approvato con r. d. 4 febbraio 1915, n. 148) e poi ulteriormente nel
T.U. della legge comunale e provinciale, emanato con r. d. 3 marzo 1934,
n. 383 , il quale, all’art. 156, prevedeva che: «i Comuni hanno facoltà
di unirsi in Consorzio fra di loro o con la Provincia per provvedere a
determinati servizi od opere di comune interesse. La costituzione del
Consorzio è approvata con decreto del prefetto, udita la Giunta
provinciale amministrativa, se gli enti appartengono alla stessa
circoscrizione provinciale, del ministro dell’interno, udite le Giunte
provinciali amministrative interessate, se gli enti appartengono a
circoscrizioni provinciali diverse. Con lo stesso decreto è approvato lo
statuto ed è stabilita la sede del Consorzio».

Un concreto ma,
con ogni probabilità, oggi non condiviso progetto di riduzione del
numero di Comuni, fu realizzato in epoca fascista, con l’approvazione
del r. d. l. n. 383/192718attraverso
il quale si addiveniva all’unione, soppressione o aggregazione coattiva
di 2.184 piccoli Comuni e si rendeva possibile la facoltà di accorpare i
Comuni con popolazione inferiore ai 2.000 abitanti, nel caso fossero
mancati i mezzi per provvedere in maniera conveniente ai pubblici
servizi.

In epoca successiva il r. d. l. n. 383/193419,
all’art. 30, prevedeva che: «i Comuni con popolazione inferiore ai
2.000 abitanti, che manchino di mezzi per provvedere adeguatamente ai
pubblici servizi, possono, quando le condizioni topografiche lo
consentano, essere riuniti fra loro o aggregati ad altro Comune.

Può
inoltre essere disposta la riunione di due o più Comuni, qualunque sia
la loro popolazione, quando i podestà ne facciano domanda e ne fissino
d’accordo le condizioni»; mentre all’art. 156 prevedeva che i Comuni
avessero la possibilità di unirsi in Consorzio e all’art. 157, comma 1,
che: «indipendentemente dai casi nei quali la costituzione del Consorzio
sia imposta per legge, più Comuni possono essere riuniti in Consorzio
fra loro o con la Provincia per provvedere a determinati servizi od
opere a carattere obbligatorio»; mentre il comma 2 prevedeva «la
costituzione coattiva del Consorzio».

Accanto a tali Consorzi, definibili volontari o facoltativi, erano previsti, altresì, Consorzi obbligatori.

L’art.
157 del Testo Unico della legge comunale e provinciale (TULCP) n.
383/1934, disponeva che: «indipendentemente dai casi nei quali la
costituzione del Consorzio sia imposta per legge, più Comuni possono
essere riuniti in Consorzio fra di loro o con la Provincia per
provvedere a determinati servizi od opere di carattere obbligatorio.

La
costituzione coattiva del Consorzio è disposta con decreto del
prefetto, se gli enti appartengono alla stessa circoscrizione
provinciale, del ministro dell’interno, se appartengono a circoscrizioni
provinciali diverse, uditi i podestà e le Giunte provinciali
amministrative interessate e, quando del Consorzio, faccia parte la
Provincia, anche il rettorato. Con lo stesso decreto è approvato lo
statuto ed è stabilita la sede del Consorzio».

Anche
le Province potevano unirsi in Consorzio fra loro, ovvero con uno o più
Comuni, per provvedere a determinati servizi o ad opere di comune
interesse.

Più Province, con decreto del ministro
dell’interno, emesso di concerto con i ministri competenti, uditi i
rispettivi rettorati e le Giunte provinciali amministrative, potevano
essere riunite in Consorzio per provvedere a determinati servizi od
opere di carattere obbligatorio; negli stessi modi e con le stesse
forme, uditi anche i podestà interessati, si poteva provvedere alla
costituzione coattiva di Consorzi fra Province ed uno o più Comuni.

In periodo repubblicano la legge n 71/195320,
articolo unico, stabiliva che: «potrà essere disposto, ai sensi degli
articoli 33 e seguenti del testo unico 3 marzo 1934, n. 383, la
ricostituzione di Comuni soppressi dopo il 28 ottobre 1922, ancorché la
loro popolazione sia inferiore ai 3.000 abitanti, quando la
ricostituzione sia chiesta da almeno tre quinti degli elettori»21.

Di
conseguenza, dopo il ventennio autoritario e dittatoriale, veniva
restituita ai Comuni, riuniti o soppressi in epoca fascista, la
possibilità di ricostituirsi in Comuni singoli anche in assenza del
requisito minimo demografico previsto e vanificata l’opera di
accorpamento forzoso inaugurata dal regime fascista; ma, per altro
verso, si dava inizio ad un trend di segno opposto che conduceva alla
creazione di nuovi Municipi e che è continuato fino a poco tempo
addietro.

Nel 1952 il legislatore approvava la L. n. 991/195222che
emanava provvedimenti in favore dei territori montani, istituendo enti
per la difesa montana, vale a dire costituendo Consorzi di prevenzione e
prevedendo, ai sensi dell’art. 9, comma 1 che potevano essere
costituite aziende speciali e Consorzi per la gestione dei beni
silvo-pastorali degli enti pubblici.

In seguito, il d. p. r. 10 giugno 1955 n. 98723,
allo scopo di favorire il miglioramento tecnico ed economico dei
territori montani e di promuovere la costituzione dei Consorzi, di cui
agli artt. 10 e 16 della legge 25 luglio 1952, n. 991, nonché per
adempiere e coordinare le funzioni previste dagli artt. 5 e 17 della
stessa legge, dal comma 15 dell’art. 1 della legge 27 dicembre 1953, n.
959 e dagli artt. 139 e 155 del regio decreto-legge 30 dicembre 1923, n.
3267, disponeva che i Comuni compresi in tutto o in parte nel perimetro
di una zona montana di cui all’art. 18 potevano costituirsi in
Consorzio a carattere permanente, denominato «Consiglio di valle» o
«Comunità montana».

La costituzione del «Consiglio di valle» o
della «Comunità montana», è obbligatoria quando ne facciano richiesta al
prefetto non meno di tre quinti dei Comuni interessati, purché
rappresentino almeno la metà della superficie complessiva della zona.

Il
«Consiglio di valle» nel periodo medioevale (ad es. nella Lombardia
grigiona: Valtellina, Bormio, Chiavenna) era l’organo deliberativo per
il riparto delle spese e delle tasse straordinarie tra le giurisdizioni e
per l’appalto del commercio dei grani e assolveva spesso compiti di
rappresentanza politica negli interessi generali della valle, come i
ricorsi alle tre leghe, ma le decisioni prima di diventare esecutive
dovevano essere approvate dai Comuni e dalle giurisdizioni.

Ai
nostri giorni vi è la «Comunità di valle», ente territoriale della
Provincia autonoma di Trento, costituente il livello istituzionale
intermedio tra il Comune e la Provincia che è stata istituita con legge
provinciale 16 giugno 2006, n. 3, costituita obbligatoriamente dai
Comuni compresi in ciascun territorio ritenuto adeguato per l’esercizio
di importanti funzioni amministrative; «Comunità di valle» che a sua
volta sostituisce i Comprensori, Consorzi di comuni, i cui obiettivi
principali sono finalizzati al miglioramento del livello di sviluppo del
territorio; ad evitare l’isolamento delle comunità periferiche; a
scongiurare la scomparsa dei Piccoli Comuni anche a seguito della
riduzione del tasso di natalità, per raggiungere obiettivi di
integrazione socio-sanitaria.

La L. n. 1102/197124emanava
disposizioni rivolte a promuovere la valorizzazione delle zone montane,
favorendo la partecipazione delle popolazioni attraverso le Comunità
montane; la predisposizione e alla attuazione dei programmi di sviluppo e
dei piani territoriali dei rispettivi comprensori montani, ai fini di
una politica generale di riequilibrio economico e sociale, nel quadro
delle indicazioni del programma economico nazionale e dei programmi
regionali. In ciascuna zona omogenea, secondo la legge regionale, si
costituisce tra i Comuni che in essa ricadono, la Comunità montana che è
ente di diritto pubblico.

Con la n. 382/197525veniva
delegato il Governo ad emanare per le Regioni a statuto ordinario, uno o
più decreti, con i quali le Regioni, per le attività e i servizi che
interessano territori finitimi, potevano arrivare a intese e costituire
uffici o gestioni comuni anche in forma consortile.

A
seguito di tale legge delega veniva emanato il d. p. r. n. 616/1977, il
quale nell’attribuire ai Comuni, alle Province, alle Comunità montane le
funzioni amministrative indicate nel decreto, ferme restando quelle già
loro spettanti secondo le vigenti disposizioni di legge, all’art. 25
disponeva che «la Regione determina con legge, sentiti i Comuni
interessati, gli ambiti territoriali adeguati alla gestione dei servizi
sociali e sanitari, promuovendo forme di cooperazione fra gli enti
locali territoriali, e, se necessario, promuovendo ai sensi dell’ultimo
comma dell’art. 117 della Costituzione, forme anche obbligatorie di
associazione fra gli stessi».

Il d. p. r. n. 616/1977
non specificava, però, quali fossero le «forme di cooperazione fra gli
enti locali»; con la conseguenza che si consentiva che le Regioni
sperimentassero originali modelli organizzativi come il comprensorio e
l’associazionismo intercomunale presente in particolare nelle Regione
Toscana, a seguito dell’approvazione della L. r. 17 agosto 1979, n. 37,Istituzione delle associazioni intercomunali;
modelli organizzativi che ponevano spesso problemi, legati alla
mancanza di uniformità di comportamenti, pur nella legittima autonomia
legislativa delle Regioni interessate; fatto che indusse quest’ultime ad
un blocco dell’attività sperimentale, lasciando libertà operativa ai
Comuni, circa i modelli associativi intercomunali da assumere.

L’approvazione della L. n. 142/199026sull’ordinamento
delle autonomie locali segna un punto d’arrivo riguardo all’azione
riformatrice statale, poiché viene elaborato un nuovo testo unico
concernente l’ordinamento di Comuni e Province, sostitutivo della legge
comunale e provinciale del 1934 che era stata elaborata in un contesto
pre-repubblicano, antidemocratico e pre-costituzionale, vigendo negli
anni trenta il regime fascista, del quale il TULCP è figlio.

L’attività
riformatrice tocca svariati settori del diritto amministrativo e
stabilisce con L. n. 142/1990 il primato del principio di autonomia
delle amministrazioni locali, dal quale scaturisce un depotenziamento
del principio gerarchico negli enti locali ed una maggiore centralità in
essi di altre categorie di pensiero, orientate all’aziendalizzazione di
Comuni e Province, al lavoro per obiettivi e alla valutazione dei
risultati.

Con la legge sull’ordinamento delle autonomie locali del 1990 che recepiva molti principi dellaCarta europea delle autonomie locali27,
il legislatore intendeva contribuire a razionalizzare il variegato
mondo degli enti locali, conferendo assetti più duraturi agli organi di
governo degli enti interessati, ad iniziare dalle modalità elettive del
Sindaco, non più scelto dal Consiglio, come avveniva in passato, ma
direttamente dagli elettori, ponendo in essere, al contempo, il
principio della sfiducia costruttiva, attraverso la quale, a seguito
della sfiducia del capo dell’amministrazione e della Giunta, si poteva
procedere ad eleggere un nuovo Sindaco o Presidente della Provincia e di
una nuova Giunta; la sfiducia costruttiva non comportando lo
scioglimento del Consiglio, ma la sostituzione della Giunta o del
Sindaco o del Presidente della Provincia con altri soggetti.

L’art.
9 della L. n. 142/1990 disponeva che spettavano al Comune tutte le
funzioni amministrative che riguardavano la popolazione ed il territorio
comunale precipuamente nei settori organici dei servizi sociali,
dell’assetto ed utilizzazione del territorio e dello sviluppo economico,
salvo quanto non sia espressamente attribuito ad altri soggetti dalla
legge statale o regionale, secondo le rispettive competenze e che «il
Comune, per l’esercizio delle funzioni in ambiti territoriali adeguati,
attua forme sia di decentramento sia di cooperazione con altri Comuni e
con la Provincia».

Pertanto ogni Comune doveva
valutare se per il miglior esercizio di una determinata funzione era
opportuno procedere a forme di decentramento oppure di cooperazione con
altri Comuni o con la Provincia, soprattutto nel caso di Piccoli Comuni.

È
proprio a partire dall’analisi dell’art. 9 della L. n. 142/1990 che si
può iniziare a svolgere il ragionamento sulle forme associative comunali
o per dirla in altri termini, sull’intercomunalità degli ultimi lustri
che si è sviluppata nel nostro Paese, sui cui si vedainfra.

4. L’intercomunalità in Europa.

Le
forme di collaborazione tra Comuni in tema di gestione associata di
funzioni e servizi rappresentano modelli organizzativi presenti anche
nella maggioranza dei Paesi europei, a dimostrazione dell’importanza che
essi hanno in ognuno di essi, per le implicazioni e i risvolti, anche
di carattere economico-finanziario, concernenti la spesa pubblica.

Pur
nella differente terminologia che si ritrova in ogni Paese che può
creare alcune difficoltà nella comparazione tra istituti e modelli
organizzativi, anche in Europa si tracciano percorsi e modelli
amministrativi, attraverso i quali le realtà comunali presenti nel
territorio europeo tentano di superare le angustie della mancanza di
risorse finanziarie e di pervenire ad una corretta allocazione delle stesse, coniugando rigore di spesa da un lato ed efficacia della stessa dall’altro.

Il
rilancio del tema dell’intercomunalità consente a livello europeo di
applicare correttamente il principio di sussidiarietà verticale da un
lato, mentre dall’altro permette di poter concorrere alla realizzazione
di politiche di coesione territoriale, ridimensionando, contestualmente,
eventuali diseconomie non più consentite in un periodo di economia
recessiva, com’è quello che ogni Paese europeo sta vivendo, diminuendo
così le conseguenze negative che comporta il ricorso a politiche di
sfrenato particolarismo, dove appare centrale più il “campanile” che non
le politiche di sviluppo omogeneo del territorio di riferimento; le
cc.dd. politiche intercomunali comportano, altresì, un maggiore
controllo dellosprawl28urbanistico, ma anche di quello che si potrebbe definiresprawlamministrativo
o organizzativo, fatto di crescita disomogenea fra territori contigui e
affini dal punto di vista delle funzioni fondamentali da svolgere a
beneficio delle comunità civiche interessate.

4.1. La cooperazione intercomunale in Francia.

La
cooperazione intercomunale in Francia nasce con l’intento di rispondere
in modo maggiormente efficace ai bisogni della popolazione, rispetto ai
singoli Comuni29.

Soffermandoci nell’analisi delCode général des collectivités territoriales(testo
in vigore dal 1° gennaio 2015), si può vedere che l’art. L5111-1
dispone che le autorità locali possono lavorare insieme per l’esercizio
delle loro competenze, creando degli organismi pubblici di cooperazione,
nelle forme e condizioni prescritte dalla legge.

Formano la categoria dei raggruppamenti delle collettività territoriali:

– gli stabilimenti pubblici di cooperazione intercomunale e i sindacati misti, di cui agli articoli L. 5711-1 e L. 5721-8;

– i poli metropolitani;

– le agenzie dipartimentali;

– le istituzioni o organismi interdipartimentali;

– gli accordi interregionali.

Il libro II delCode général des collectivités territoriales, agli articoli da L5210-1 a L5210-4, dispone in merito agliétablissements publics de coopération intercommunale(EPCI)
e precisa che i progressi della cooperazione intercomunale si basano
sulla libera volontà dei Comuni di sviluppare progetti collettivi di
sviluppo entro il perimetro delle solidarietà.

Formano la categoria delle istituzioni pubbliche per la cooperazione intercomunale:

– i sindacati dei Comuni;

– le comunità municipali;

– le comunità urbane;

– le comunità d’agglomerato;

– i sindacati d’agglomerazione nuova;

– le metropoli.

La legge prevede una duplice categorialità di sindacati:

– sindacati intercomunali a vocazione unica (SIVU);

– sindacati intercomunali a vocazione multipla (SIVOM).

L’obiettivo
del SIVU è limitato a una sola opera o servizio intercomunale; è una
sorta di sindacato specializzato che può comunque assicurare la gestione
di più opere o servizi, a condizione che siano complementari.

L’obiettivo
del SIVOM non è limitato a una sola opera o un singolo oggetto
d’interesse intercomunale, ma include diverse vocazioni.

Lacommunauté de communes(comunità di Comuni) è un EPCI che raggruppa più Comuni su un territorio in un unico pezzo e senza enclave.

La
comunità di Comuni ha l’obiettivo di associare più enti entro uno
spazio comune di solidarietà, in vista dell’elaborazione di un progetto
di sviluppo condiviso e di pianificazione territoriale congiunta.

Lacommunaute urbaine(comunità
urbana) è un ente pubblico di cooperazione intercomunale che raggruppa
più Comuni su un territorio in un unico pezzo e senza enclave che
formano un insieme di più di 500.000 abitanti e che si associano in un
unico spazio di solidarietà, per elaborare e condurre insieme un
progetto di sviluppo urbano e territoriale.

La
comunità urbana è l’organismo pubblico di cooperazione intercomunale più
integrato ed è caratterizzata da un ampio trasferimento di competenze
in settori essenziali alla struttura della comunità spaziale; forte
integrazione che non esclude, tuttavia, che i Comuni possano conservare
alcune competenze di prossimità.

Lacommunauté d’agglomération(comunità
d’agglomerato) è un soggetto pubblico di cooperazione intercomunale che
raggruppa una serie di Comuni per più di 50.000 abitanti complessivi in
un unico pezzo e senza enclave attorno a un centro con più di 15.000
abitanti.

La soglia di popolazione di 15.000 abitanti non si
applica quando l’agglomerato comprende il capoluogo del dipartimento o
il Comune più importante del dipartimento.

La soglia di popolazione di 50.000 abitanti scende a 30.000, quando l’agglomerato comprende il capoluogo del dipartimento.

Lesyndicat d’agglomération nouvelle(i
sindacati d’agglomerazione nuova) contribuiscono a un migliore
equilibrio sociale, economico e umano delle Regioni a forte
concentrazione di popolazione, migliorando la possibilità di lavoro.

Esse
sono il frutto di operazioni d’interesse nazionale e regionale e
beneficiano per questo dell’aiuto delle Regioni, dei dipartimenti e
dello Stato.

Ciascun sindacato d’agglomerazione nuova è
amministrato da un comitato composto di membri eletti dai Consigli
municipale dei Comuni ad essa aderenti.

Le competenze di tali
sindacarti sono tracciate dall’art. 5333-1 e riguardano la materia della
programmazione e degli investimenti nel campo della pianificazione
urbana; dei trasporti; dello sviluppo economico; in materia
d’investimenti per realizzare moderne infrastrutture per nuove Città
aventi più di trenta case.

Lamétropole(la
metropoli) è un ente pubblico di cooperazione tra più Comuni associati
all’interno di uno spazio di solidarietà per porre in essere un progetto
di sviluppo economico, ecologico educativo, culturale e sociale del
proprio territorio, al fine di migliorare la competitività e la
coesione.

Possono ottenere lo stato di metropoli, senza vincoli
di durata, gli organismi di cooperazione pubblica intercomunale, che
formano alla data della sua creazione, un insieme di più di 500.000
abitanti

La Città metropolitana ha una serie molteplice di competenze, derivanti dall’art. L5217-4 delCode général des collectivités territorialesnel
campo dello sviluppo e della pianificazione economica, sociale e
culturale; della pianificazione territoriale; delle politiche abitative;
delle politiche urbane; in materia di gestione di interessi collettivi
(ad es. acqua cimiteri, mercati pubblici); in materia di tutela e
valorizzazione dell’ambiente.

L’ordinamento francese
contempla altre forme di cooperazione intercomunale, tra le quali si
ricorderà l’accordo tra soggetti pubblici, la Convenzione, la conferenza
intercomunale.

Con l’accordo, due o più Comuni possono
promuovere tra loro iniziative d’interesse comune, comprese nelle sfere
d’attribuzione dei Comuni interessati; questioni d’interesse comune
dibattuto all’interno di apposita conferenza o all’interno dei consigli
comunali interessati.

La questione
dell’intercomunalità in Francia è importante poiché l’associazionismo dà
risposte concrete al fenomeno della debolezza di numerosissimi Comuni
francesi, perché il 95 per cento di essi conta meno di 5.000 abitanti;
numero esiguo e che non consente politiche che sviluppano sul territorio
auspicate economie di scala30.

In
Francia si è voluto dunque accelerare il processo d’integrazione
comunale, facendo così emergere una sorta d’identità sovracomunale e una
razionalizzazione dell’azione di governo dei territori locali, pur
nelle inevitabile presenza di nodi critici che è necessario superare,
connessi alla difficoltà delle relazioni sovracomunali.

La leggeChevènement,n.
99-586, del 12 luglio 1999 che promuove e disciplina le cinque modalità
di associazione intercomunale fondate sulla libera volontà dei Comuni
di elaborare insieme progetti di sviluppo (articolo L5210-1 del CGCT)
sui cui vedisupra, ha dato risultati poiché ha permesso la
diffusone del fenomeno associativo comunale; tant’è che nel 2012, il
96,2% dei Comuni francesi partecipa alle Unioni di Comuni: 35.303 su
36.683 Comuni; mentre il 90,2% dei cittadini francesi risiede in
un’Unione di Comuni: 59.320.637 su circa 65.350.000 abitanti31.

In
seguito la legge n. 2010-1563, del 16 dicembre 2010, relativamente alla
riforma degli enti territoriali, promuove il completamento
dell’intercomunalità e la sua razionalizzazione.

Per semplificare il panorama istituzionale, tale legge elabora il Piano dipartimentale di cooperazione intercomunale (Schéma départemental de coopération intercomunale),
per integrare tutti i Comuni isolati a un’intercomunalità, per
razionalizzare il perimetro degli EPCI e per eliminare i sindacati
intercomunali desueti.

4.2. L’intercomunalità in Spagna.

Per
illustrare le forme di cooperazione intercomunale in Spagna è opportuno
premettere delle considerazioni d’ordine costituzionale che possono
contribuire a rendere chiaro il quadro istituzionale complessivo del
Paese32.

La
Costituzione spagnola del 1978 prevede che la Spagna è uno Stato
sociale e democratico di diritto avente la forma politica di monarchia
parlamentare.

La Costituzione spagnola afferma
l’indissolubile unità della Nazione spagnola, patria comune e
indivisibile di tutti gli spagnoli e riconosce e garantisce il diritto
all’autonomia delle nazionalità e Regioni che la compongono e la
solidarietà fra tutte le medesime.

In Spagna a partire
dal dettato della Costituzione si è avviato un ampio processo di
decentramento politico e di consolidamento di uno Stato delle autonomie,
con un marcato decentramento istituzionale, articolato in diciassette
Comunità Autonome con piena autonomia politica.

Lo
Stato, ai sensi dell’art. 137 ss. Cost. è organizzato territorialmente
in Municipi, in Province e nelle comunità autonome che si costituiscano;
tutte tali entità godono di autonomia per la gestione dei rispettivi
interessi.

Gli art. 140-142 Cost. dispongono in merito
all’amministrazione locale e prevedono la garanzia dell’autonomia dei
municipi che hanno piena personalità giuridica.

Il
governo di questi e la loro amministrazione spettano ai rispettivi
Consigli formati dai Sindaci e dai consiglieri che sono eletti dai
cittadini del municipio mediante suffragio universale, eguale, libero,
diretto e segreto, nelle forme previste dalla legge, mentre i Sindaci
sono eletti dai Consiglieri o dai cittadini.

La Spagna nel 1985 ha varato la legge n. 7, con la quale ha rinnovato l’assetto giuridico del sistema locale.

Nel
preambolo di tale legge si precisa che uno dei settori in cui maggiori
sono gli effetti prodotti è quello dell’amministrazione locale, nel
quale si trova collocato il Comune, elemento di eccellenza della
coesistenza civile.

I Comuni sono entità di base della
partecipazione del cittadino agli affari pubblici, che
istituzionalizzano e gestiscono gli interessi delle rispettive comunità.

Ai sensi della L. n. 7/1985, art. 3, gli enti locali territoriali sono:

– il Comune;

– la Provincia;

– l’isola, gli arcipelaghi, le isole Baleari e Canarie.

Godono, inoltre, dello status di enti locali:


i distretti o altri raggruppamenti di diversi Comuni, istituiti dalle
comunità autonome in conformità con questa legge e relativi statuti di
autonomia;

– le aree metropolitane;

– le associazioni dei Comuni.

Il
Comune è l’ente locale di base dell’organizzazione territoriale dello
Stato; esso ha personalità giuridica e piena capacità per la
realizzazione dei suoi scopi.

La legge n. 7/1985 prevede negli artt. 42-44, forme differenti di intercomunalità; nel caso di specie:

a) Contea;

b) Area metropolitana;

c) Consorzio di comuni.

a)
Ai sensi dell’art. 42 della L. n. 7/1985 le comunità autonome, in
conformità con i propri statuti, possono creare nel territorio di loro
competenza una Contea oppure altre entità che raggruppano vari Comuni,
con il fine di esercitare in maniera congiunta servizi d’interesse
comune.

Mediamente unaConteaè composta di 19 Comuni e la popolazione che vi risiede è costituita da poco più di 36.000 abitanti.

b) Area metropolitana (Área metropolitana):
ai sensi dell’art. 43 della L. n. 7/1985 le comunità autonome, previo
accordo con l’amministrazione dello Stato, dei Consigli locali
interessati e dei Consigli di contea, possono creare, modificare ed
eliminare, attraverso una legge, aree metropolitane, secondo i
rispettivi statuti.

Le aree metropolitane sono enti locali che
comprendono i Comuni aventi grossi agglomerati urbani tra i quali vi
sono ragioni economiche e forti legami sociali che rendono necessaria la
pianificazione congiunta e il coordinamento di determinati servizi e
lavori.

c) Consorzio di comuni (Mancomunidad municipal):
ai sensi dell’art. 44 della L. n. 7/1985 si riconosce ai Comuni il
diritto di associarsi con altri Comuni in Consorzio per la esecuzione in
comune di opere o di servizi di competenza dei Comuni medesimi.

I
Consorzi hanno personalità giuridica per il compimento dei propri fini
precisati nello statuto, il quale regola l’ambito territoriale del
Consorzio, l’oggetto della propria competenza, gli organi di governo, le
risorse su cui fare affidamento, la durata dello stesso e ogni altra
disposizione necessaria al suo funzionamento.

In seguito, la L. n. 57 del 16 dicembre 2003, rubricataMisure per la modernizzazione del governo locale,
modifica in svariate parti la legge n. 7/1985, prevedendo il
rafforzamento della strategia dell’intercomunalità e disponendo a tale
proposito, all’art. 12 che la creazione di nuovi Comuni può essere
effettuata solo se le risorse siano sufficienti per l’adempimento dei
poteri comunali e non si riduca la qualità dei servizi che venivano
forniti in precedenza.

Inoltre, fatte salve le
competenze delle Comunità autonome, lo Stato, sulla base geografica,
sociale, economico e culturale, può stabilire misure destinate a
promuovere la fusione dei Comuni, al fine di migliorare la capacità di
gestione di affari pubblici locali.

In Spagna la mappa
comunale si presenta piuttosto frammentata, poiché il 60 per cento dei
Comuni ha una popolazione inferiore a 1.000 abitanti; l’86 per cento
inferiore a 5.000 abitanti e solo il 4 per cento supera i 10.000
abitanti.

È proprio tale frammentazione a giustificare la nascita di enti amministrativi intercomunali, tra cui la “mancomunità” (mancomunidad),
come già visto, associazione comunale volontaria governata dalle
municipalità che la compongono; che nasce per l’esercizio di specifiche
funzioni o l’erogazione di particolari servizi di carattere
sovracomunale.

Le 902 “mancomunità” presenti sul
territorio spagnolo associano 5.957 municipalità, pari al 73,5 per cento
del totale dei Comuni.

Complessivamente gli enti che compongono e articolano il sistema amministrativo sul territorio nazionale sono 12.26433.

4.3. La cooperazione intercomunale in Germania.

La
Germania è una Repubblica Federale, all’interno della quale le entità
statali hanno progressivamente ceduto parti di sovranità all’apparato
federale, conservando tramite ilBundesrat(Consiglio Federale formato dai membri dei governi deiLänder) poteri di condizionamento e di veto sulla legislazione della Federazione34.

La
Legge Fondamentale tedesca, all’art. 20 dispone che «la Repubblica
Federale Tedesca è uno Stato federale democratico e sociale»; mentre
all’art. 28 prevede che «l’ordinamento costituzionale deiLänderdeve
corrispondere ai principi dello Stato di diritto repubblicano,
democratico e sociale ai sensi della presente Legge fondamentale».

Ai
Comuni deve essere garantito il diritto di regolare, sotto la propria
responsabilità, tutti gli affari della comunità locale nell’ambito delle
leggi.

Anche i Consorzi di Comuni [Gemeindeverbände]hanno, nei limiti dei loro compiti fissati dalle leggi, il diritto all’autonomia amministrativa».

Lo Stato (Bund) si articola inLänder(Stati membri),Kreise(Circondari, enti intermedi, funzionalmente analoghi alle Province italiane, ma costituiti come forma aggregativa tra Comuni) eGemeinden(Comuni), articolazioni che costituiscono i livelli necessari dell’amministrazione territoriale tedesca.

A questi tre enti, dotati di garanzia costituzionale, sono da aggiungere leGemeindeverbände(Unioni
di Comuni/Consorzi di comuni), anch’esse previste dalla Costituzione
quali forme associative per l’esercizio di servizi comuni.

Dunque la LF tedesca contempla oltre ai Comuni anche le Unioni/Consorzi di comuni.

L’art.
28, comma 2, LF, precisa che le Unioni di Comuni, nel loro ambito di
funzioni legislativamente determinato, godono del potere di auto
amministrazione sulla base delle leggi.

Essi sono enti
territoriali di diritto pubblico, dotati di un proprio statuto, di
un’assemblea dei rappresentanti degli enti e di un Presidente.

Le
Unioni di comuni benché enti di rilievo costituzionale federale, non
sono enti necessari, ma aggregazioni di Comuni su base volontaria (anche
se spesso tale elemento è frutto delle concrete pressioni delLand,
supportate da incentivi finanziari), costituite secondo legge, ai fini
dello svolgimento in modo economicamente più razionale e sostenibile di
compiti eccedenti la capacità operativa dei singoli Comuni.

Il
loro ambito funzionale è definito legislativamente, potendosi
attribuire alle Unioni di comuni sia materie di competenza comunale, sia
quella dell’amministrazione delLand.

L’ordinamento prevede anche il Consorzio comunale finalizzato (Kommunaler Zwecksverband), costituito con uno specifico mandato, talvolta a termine, relativo a singoli compiti amministrativi.

Il Circondario (KreisoLandkreis), ente territoriale di diritto pubblico presente in tutti iLändere
previsto dall’art. 28 LF, è un tipico ente intermedio tra il livello
comunale e quello regionale, assimilabile alla Provincia italiana o al
Dipartimento francese, ma con elementi differenziali.

La
Legge fondamentale non ne definisce, come invece per i Comuni, un
ambito primario di competenza, ma garantisce solo il carattere
democratico e rappresentativo della relativa struttura.

L’ordinamento giuridico tedesco presta, attraverso iLänder,particolare
attenzione al riordino dei Comuni e Circondari, finalizzata alla
riduzione del loro numero, attraverso incorporazioni e fusioni, per una
gestione più razionale ed economicamente sostenibile degli ambiti
territoriali.

In una prima fase alcuniLänderhanno
privilegiato le fusioni spontanee e volontarie, sulla base di accordi di
diritto pubblico tra gli enti interessati, previsti da apposite leggi
che preordinavano il percorso verso la fusione, anche attraverso nuove
forme giuridiche di Unioni di comuni o prevedendo particolari
sovvenzioni e misure finanziarie premiali.

Laddove iLänderhanno
riscontrato resistenze, oltre all’adozione di leggi che introducevano
forti penalizzazioni finanziarie nei confronti degli enti restii al
riordino, l’accorpamento è avvenuto per legge o, in casi di minore
importanza, con decreto governativo a contenuto normativo.

La
legittimità costituzionale dei processi di accorpamento territoriale, di
fronte alle eccezioni di incostituzionalità mosse dagli enti
interessati, è stata più volte affermata dal Tribunale costituzionale
federale (ordinanza 27 novembre 1978) il quale ha precisato che «la
garanzia costituzionale dell’autonomia comunale tutela il Comune come
livello istituzionale necessario, ma non può impedire al legislatore di
preordinare progetti di riordino territoriale che portino a fusioni o
incorporazioni di Comuni, per motivi di utilità generale, sentiti gli
enti territoriali coinvolti».

Le riforme territoriali portate avanti in una prima fase tra il 1968 e il 1978 (e poi riprese dopo la riunificazione neiLänderdell’est),
hanno conseguito risultati considerevoli, sia per quanto concerne i
Comuni, ridotti da 24.282 a 8.505 (- 65 per cento; con punte di – 80 per
cento in alcuniLänder), sia per i Circondari, ridotti da 425 a 237 (- 44,7 per cento).

Il
processo di riordino territoriale ha, ovviamente, interessato i Comuni
di minori dimensioni, determinandone una netta diminuzione.

In
particolare, nel periodo 1968-1989 i Comuni inferiori a 500 abitanti
sono passati da 10.760 a 1.735; quelli tra 500 e 1.000 abitanti da 5.706
a 1.400; quelli tra 1.000 e 2.000 abitanti da 3.850 a 1.631; quelli tra
2.000 e 5.000 abitanti da 2.406 a 1.699.

La riduzione
di Comuni e Circondari ha comportato un ridimensionamento del numero di
amministratori di enti locali: nei Circondari si è passati da 15.615 a
13.286 amministratori (- 14,9 per cento); nelle Città extracircondariali
da 5.441 a 4.169 (- 23,4 per cento); nei Comuni da 216.248 a 128.191 (-
40,7 per cento).

Il processo di riordino ha
conosciuto una seconda fase dopo la riunificazione, tra il 1991 e il
1994, nel territorio dell’ex Germania Est, in considerazione
dell’eccessiva parcellizzazione della popolazione in troppi piccoli
Comuni, conducendo al dimezzamento del numero dei Circondari, passati da
189 a 92 e alla riduzione di circa il 17 per cento del numero dei
Comuni, passati da 7.622 a 6.29335.

Non
tutti i Comuni coinvolti nell’operazione accolsero volentieri la novità
del loro riordino; molti accettarono la fusione, ma solo in cambio di
vantaggi finanziari; altri crearono a decise lotte per la loro
conservazione, dovute anche alle resistenze opposte dai politici locali
che temevano di perdere consensi.

Nel respingere i
ricorsi di questi Comuni, il Tribunale costituzionale federale ha
chiarito che la Legge fondamentale offre ai Comuni una “garanzia
istituzionale”.

Ciò significa che l’art. 28, comma 2,
LF, garantisce la funzione dell’autogoverno comunale, ma non il diritto
di ciascun singolo Comune ad esistere.

Pertanto lo
scioglimento di Comuni, l’Unione di comuni, la fusione di Comuni e altre
forme di modifica territoriale non limitano di per sé il nucleo
essenziale, costituzionalmente garantito, dell’autonomia comunale.

La
creazione di Comuni e distretti più grandi, ma a loro volta decentrati,
permetteva, infatti, una maggiore efficienza nella gestione dei
servizi, in particolare di quelli più costosi come gli ospedali, ma in
generale per l’intera attività amministrativa, specie di quella delegata
e consentiva nel contempo di ridurre i controlli, per il minor numero
di Comuni e la presenza di una amministrazione comunale più
professionale e specializzata; una più razionale delimitazione
territoriale dei Comuni rendeva inoltre possibile una migliore gestione
urbanistica.

Nonostante la decisione fosse già
abbondantemente presa, non si risparmiarono massicce campagne
d’informazione, insediamenti di commissioni di esperti, e l’attenzione a
un processo graduale e il meno traumatico possibile.

Il
coinvolgimento dei Comuni ha giocato un ruolo essenziale nella
procedura di fusione, consentendo il superamento di difficoltà e
opposizioni altrimenti insormontabili.

4.4. L’intercomunalità in Danimarca.

Il
regno di Danimarca è una monarchia costituzionale dove il potere
esecutivo viene esercitato in favore della Regina dal Primo Ministro e
dagli altri ministri che sono a capo dei rispettivi dipartimenti36.

Il
Consiglio dei Ministri e il primo ministro costituiscono il Governo,
mentre i ministri rispondono al Parlamento detto “Folketing”,
l\’assemblea legislativa monocamerale che tradizionalmente è considerata
come l’organo supremo (vale a dire che può legiferare su qualsiasi
materia e non è vincolato alle decisioni dei suoi predecessori).

Una
delle più interessanti è quella varata dal governo danese nel 2007,
basata sulla soppressione dei Comuni con meno di 20.000a abitanti, la
fissazione di un limite minimo di 30.000 abitanti per i Comuni derivanti
da fusione e la riorganizzazione del sistema delle Contee.

La
riforma, attraverso un percorso durato 5 anni, ha portato
all’istituzione di una nuova organizzazione amministrativa basata su:


la riduzione a 98 municipalità dalle precedenti 271 (quasi 2/3 in
meno), di cui solamente 33 preesistenti e le altre derivanti da fusioni;

– l’abolizione delle 13 Contee con la sostituzione attraverso 5 nuove Regioni.

Essa
è stata peraltro accompagnata da una revisione e riorganizzazione delle
competenze, al cento della quale vi è il mantenimento e sviluppo del
sistema di welfare37.

5. Il rapporto tra Costituzione e fusione di Comuni.

L’art.
133, comma 2, Cost., prevede che: «la Regione, sentite le popolazioni
interessate, può con sue leggi istituire nel proprio territorio nuovi
Comuni e modificare le loro circoscrizioni e denominazioni».

Dunque
l’iniziativa legislativa per mutare le circoscrizioni territoriali
comunali va assunta dalla Regione; di conseguenza appaiono quanto meno
esagerate le reazioni di numerosi Sindaci, di piccoli e medi Comuni che
si sono avute in questi giorni, a causa dell’intervento dell’On. Piero
Fassino38che
nella qualità di Presidente Nazionale dell’Associazione Nazionale
Comuni d’Italia (ANCI) avrebbe sostenuto la necessità di accorpare
coattivamente i Comuni fino a 5.000 abitanti o fino a 15.000 abitanti39.

I
nuovi tagli agli enti locali prospettati nella proposta di Legge di
Stabilità 2015, hanno riacceso l’attenzione intorno al tema
dell’accorpamento e fusione dei Comuni; in merito anche il Commissario
allaspending reviewCarlo Cottarelli, ha sottolineato
l’esigenza di ridurre il numero degli oltre ottomila Comuni italiani
nell’audizione alla Camera del 15 ottobre scorso40.

Le dichiarazioni del Presidente nazionale dell’ANCI Fassino e del commissario allaspending reviewCottarelli
appaiono dunque asserzioni di principio, attraverso le quali è
possibile prevedere una spinta propulsiva riguardo il fenomeno delle
fusioni di Comuni; ma allo stato e fermo restando il diritto positivo
vigente, soprattutto di natura costituzionale, non è neanche possibile
immaginare che vi possano essere azioni di accorpamento dei Comunitop-downovvero imposte dall’alto, ma siano possibili solo azionibottom up,cioè orientate dal basso verso l’alto, proprio per la garanzia offerta dall’art. 133, comma 2, Cost. di cuisupra.

Premesso
che ai sensi dell’art. 117, comma 4, «spetta alle Regioni la potestà
legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata
alla legislazione dello Stato» e che compete alle Regioni la materia
delle «circoscrizioni comunali», in quanto essa non è espressamente
inclusa tra le materie di potestà legislativa esclusiva statale, né in
quelle di potestà concorrente a seguito della nuova formulazione
dell’art. 117, Cost., introdotta con la legge costituzionale n. 3/200141,
occorre bene intendere il significato del termine «popolazioni
interessate» che vanno sentite dalla Regione, ai sensi dell’art. 133,
comma 2 Cost., per istituire con sue leggi «nuovi Comuni nel proprio
territorio e modificare le loro circoscrizioni e denominazioni».

Intanto
dal punto di vista sociologico e giuridico, l’art. 133 Cost., comma 2,
richiama la categoria della “autodeterminazione delle popolazioni
interessate” alla fusione dei Comuni.

L’autodeterminazione
è il principio in base al quale un comunità ha diritto di scegliere
liberamente il proprio sistema di governo (autodeterminazione interna);
in definitiva rappresenta un «atto con cui l’uomo si determina secondo
la propria legge, in opposizione a “determinismo”, che assume la
dipendenza del volere dell’uomo da cause non in suo potere.
L’autodeterminazione è l’espressione della libertà positiva dell’uomo e
quindi della responsabilità e imputabilità di ogni suo volere e azione»42.

Dunque,
in senso estensivo, con la categoria dell’autodeterminazione, la
comunità amministrata, nel caso dell’ente locale, può decidere in
maniera del tutto autonoma, ma all’interno della cornice legislativa
dettata dal diritto positivo vigente, di prendere parte al processo
politico concernente il proprio ente locale, al quale può conferire un
nuovo corso attraverso l’esercizio di un proprio diritto collettivo,
consistente nella possibilità anche di dar vita ad un nuovo soggetto
giuridico territoriale, ad un nuovo Comune.

La Corte Costituzionale ha avuto modo di occuparsi dell’autodeterminazione di una comunità, con la sentenza n. 453/198943,
emessa a seguito dell’Ordinanza del 28 febbraio 1989 del Pretore di
Noto che ha sollevato questione di legittimità costituzionale della
legge regionale della Sicilia 30 marzo 1981, n. 43, con la quale è stata
disposta l’aggregazione di ettari 10.295.02.01 – già appartenenti al
territorio del Comune di Noto – al contermine Comune di Palazzolo
Acreide, nonché dell’art. 6, in relazione agli artt. 7, n. 4 e 8 della
legge regionale della Sicilia 15 marzo 1963, n. 16 (Ordinamento amministrativo degli enti locali della Regione Siciliana),
recanti la disciplina generale in materia di istituzione di nuovi
Comuni e di modificazione delle circoscrizioni preesistenti.

Il giudicea quoravvisa
in primo luogo il contrasto della legge regionale 30 marzo 1981, n. 43,
con l’art. 133 della Costituzione, in quanto essa avrebbe disposto lo
scorporo di parte del territorio di un Comune e la sua aggregazione ad
un altro, senza che vi fosse stata la verifica della volontà complessiva
di tutte le popolazioni interessate o almeno dell’incidenza percentuale
delle opzioni sul totale della popolazione residente, essendosi
ritenuta sufficiente l’iniziativa legislativa assunta dal Comune di
Palazzolo Acreide con le allegate sottoscrizioni di un gruppo di
cittadini residenti nelle contrade interessate. Ma la verifica
effettuata sulla base di tali elementi «non può per il giudicea quoritenersi
sostitutiva della consultazione popolare, in quanto priva delle
guarentigie proprie di ogni consultazione, quali la libertà, la
segretezza e la effettività del diritto di voto per tutti gli elettori».

Osserva
in proposito la Corte che oggetto dell’impugnativa è sia la legge
regionale 30 marzo 1981, n. 43, che ha disposto in concreto la
contestata modificazione territoriale, sia l’art. 6, in relazione agli
artt. 7, n. 4 e 8 dell’ordinamento amministrativo degli enti locali
della Regione Siciliana, perché detto art. 6, come sostiene il giudicea quo,nel
porre la disciplina generale che concerne l’istituzione di nuovi
Comuni, la fusione di quelli esistenti, la modificazione delle loro
circoscrizioni e denominazioni, stabilisce che a ciò si addivenga con
legge della Regione senza prevedere che debbano essere sentite le
popolazioni interessate, come è previsto invece dall’art. 133, comma
secondo, della Costituzione, sia per quel che concerne l’istituzione di
nuovi Comuni che in relazione alle modificazioni in genere delle loro
circoscrizioni e denominazioni.

Tale previsione è invece contenuta nell’art. 7dell’Ordinamento amministrativo degli enti locali della Regione siciliana(legge
15 marzo 1963, n. 16) limitatamente alla istituzione di nuovi Comuni,
talché in Sicilia alla modificazione delle circoscrizioni preesistenti
può addivenirsi senza la previa audizione delle popolazioni interessate.

Invece,
ad avviso della Corte Costituzionale, l’obbligo della preventiva
audizione delle popolazioni interessate è previsto, dal parametro
costituzionale invocato nell’ordinanza di rimessione, come presupposto
sia per l’emanazione della legge che istituisce nuovi Comuni sia per
quella che dispone le altre modificazioni delle loro circoscrizioni e
denominazioni.

«Correttamente perciò il giudicea quo,
muovendo dalla legge n. 43 del 1981 che ha disposto l’aggregazione al
Comune di Palazzolo Acreide di parte del territorio già appartenente al
Comune di Noto senza che siano state preventivamente sentite le
popolazioni interessate, ha rivolto la censura di illegittimità
costituzionale sia a detta legge del 1981, sia all’art. 6, in relazione
agli artt. 7 ed 8 dell’ordinamento amministrativo degli enti locali
della Regione Siciliana, perché sono queste ultime le norme che
all’epoca in cui è stata disposta la variazione territoriale
disciplinavano le modalità per addivenirsi all’emanazione del
provvedimento di natura legislativa diretto alla istituzione di nuovi
Comuni, alla fusione di quelli esistenti ed alla modificazione delle
loro circoscrizioni e denominazioni, limitando alla sola ipotesi della
nuova istituzione (art. 7 cit.) l’obbligo di sentire le popolazioni
interessate.

Per quel che riguarda l’aspetto posto in evidenza
dalla Regione circa la natura esclusiva della potestà legislativa
attribuitale dallo Statuto in materia di circoscrizioni comunali,
osserva la Corte che l’esercizio di tale potestà non può prescindere
dall’osservanza di alcuni principi della Costituzione della Repubblica e
dal rispetto di tutti i limiti posti da essa, in quanto non derogati
dallo Statuto speciale (sentenza n. 105 del 1957).

Secondo la
Corte Costituzionale «la circostanza secondo cui negli articoli 14 e 15
dello Statuto siciliano non si faccia espressa menzione anche
dell’obbligo della previa audizione delle popolazioni interessate, non
può certo assumere il significato di deroga ad un principio di portata
generale che trova puntuale espressione negli artt. 132 e 133 della
Costituzione, ma che è comunque desumibile dal contesto dell’intero
Titolo quinto della seconda parte della Costituzione. Questa,
nell’attribuire spiccato rilievo costituzionale all’autonomia degli enti
locali territoriali, riconosce per ciò stesso la particolare importanza
che in tale quadro riveste il principio di autodeterminazione delle
popolazioni locali per quel che riguarda il loro assetto istituzionale.
Si è dunque in presenza del riconoscimento a livello costituzionale
generale di un principio ricevuto dalla tradizione storica, perché già
presente nella legislazione comunale e provinciale anteriore alla
Costituzione della Repubblica».

Ad avviso della Corte, la
Costituzione ha trasferito alle Regioni le funzioni in tema di
variazione degli enti locali territoriali, subordinandola alla duplice
garanzia della riserva di legge (regionale) e del rispetto del principio
di partecipazione delle comunità locali; principio che «è diretto a
garantire […] l’autonomia degli enti minori nei confronti delle stesse
Regioni per evitare che queste possano addivenire a compromissioni
dell’assetto preesistente senza tenere adeguato conto delle realtà
locali e delle effettive esigenze delle popolazioni direttamente
interessate».

È opportuno precisare che la specifica indicazione
del referendum come modalità idonea ad assicurare l’assolvimento
dell’obbligo di consultazione delle popolazioni interessate, previsto
dal secondo comma dell’art. 133 della Costituzione e contenuta nelle
sentenze n. 107 del 1983 e n. 204 del 1981 che riguardano le Regioni a
Statuto ordinario non può ritenersi vincolante per la Regione Siciliana
che è libera di determinare le concrete modalità dirette a garantire il
principio di autodeterminazione o di partecipazione in forme anche
equivalenti a quella tipica del referendum, purché tali da assicurare,
con pari forza, la completa libertà di manifestazione dell’opinione da
parte dei soggetti chiamati alla consultazione, al riparo cioè da ogni
condizionamento esterno nel momento del suo svolgimento e quindi con
l’osservanza delle opportune forme di segretezza adeguate a tali fini.

Con
tali precisazioni deve dichiararsi perciò fondata la questione di
legittimità costituzionale dell’art. 6 della legge regionale della
Sicilia 15 marzo 1963, n. 16, sull’ordinamento amministrativo degli enti
locali, (nella formulazione vigente all\’epoca in cui veniva disposta
con legge regionale n. 43 del 1981 la variazione territoriale) nella
parte in cui, nel prevedere che l’istituzione di nuovi Comuni, la
fusione di quelli esistenti, la modificazione delle loro circoscrizioni e
denominazioni sono stabilite con legge della Regione, non dispone che,
per ognuna delle predette ipotesi, debbano preventivamente essere
sentite le popolazioni direttamente interessate.

Pertanto la
disciplina legislativa emanata non può essere in contrasto «con il
principio costituzionale di portata generale espresso dall’art. 133,
secondo comma, della Costituzione il quale prevede che debbano essere
sentite le popolazioni interessate sia per l’istituzione di nuovi Comuni
che per qualsiasi modifica delle loro circoscrizioni e denominazioni,
ponendo così sullo stesso piano qualunque tipo di variazione
territoriale degli enti locali».

Rimanendo sempre
nell’alveo della “popolazione interessata”, ad avviso della Corte
Costituzionale, in caso di modificazioni del territorio comunale, la
popolazione interessata non sempre coincide con la totalità della
popolazione dei Comuni coinvolti dal mutamento territoriale (ma solo con
la popolazione che risiede nei territori destinati a passare altro
Comune (Corte Cost., n. 453/1989).

Qualora però si
versi nel caso di fusione o di istituzione di nuovo Comune, la
“popolazione interessata” concerne l’intera popolazione e giustifica la
consultazione della totalità dei cittadini residenti nei Comuni
coinvolti (Corte Cost. n. 433/1995).

In base a tale
ultima sentenza (Corte Cost., n. 433/1995) si evidenzia che i
ricorrenti, attraverso il TAR remittente, avevano prospettato la
violazione dell’art. 133, secondo comma, della Costituzione, da parte
dell’art. 1, comma secondo, lett. a), della legge della Regione Lazio, 8
aprile 1980, n. 19 (con conseguente illegittimità derivata del decreto
prefettizio impugnato), in quanto erano stati chiamati ad esprimersi
sulreferendumsoltanto i cittadini residenti nelle frazioni da distaccare e non tutti i cittadini di Marino.

Ad
avviso della Suprema Corte «in linea generale, quindi, popolazioni
interessate sono tanto quelle che verrebbero a dar vita ad un nuovo
Comune così come quelle che rimarrebbero nella parte, per così dire,
“residua” del Comune di origine. Altrettanto può dirsi per i
trasferimenti di popolazioni da un Comune ad un altro in conseguenza di
modificazioni delle circoscrizioni territoriali […] solo in casi
particolari potrà prescindersi dalla consultazione dell’intera
popolazione del Comune da cui una o più frazioni chiedano di
distaccarsi. Il TAR remittente, prendendo le mosse da un episodio
recente (quello dell’istituzione del Comune di Fiumicino per distacco
dal Comune di Roma), definisce tale ipotesi come quella in cui il gruppo
che chiede l’autonomia “è già esistente come fatto sociologicamente
distinto, è collegato con un’area eccentrica rispetto al capoluogo, ed
ha quindi una sua caratterizzazione distintiva” […] ma, val la pena
ripetere, si tratta di ipotesi particolari ed eccezionali che non
inficiano la regola generale direttamente ricavabile dall’art. 133,
secondo comma, della Costituzione che esige la consultazione di tutta la
popolazione del Comune o dei Comuni le cui circoscrizioni devono subire
modificazione o per la istituzione di nuovi Comuni o per il passaggio
di parti di territorio e di popolazione da un Comune all’altro».

La
Corte Costituzionale (Sent. n. 237, depositata il 19 luglio 2004, in
G.U. 28 luglio 2004,) nel giudizio di legittimità costituzionale
dell’art. 1 (recte:articolo unico) della legge della Regione Campania 7 luglio 2003, n. 14, recante «Cambio di denominazione del “Comune di Ascea” in “Comune di Ascea-Velia”»,
promosso con ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri, secondo
il quale la legge sarebbe stata deliberata in violazione dell’art. 133,
secondo comma, della Costituzione e dell’art. 60, primo comma, dello
statuto della Regione, in quanto non è stata preceduta dalla
consultazione referendaria della popolazione interessata), ritiene che
«nella giurisprudenza di questa Corte è consolidato il principio secondo
cui l’art. 133, secondo comma, della Costituzione, che nell’attribuire
alla Regione il potere, con legge di “istituire nel proprio territorio
nuovi Comuni e modificare le loro circoscrizioni e denominazioni”,
prescrive di sentire “le popolazioni interessate”, comporta, per le
Regioni a statuto ordinario, l’obbligo di procedere a tal fine mediante
referendum (cfr. sentenze n. 204 del 1981; n. 107 del 1983; n. 279 del
1994).

Tale principio non è mai stato oggetto di applicazione
giurisprudenziale in tema di mutamento della denominazione di un Comune:
ma il tenore testuale dell’art. 133, secondo comma, della Costituzione
non consente di escludere questa ipotesi da quelle, unitariamente
contemplate dalla norma costituzionale, in cui è obbligatorio il ricorso
al referendum. Ipotesi nella quale la volontà della popolazione ha
motivo di esprimersi riguardo ad un elemento non secondario
dell’identità dell’ente esponenziale della collettività locale».

Ad
avviso della dottrina e alla luce delle affermazioni della Suprema
Corte, la regola generale è quella del coinvolgimento dell’intera
popolazione; la regola particolare, invece, è quella che consente di
valutare, di volta in volta, il coinvolgimento solo di alcune parti
della popolazione44.

La consultazione delle popolazioni locali nei procedimenti di variazione territoriale è prevista anche dall’art. 5 dellaCarta europea delle autonomie locali45alla quale l’Italia ha dato esecuzione con legge n. 439/198946.

LaCarta europea delle autonomie localiè
un atto vincolante da parte dei sottoscrittori; premesso che nel
preambolo si legge che «le collettività locali costituiscono uno dei
principali fondamenti di ogni regime democratico [e che] il diritto dei
cittadini a partecipare alla gestione degli affari pubblici fa parte dei
principi democratici comuni a tutti gli Stati membri del Consiglio
d’Europa», l’art. 1 prevede che «le Parti s’impegnano a considerarsi
vincolate dagli articoli seguenti, nella maniera e nella misura
prescritta dall’art. 12 della presente Carta»; mentre l’art. 5 dellaCarta europea delle autonomie locali, rubricatoTutela dei limiti territoriali delle collettività locali,
dispone che «per ogni modifica dei limiti locali territoriali, le
collettività locali interessate, dovranno essere preliminarmente
consultate, eventualmente mediante referendum, qualora ciò sia
consentito dalla legge».

6. La fusione di Comuni nella legislazione ordinaria.

l numero dei Comuni in Italia complessivamente ammonta a ben 8.057; il numero dei cc. dd. Piccoli Comuni47assomma
a 5.640, con un’incidenza di Piccoli Comuni sul totale dei Comuni pari
al 70,0 per cento; mentre i Comuni con più di 5.000 abitanti sono 2.417 e
rappresentano il 30,0 per cento del totale dei Comuni italiani.

I
Piccoli Comuni fino a 1.000 abitanti sono 1.976 e rappresentano il 24,5
per cento dei Piccoli Comuni; tra 1.001 e 2.500 abitanti sonno 2.104 e
rappresentano il 26,1 per cento; quelli tra 2.501 e 5.000 abitanti sono
1.560 e rappresentano il 19, 4 per cento48.

Esaminando i dati contenuti nell’Atlante dei Piccoli Comunidel 2013 e comparandoli con quelli dell’Atlante dei Piccoli Comuni2014,
si può vedere come il numero assoluto dei Comuni nel 2014 si riduce,
passando da 8.093 a 8.057 (-36); i Piccoli Comuni passano da 5.693 a
5.640 (-53); i Comuni con più di 5.000 abitanti passano da 2.400 a 2.417
(+17), proprio a dimostrazione dei processi di fusione in atto tra
alcuni Comuni.

Dapprima che fosse introdotta nell’ordinamento la L. n. 142/1990, il d. p. r. n. 616/1977, all’art. 16, rubricatoCircoscrizioni comunali,
comma 3, disponeva che: «fino all’entrata in vigore della legge sulle
autonomie locali non possono essere istituiti nuovi Comuni con
popolazione inferiore a 5.000 abitanti».

Entrata in
vigore la legge sull’ordinamento delle autonomie locali (L. n.
142/1990), la fusione di Comuni veniva disciplinata dall’art. 11,
rubricatoModifiche territoriali, fusione ed istituzione di comuni,
il quale prevedeva che: «1. A norma degli articoli 117 e 133 della
Costituzione, le Regioni possono modificare le circoscrizioni
territoriali dei Comuni sentite le popolazioni interessate, nelle forme
previste dalla legge regionale. Salvo i casi di fusione tra più Comuni,
non possono essere istituiti nuovi Comuni con popolazione inferiore a
10.000 abitanti o la cui costituzione comporti, come conseguenza, che
altri comuni scendano sotto tale limite.

2. Le Regioni
predispongono un programma di modifica delle circoscrizioni comunali e
di fusione dei piccoli Comuni e lo aggiornano ogni cinque anni, tenendo
anche conto delle Unioni costituite ai sensi dell’articolo 26.

3.
La legge regionale che istituisce nuovi Comuni, mediante fusione di due
o più Comuni contigui, prevede che alle comunità di origine o ad alcune
di esse siano assicurate adeguate forme di partecipazione e di
decentramento dei servizi.

4. Al fine di favorire la fusione di
Comuni con popolazione inferiore a 5.000 abitanti anche con Comuni di
popolazione superiore, oltre agli eventuali contributi della Regione, lo
Stato eroga, per i dieci anni successivi alla fusione stessa, appositi
contributi straordinari commisurati ad una quota dei trasferimenti
spettanti ai singoli Comuni che si fondono.

5. Nel caso di
fusione di due o più Comuni con popolazione inferiore a 5.000 abitanti,
tali contributi straordinari sono calcolati per ciascun Comune. Nel caso
di fusione di uno o più Comuni con popolazione inferiore a 5.000
abitanti con uno o più Comuni di popolazione superiore, i contributi
straordinari sono calcolati soltanto per i Comuni con popolazione
inferiore a 5.000 abitanti ed iscritti nel bilancio del Comune
risultante dalla fusione, con obbligo di destinarne non meno del 70 per
cento a spese riguardanti esclusivamente il territorio ed i servizi
prestati nell’ambito territoriale dei Comuni soppressi, aventi
popolazione inferiore a 5.000 abitanti».

Dunque se con
il d. p. r. n. 616/1977 venivano frenate le velleità municipalistiche
di numerose realtà territoriali che agivano nel senso della conquista
della loro autonomia istituzionale, ponendo l’art. 16, comma 3, uno
sbarramento di natura demografica di almeno 5.000 abitanti, con l’art.
11 della L. n. 142/1990, la soglia per poter far nascere nuovi Comuni
veniva innalzata a 10.000 abitanti, salvo che il nuovo Comune fosse il
prodotto di un processo di fusione intercomunale, nel qual caso veniva
consentita la deroga al limite demografico dei 10.000 abitanti49.

Anche
le Unioni di comuni erano interessate dal processo di fusione, poiché
la L. n. 142/1990, all’art. 26, nel disciplinare le forme associative
unionali, prevedeva che esse, entro dieci anni dalla loro costituzione,
dovessero portare alla fusione degli enti coinvolti o allo scioglimento
dell’Unione stessa; fatto che può essere considerato, a buona ragione,
una delle cause dell’insuccesso delle Unioni di comuni, in quanto sullo
sfondo di quest’ultime vi era un impegno irreversibile dei Comuni
partecipanti all’Unione, costituito, appunto, dalla fusione finale dei
Comuni interessati.

La legge sull’ordinamento delle
autonomie locali prevedeva che le Regioni dovessero predisporre un
programma di modifica delle circoscrizioni comunali e di fusione dei
piccoli Comuni che andava aggiornato ogni cinque anni, tenendo anche
conto delle Unioni costituite ai sensi dell’articolo 26.

L’art.
11 della legge n. 142/1990 in esame, proprio per la strategicità del
processo di fusione di comuni, prevedeva anche meccanismi
d’incentivazione finanziaria nel caso di fusione di Comuni con
popolazione inferiore a 5.000 abitanti anche con Comuni di popolazione
superiore; nel caso di fusione di due o più Comuni con popolazione
inferiore a 5.000 abitanti; nel caso di fusione di uno o più Comuni con
popolazione inferiore a 5.000 abitanti con uno o più Comuni di
popolazione superiore.

L’istituzione di nuovi Comuni
attraverso la fusione dei Comuni interessati, doveva avvenire attraverso
l’approvazione di un’apposita legge regionale, la quale doveva
assicurare che alle comunità di origine o ad alcune di esse, fossero
date adeguate forme di partecipazione e di decentramento dei servizi.

Molti dei contenuti della L. n. 142/1990 sono stati successivamente modificati dalla legge Napolitano-Vigneri, L. n. 265/199950, art. 6, che ha in parte modificato la normativa prevista dall’art. 11 della L. n 142/1990.

Infatti
una modificazione sostanziale apportata alla normativa concerne le
Regioni che non debbono soltanto predisporre «un programma di modifica
delle circoscrizioni comunali e di fusione dei piccoli Comuni» da
aggiornare ogni cinque anni; ma devono varare un programma di
individuazione degli ambiti per la gestione associata sovracomunale di
funzioni e servizi, realizzato anche attraverso le Unioni «concordandolo
con i Comuni nelle apposite sedi concertative»; programma che è
aggiornato non più ogni cinque anni, ma ogni tre anni e «che può
prevedere altresì la modifica di circoscrizioni comunali e i criteri per
la corresponsione di contributi e incentivi alla progressiva
unificazione».

Riguardo all’incentivazione finanziaria veniva
modificato il comma 4 dell’art. 11 della L. n. 142/1990 e previsto che:
«al fine di favorire la fusione dei comuni, oltre ai contributi della
Regione, lo Stato eroga, per i dieci anni successivi alla fusione
stessa, appositi contributi straordinari commisurati ad una quota dei
trasferimenti spettanti ai singoli Comuni che si fondono» e abrogato il
comma 5 dell’art. 11 della L. n. 142/199051.

Adesso la fusione di Comuni è disciplinata dal d. lgs. n. 267/200052(TUEL),
il quale nel premettere all’art. 13 che il Comune, per l’esercizio
delle funzioni in ambiti territoriali adeguati, attua forme sia di
decentramento sia di cooperazione con altri Comuni e con la Provincia,
prevede la fusione di Comuni negli artt. 15, rubricatoModifiche territoriali, fusione ed istituzione di Comunie 16, rubricatoMunicipi.

6.1 Le modifiche territoriali del Comune.

Secondo
l’art. 114 della Costituzione il Comune è un elemento costitutivo della
Repubblica ed è ente autonomo dotato di un proprio statuto, di poteri e
funzioni, secondo i principi fissati dalla Costituzione.

In passato il Comune era definito come ente autarchico53territoriale,
formato da un insieme di persone ivi residenti o accomunate da
specifici interessi, esercitabili in una definita porzione del
territorio statale.

L’autarchia è un attributo del Comune che
può essere intesa in una duplicità di significati: come situazione di un
soggetto capace di badare a se stesso, alle proprie esigenze e come
capacità di autogovernarsi.

L’autarchia esplicitata nella
seconda accezione indica il potere di emanazione di atti amministrativi
che hanno la medesima natura e gli stessi effetti degli atti
amministrativi statali.

Ora l’art. 5 Cost. dispone che: «[…] la
Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie
locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio
decentramento amministrativo; adegua i principi ed i metodi della sua
legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento».

Viene
dunque riconosciuta e promossa l’autonomia locale, adeguati i principi e
i metodi della legislazione statale alle esigenze dell’autonomia e del
decentramento e riaffermato il carattere unitario della Repubblica e
pertanto condivisa l’idea della profonda conciliabilità tra l’unità
politica dello Stato e l’autonomia degli enti territoriali minori che
implica non più relazioni di natura gerarchica tra Stato, Regioni,
Province e comuni ma rapporti improntati al principio di leale
collaborazione e cooperazione tra loro, superando in questo modo la
condizione di autarchia che presupponeva la subordinazione degli enti
territoriali minori allo Stato.

Il TUEL di cui al d.lgs. n. 267/2000, all’art 3, rubricatoAutonomia dei Comuni e delle Province, prevede che:

«…
le comunità locali, ordinate in Comuni e Province, sono autonome … i
Comuni e le Province hanno autonomia statutaria, normativa,
organizzativa e amministrativa, nonché autonomia impositiva e
finanziaria nell’àmbito dei propri statuti e regolamenti e delle leggi
di coordinamento della finanza pubblica […]».

Il
Comune è innanzitutto un soggetto giuridico appartenente al novero degli
enti locali, al pari delle Province, Città metropolitane, Comunità
montane, Comunità isolane, Unioni di comuni, in base al disposto
dell’art. 2 del TUEL che si applica proprio agli enti come sopra
individuati oltre che ai Consorzi «cui partecipano enti locali, con
esclusione di quelli che gestiscono attività aventi rilevanza economica
ed imprenditoriale e, ove previsto dallo statuto, dei Consorzi per la
gestione dei servizi sociali».

Il Comune, ai sensi dell’art. 3
TUEL «è l’ente locale che rappresenta la propria comunità, ne cura gli
interessi e ne promuove lo sviluppo»; è un ente esponenziale dei suoi
cittadini che operano su di un territorio, nei confronti dei quali
rivolge la sua attenzione, curandone gli interessi e badando a
promuovere lo sviluppo; è un ente naturale (che preesiste allo Stato)
che costituisce l’elemento basilare della Repubblica, come previsto
dall’art. 114 Cost.: «la Repubblica è costituita dai Comuni, dalle
Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato».

Si
realizza con il nuovo art. 114 Cost. un rinnovato posizionamento del
Comune nell’ambito del sistema repubblicano, ponendo tale ente alla base
della stessa Repubblica, invertendo così l’ordine costitutivo della
stessa che in precedenza assegnava allo Stato il ruolo di zoccolo duro
del sistema costituzionale repubblicano.

Secondo autorevole
dottrina «Comuni, Province e Città metropolitane sono titolari di
funzioni amministrative proprie e di quelle conferite con legge statale o
regionale, secondo le rispettive competenze. Se … le funzioni sono
sempre conferite con legge, la distinzione tra funzioni proprie e
conferite finisce col risultare ardua»54.

Ai
sensi dell’art. 13 del TUEL: «1. Spettano al Comune tutte le funzioni
amministrative che riguardano la popolazione e il territorio comunale,
precipuamente nei settori organici dei servizi alla persona e alla
comunità, dell’assetto e utilizzazione del territorio e dello sviluppo
economico, salvo quanto non sia espressamente attribuito ad altri
soggetti dalla legge statale o regionale, secondo le rispettive
competenze.

2. Il Comune, per l’esercizio delle funzioni in
ambiti territoriali adeguati, attua forme sia di decentramento sia di
cooperazione con altri Comuni e con la Provincia».

Il
Comune ha un proprio territorio ovvero una porzione di spazio geografico
su cui ed entro la quale il Comune esercita la sua sovranità, tanto sui
beni, quanto sulle persone fisiche e giuridiche; il territorio, quindi,
è il luogo all’interno del quale i gruppi sociali organizzati
stanziano, svolgono le loro attività.

È inconcepibile
pensare al Comune senza riferirsi al territorio come suo elemento
necessario e indefettibile, i cui confini possono essere anche oggetto
di modificazioni.

Nel territorio di competenza possono distinguersi differenti articolazioni del Comune:

Capoluogo:
centro abitato che assegna il nome al Comune e che può essere ritenuto
il suo elemento più importante anche perché sede degli uffici pubblici;

Quartiere: elemento centrale della vita urbana, settore specifico all’interno della Città55;

Sobborgo: [dal latinosuburbium, dasub(sotto) eurbs(Città)] nuovo quartiere cittadino, collegato con l’insieme della Città secondo le esigenze della crescita urbana;

Frazione: parte del territorio comunale che corrisponde a un centro abitato staccato dal capoluogo56;

Circoscrizione:
è organo del Comune dotato di autonomia, attraverso cui si esercita il
decentramento, al fine dell’esercizio delle funzioni delegate dal Comune
e per consentire la partecipazione, la consultazione e la gestione dei
servizi di base57.

L’assetto territoriale di un Comune può essere fatto oggetto di modificazioni, a seguito di fatti tutelati dall’ordinamento.

Può
accadere, infatti, che vi sia distacco di una o di più frazioni da un
Comune, con contestuale aggregazione ad un altro Comune contermine;
oppure che vi sia un ampliamento territoriale di un Comune, a discapito
del territorio di un altro Comune contermine.

Si
ribadisce che ai sensi dell’art. 117 Cost., alle Regioni è conferita
potestà legislativa esclusiva in tema di circoscrizioni comunali; mentre
l’art. 133, comma 2, Cost. dispone che: «la Regione, sentite le
popolazioni interessate, può con sue leggi istituire nel proprio
territorio nuovi Comuni e modificare le loro circoscrizioni e
denominazioni»; mentre l’art. 133, comma 2 Cost., evidenzia due principi
importanti concernenti l’istituzione di nuovi Comuni: il primo
riguardante la riserva di legge regionale e non più semplici
provvedimenti amministrativi come avveniva nel passato; il secondo
l’obbligo di consultazione delle popolazioni interessate finalizzata
all’ottenimento del necessario consenso dei soggetti interessati.

La
L. n. 570/1960, art. 8, comma 2, lett. a), prevede che i Consigli
comunali si rinnovano integralmente quando, in conseguenza di una
modificazione territoriale, si sia verificata una variazione di almeno
un quarto della popolazione del Comune.

Appare
opportuno accennare alla materia concernente la determinazione,
rettifica e contestazione dei confini, disciplinata dal T.U. n.
383/1934, art. 32, il quale disponeva che:

«qualora il confine
fra due o più Comuni non sia delimitato da segni naturali facilmente
riconoscibili o comunque dia luogo a incertezze, ne può essere disposta
la determinazione ed eventualmente la rettifica su domanda dei Podestà
ovvero di ufficio. I confini fra due o più Comuni possono essere
rettificati per ragioni topografiche o per altre comprovate esigenze
locali, quando i rispettivi Podestà ne facciano domanda e ne fissino
d’accordo le condizioni».

Di determinazione, rettifica e contestazione di confini parla anche il d.p.r. n. 1/1972, all’art. 1, lett. d).

La
determinazione di confini si rende necessaria quando il limite tra due o
più Comuni non sia definito da segni naturali che evitino qualunque
incertezza in merito e si definisce apponendo i segni necessari su
richiesta dei Consigli comunali; la rettifica dei confini si ha nel caso
sia necessario rivedere i confini di due Comuni anche per ragioni
locali inerenti, ad es., la costruzione di una infrastruttura pubblica,
nel vicendevole interesse dei Comuni contermini, su richiesta dei
Consigli comunali dei Comuni interessati; la contestazione di confini si
riscontra quando due Comuni ritengano di avere entrambi un diritto
sulla medesima parte di territorio e di conseguenza sia fondamentale,
per dirimere la questione, appurare lostatus quo.

La
contestazione dei confini è disciplinata dall’art. 267 T.U. n.
283/1934, il quale dispone che: «i ricorsi per contestazioni di confini
fra Comuni e Province sono decisi con decreto del Presidente della
Repubblica, udito il Consiglio di Stato.

Contro il provvedimento
è ammesso il ricorso, anche in merito, al Consiglio di Stato, in sede
giurisdizionale, ovvero il ricorso straordinario al Presidente della
Repubblica».

I ricorsi per contestazioni di confini fra Comuni e
Province sono decisi con decreto del Presidente della Repubblica, udito
il Consiglio di Stato.

Contro il provvedimento è ammesso il
ricorso, anche in merito, al Consiglio di Stato, in sede
giurisdizionale, oppure il ricorso straordinario al Presidente della
Repubblica e la materia è di competenza della Regione che può delegare
le Province, come nel caso della Regione Lombardia (L.r. n. 52/1973) e
della Regione Lazio (L.r. n. 70/1980); salvo il caso di contestazioni di
confini tra Comuni appartenenti a Regioni differenti, la cui competenza
è dello Stato.

6.2. Istituzione di nuovi Comuni.

Le
modificazioni territoriali erano disciplinate dall’art. 11, della L. n.
142/1990, rubricato modificazioni territoriali, fusione ed istituzione
di Comuni il quale disponeva a che:

«1. a norma degli articoli
117 e 133 della Costituzione, le Regioni possono modificare le
Circoscrizioni territoriali dei Comuni sentite le popolazioni
interessate, nelle forme previste dalla legge regionale. Salvo i casi di
fusione tra più Comuni, non possono essere istituiti nuovi Comuni con
popolazione inferiore a 10.000 abitanti o la cui costituzione comporti,
come conseguenza, che altri Comuni scendano sotto tale limite.

2.
Le Regioni predispongono, concordandolo con i Comuni nelle apposite
sedi concertative, un programma di individuazione degli ambiti per la
gestione associata sovracomunale di funzioni e servizi, realizzato anche
attraverso le Unioni, che può prevedere altresì la modifica di
Circoscrizioni comunali e i criteri per la corresponsione di contributi e
incentivi alla progressiva unificazione. Il programma è aggiornato ogni
tre anni, tenendo anche conto delle Unioni costituite ai sensi
dell’articolo 26.

3. La legge regionale che istituisce nuovi
Comuni, mediante fusione di due o più Comuni contigui, prevede che alle
comunità di origine o ad alcune di esse siano assicurate adeguate forme
di partecipazione e di decentramento dei servizi.

4. Al fine di
favorire la fusione dei Comuni, oltre ai contributi della Regione, lo
Stato eroga, per i dieci anni successivi alla fusione stessa, appositi
contributi straordinari commisurati ad una quota dei trasferimenti
spettanti ai singoli Comuni che si fondono.

5. Nel caso di
fusione di due o più Comuni con popolazione inferiore a 5.000 abitanti,
tali contributi straordinari sono calcolati per ciascun Comune. Nel caso
di fusione di uno o più Comuni con popolazione inferiore a 5.000
abitanti con uno o più Comuni di popolazione superiore, i contributi
straordinari sono calcolati soltanto per i Comuni con popolazione
inferiore a 5.000 abitanti ed iscritti nel bilancio del Comune
risultante dalla fusione, con obbligo di destinarne non meno del 70 per
cento a spese riguardanti esclusivamente il territorio ed i servizi
prestati nell’ambito territoriale dei Comuni soppressi, aventi
popolazione inferiore a 5.000 abitanti».

Attualmente, il processo di fusione di Comuni è disciplinato dagli artt. 15 e 16, del d.lgs. n. 267/2000.

L’art. 15 del TUEL, rubricatoModifiche territoriali, fusione ed istituzione di Comunidispone
che: «a norma degli articoli 117 e 133 della Costituzione, le Regioni
possono modificare le circoscrizioni territoriali dei Comuni sentite le
popolazioni interessate, nelle forme previste dalla legge regionale.
Salvo i casi di fusione tra più Comuni, non possono essere istituiti
nuovi Comuni con popolazione inferiore ai 10.000 abitanti o la cui
costituzione comporti, come conseguenza, che altri Comuni scendano sotto
tale limite.

I Comuni che hanno dato avvio al procedimento di
fusione ai sensi delle rispettive leggi regionali possono, anche prima
dell’istituzione del nuovo ente, mediante approvazione di testo conforme
da parte di tutti i Consigli comunali, definire lo statuto che entrerà
in vigore con l’istituzione del nuovo Comune e rimarrà vigente fino alle
modifiche dello stesso da parte degli organi del nuovo Comune
istituito. Lo statuto del nuovo Comune dovrà prevedere che alle comunità
dei Comuni oggetto della fusione siano assicurate adeguate forme di
partecipazione e di decentramento dei servizi.

Al fine di
favorire la fusione dei Comuni, oltre ai contributi della Regione, lo
Stato eroga, per i dieci anni decorrenti dalla fusione stessa, appositi
contributi straordinari commisurati ad una quota dei trasferimenti
spettanti ai singoli Comuni che si fondono.

La denominazione delle borgate e frazioni è attribuita ai Comuni ai sensi dell’articolo 118 della Costituzione».

L’art.
15, comma 1, secondo periodo del TUEL, prevede che: «salvo i casi di
fusione tra più Comuni, non possono essere istituiti nuovi Comuni con
popolazione inferiore ai 10.000 abitanti o la cui costituzione comporti,
come conseguenza, che altri Comuni scendano sotto tale limite»; dunque è
imposto il limite all’istituzione di nuovi Comuni, nel senso che non
possono essere istituiti Comuni con popolazione inferiore a 10.000
abitanti o la cui costituzione comporti, come conseguenza, che altri
Comuni scendano sotto tale limite.

Nel caso di fusione
di Comuni non trova applicazione la soglia demografica indicata di
10.000 abitanti, proprio per favorire l’istituto della fusione in esame.

L’istituzione di nuovi Comuni può avvenire tramite:

– fusione tra due o più Comuni;


erezione in Comune autonomo di due o più frazioni o borgate che fanno
parte dello stesso Comune e che si distaccano dal Comune di origine;

– erezione in Comune autonomo di borgate o frazioni appartenenti a Comuni diversi, mediante distacco dal Comune di origine;

– fusione per incorporazione di uno o più Comuni in altro Comune contiguo.

In
caso di fusione, di istituzione di nuovo Comune o quando ne ricorrono
esigenze toponomastiche, storiche, culturali e turistiche che ne
giustifichino il cambiamento, il Comune può mutare denominazione58.

In base alla L. n. 56/2014, art. 1, commi 109 ss. che integralmente vengono riportatiinfra,
per il primo mandato amministrativo, agli amministratori del nuovo
Comune nato dalla fusione di più Comuni cui hanno preso parte Comuni con
popolazione inferiore a 5.000 abitanti, si applicano le disposizioni in
materia di ineleggibilità, incandidabilità, inconferibilità e
incompatibilità previste dalla legge per i Comuni con popolazione
inferiore a 5.000 abitanti.

In caso di fusione di uno o
più Comuni, fermo restando quanto previsto dall’articolo 16 del TUEL,
il Comune risultante dalla fusione adotta uno statuto che può prevedere
anche forme particolari di collegamento tra il nuovo Comune e le
comunità che appartenevano ai Comuni oggetto della fusione.

Al
Comune istituito a seguito di fusione tra Comuni aventi ciascuno meno
di 5.000 abitanti si applicano, in quanto compatibili, le norme di
maggior favore, incentivazione e semplificazione previste per i Comuni
con popolazione inferiore a 5.000 abitanti e per le Unioni di comuni.

I
Comuni istituiti a seguito di fusione possono utilizzare i margini di
indebitamento consentiti dalle norme vincolistiche in materia a uno o
più dei Comuni originari e nei limiti degli stessi, anche nel caso in
cui dall’unificazione dei bilanci non risultino ulteriori possibili
spazi di indebitamento per il nuovo ente.

Il
commissario nominato per la gestione del Comune derivante da fusione è
coadiuvato, fino all\’elezione dei nuovi organi, da un comitato
consultivo composto da coloro che, alla data dell’estinzione dei Comuni,
svolgevano le funzioni di Sindaco e senza maggiori oneri per la finanza
pubblica. Il comitato è comunque consultato sullo schema di bilancio e
sull’eventuale adozione di varianti agli strumenti urbanistici. Il
commissario convoca periodicamente il comitato, anche su richiesta della
maggioranza dei componenti, per informare sulle attività programmate e
su quelle in corso.

Gli obblighi di esercizio
associato di funzioni comunali derivanti dal comma 28, dell’articolo 14
del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni,
dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, e successive modificazioni, si
applicano ai Comuni derivanti da fusione entro i limiti stabiliti dalla
legge regionale, che può fissare una diversa decorrenza o modularne i
contenuti. In mancanza di diversa normativa regionale, i Comuni
istituiti mediante fusione che raggiungono una popolazione pari o
superiore a 3.000 abitanti, oppure a 2.000 abitanti se appartenenti o
appartenuti a Comunità montane, e che devono obbligatoriamente
esercitare le funzioni fondamentali dei Comuni, secondo quanto previsto
dal citato comma 28 dell’articolo 14, sono esentati da tale obbligo per
un mandato elettorale.

I consiglieri comunali cessati
per effetto dell’estinzione del Comune derivante da fusione continuano a
esercitare, fino alla nomina dei nuovi rappresentanti da parte del
nuovo Comune, gli incarichi esterni loro eventualmente attribuiti. Tutti
i soggetti nominati dal Comune estinto per fusione in enti, aziende,
istituzioni o altri organismi continuano a esercitare il loro mandato
fino alla nomina dei successori.

Le risorse destinate,
nell’anno di estinzione del Comune, alle politiche di sviluppo delle
risorse umane e alla produttività del personale di cui al contratto
collettivo nazionale di lavoro relativo al comparto Regioni e autonomie
locali del 1° aprile 1999, pubblicato nel supplemento ordinario n. 81
alla Gazzetta Ufficiale n. 95 del 24 aprile 1999, dei Comuni oggetto di
fusione confluiscono, per l’intero importo, a decorrere dall’anno di
istituzione del nuovo Comune, in un unico fondo del nuovo Comune avente
medesima destinazione.

Salva diversa disposizione della legge regionale:

a)
tutti gli atti normativi, i piani, i regolamenti, gli strumenti
urbanistici e i bilanci dei Comuni oggetto della fusione vigenti alla
data di estinzione dei Comuni restano in vigore, con riferimento agli
ambiti territoriali e alla relativa popolazione dei comuni che li hanno
approvati, fino alla data di entrata in vigore dei corrispondenti atti
del commissario o degli organi del nuovo Comune;

b) alla data di
istituzione del nuovo Comune, gli organi di revisione contabile dei
comuni estinti decadono. Fino alla nomina dell\’organo di revisione
contabile del nuovo Comune le funzioni sono svolte provvisoriamente
dall’organo di revisione contabile in carica, alla data dell’estinzione,
nel Comune di maggiore dimensione demografica;

c) in assenza di
uno statuto provvisorio, fino alla data di entrata in vigore dello
statuto e del regolamento di funzionamento del consiglio comunale del
nuovo Comune si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni dello
statuto e del regolamento di funzionamento del Consiglio comunale del
comune di maggiore dimensione demografica tra quelli estinti.

Il Comune risultante da fusione:

a)
approva il bilancio di previsione, in deroga a quanto previsto
dall’articolo 151, comma 1, del testo unico, entro novanta giorni
dall\’istituzione o dal diverso termine di proroga eventualmente previsto
per l\’approvazione dei bilanci e fissato con decreto del Ministro
dell’Interno;

b) ai fini dell’applicazione dell’articolo 163 del
testo unico, per l’individuazione degli stanziamenti dell’anno
precedente assume come riferimento la sommatoria delle risorse stanziate
nei bilanci definitivamente approvati dai Comuni estinti;

c)
approva il rendiconto di bilancio dei Comuni estinti, se questi non
hanno già provveduto, e subentra negli adempimenti relativi alle
certificazioni del patto di stabilità e delle dichiarazioni fiscali.

Ai
fini di cui all’articolo 37, comma 4, del testo unico, la popolazione
del nuovo Comune corrisponde alla somma delle popolazioni dei Comuni
estinti.

Dalla data di istituzione del nuovo Comune e
fino alla scadenza naturale resta valida, nei documenti dei cittadini e
delle imprese, l’indicazione della residenza con riguardo ai riferimenti
dei Comuni estinti.

L’istituzione del nuovo Comune non priva i
territori dei Comuni estinti dei benefìci che a essi si riferiscono,
stabiliti in loro favore dall’Unione europea e dalle leggi statali. Il
trasferimento della proprietà dei beni mobili e immobili dai Comuni
estinti al nuovo Comune è esente da oneri fiscali.

Nel
nuovo Comune istituito mediante fusione possono essere conservati
distinti codici di avviamento postale dei comuni preesistenti.

I
Comuni possono promuovere il procedimento di incorporazione in un
Comune contermine; in tal caso il Comune incorporante conserva la
propria personalità, succede in tutti i rapporti giuridici al Comune
incorporato e gli organi di quest’ultimo decadono alla data di entrata
in vigore della legge regionale di incorporazione. Lo statuto del Comune
incorporante prevede che alle comunità del Comune cessato siano
assicurate adeguate forme di partecipazione e di decentramento dei
servizi. A tale scopo lo statuto è integrato entro tre mesi dalla data
di entrata in vigore della legge regionale di incorporazione. Le
popolazioni interessate sono sentite ai fini dell’articolo 133 della
Costituzione mediante referendum consultivo comunale, svolto secondo le
discipline regionali e prima che i Consigli comunali deliberino l’avvio
della procedura di richiesta alla Regione di incorporazione. Nel caso di
aggregazioni di Comuni mediante incorporazione è data facoltà di
modificare anche la denominazione del Comune. Con legge regionale sono
definite le ulteriori modalità della procedura di fusione per
incorporazione.

Le Regioni, nella definizione del
patto di stabilità verticale, possono individuare idonee misure volte a
incentivare le Unioni e le fusioni di Comuni, fermo restando l’obiettivo
di finanza pubblica attribuito alla medesima Regione.

I
Comuni risultanti da una fusione, ove istituiscano Municipi, possono
mantenere tributi e tariffe differenziati per ciascuno dei territori
degli enti preesistenti alla fusione, non oltre l’ultimo esercizio
finanziario del primo mandato amministrativo del nuovo Comune.

I
Comuni risultanti da una fusione hanno tempo tre anni dall’istituzione
del nuovo Comune per adeguarsi alla normativa vigente che prevede
l’omogeneizzazione degli ambiti territoriali ottimali di gestione e la
razionalizzazione della partecipazione a Consorzi, aziende e società
pubbliche di gestione, salve diverse disposizioni specifiche di maggior
favore.

Per l’anno 2014, è data priorità nell’accesso
alle risorse di cui all’articolo 18, comma 9, del decreto-legge 21
giugno 2013, n. 6959,
convertito, con modificazioni, dalla legge 9 agosto 2013, n. 98, ai
progetti presentati dai Comuni istituiti per fusione nonché a quelli
presentati dalle Unioni di comuni.

Infine l’art. 23-bis del d. l. 24 giugno 2014, n. 90,Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l\’efficienza degli uffici giudiziari(convertito
con L. n. 114/2014), concernente la materia dell’acquisizione di
lavori, beni e servizi da parte dei Comuni, in vigore dal 19 agosto 2014
prevede che al comma 3-bisdell’articolo 33 del Codice di cui
al decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163 e successive modificazioni
venga aggiunto, il seguente periodo: «per i Comuni istituiti a seguito
di fusione l’obbligo di cui al primo periodo decorre dal terzo anno
successivo a quello di istituzione»60.

È
del tutto evidente che il nuovo Comune scaturito dalla fusione dei
Comuni singolarmente esistenti, dovrà provvedere all’elezione del nuovo
Sindaco e del Consiglio comunale.

Ai sensi della L. n.
570/1960, art. 8, le elezioni si compiono entro tre mesi
dall’effettuazione delle operazioni prescritte dall’art. 38 della legge 7
ottobre 1947, n. 1058, oppure dal verificarsi delle condizioni di cui
alla lettera b), il quale prevede che: «qualora per effetto di
modificazioni intervenute nelle circoscrizioni comunali occorra
procedere alla compilazione delle liste elettorali di un nuovo Comune,
questo è tenuto a provvedervi, non oltre novanta giorni dalla
pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale del decreto col quale è
costituito, mediante stralcio dei propri iscritti dalle liste del Comune
ex-capoluogo».

La procedura per giungere alla fusione tra più Comuni è lunga e complessa.

È
necessario dapprima che i singoli Comuni interessati deliberino il
progetto di fusione dei Comuni in un unico Comune, attraverso singole
deliberazioni assunte dai rispettivi Consigli comunali, ai sensi
dell’art. 42 TUEL.

Le deliberazioni assunte dai
Consigli comunali costituiscono soltanto la prima tappa di un nuovo
percorso, al termine del quale potrà prendere corpo l’idea della fusione
intercomunale.

In seguito alle deliberazioni approvate dei
singoli Consigli comunali, sarà il turno della Regione che dovrà
approvare una legge regionalead hocche disponga l’effettiva fusione tra i Comuni.

A
tal proposito la Giunta regionale trasmette all’assemblea legislativa
una proposta di legge che dovrà essere sottoposta a un referendum tra la
popolazione coinvolta; la mancata pronuncia favorevole sul referendum
comporta la decadenza della proposta di legge.

La
Regione prima dell’approvazione della legge regionale per il varo della
fusione intercomunale procede all’approvazione di un provvedimento
legislativo di riordino territoriale complessivo, con il quale promuove e
sostiene anche finanziariamente, oltre che dal punto di vista
tecnico-amministrativo i processi di fusione tra Comuni.

Il programma di riordino territoriale, in linea di larga massima, contiene:

a)
gli indici generali di riferimento demografico, territoriale ed
organizzativo, sulla base dei quali i Comuni possono realizzare una
gestione della funzione o del servizio in modo efficiente, efficace ed
economico;

b) la ricognizione degli ambiti territoriali per la gestione associata intercomunale di funzioni e servizi;

c) la determinazione dei criteri e delle modalità per la concessione dei contributi annuali e straordinari.

Al
termine dell’iter previsto, il Consiglio regionale approverà la legge
istitutiva del nuovo Comune, mediante la fusione dei Comuni interessati.

La
legge regionale istituirà il nuovo Comune, provvedendo, altresì, alla
denominazione dello stesso, alla determinazione della nuova
circoscrizione comunale e deldies a quodi operatività del nuovo Comune.

La
legge regionale stabilirà la sede legale del Comune, il capoluogo dello
stesso e la successione nella titolarità dei beni e dei rapporti
giuridici dei Comuni singoli; l’eventuale istituzione dei Municipi,
quali organismi privi di personalità giuridica, aventi lo scopo di
valorizzare le comunità locali; le regole concernenti la gestione del
nuovo Comune fino all’elezione degli organi comunali; il regime degli
atti amministrativi; le norme concernenti la mobilità del personale dei
Comuni d’origine; le disposizioni riguardanti la prima elezione del
Sindaco e del Consiglio comunale.

È chiaro che questo non è un percorso vincolante, nel senso che ogni Regione può darsi un proprio iter.

6.3. I Municipi forme di partecipazione e decentramento delle comunità originarie.

Nel
caso sia stata concretizzata la fusione di due o più Comuni contermini,
occorre provvedere alla definizione di adeguate forme di partecipazione
nei confronti delle comunità d’origine ovvero nei riguardi di tutti i
Comuni che sono stati soppressi oppure ad alcuni di loro.

Tali
forme sono rappresentate dai Municipi che hanno fatto la comparsa
nell’ordinamento degli enti locali per la prima volta con la L. n.
142/1990, art. 11, il quale disponeva che la legge regionale che avesse
istituito nuovi Comuni, mediante fusione di due o più Comuni contigui,
dovesse prevedere che alle comunità di origine o ad alcune di esse,
fossero assicurate adeguate forme di partecipazione e di decentramento
dei servizi.

Il successivo art. 12 disponeva che:

«1.
la legge regionale di cui al comma 3 dell’articolo 11 può prevedere
l’istituzione di municipi nei territori delle comunità di cui al comma 4
dello stesso articolo, con il compito di gestire i servizi di base
nonché altre funzioni delegate dal Comune.

2. Lo statuto del
Comune regola l’elezione, contestualmente al Consiglio comunale, di un
prosindaco e di due consultori da parte dei cittadini residenti nel
Municipio, sulla base di liste concorrenti e tra candidati ivi residenti
ed eleggibili a consigliere comunale.

3. Sono eletti i
candidati della lista che ottiene il, maggior numero di voti. La carica
di prosindaco e di consultore è incompatibile con quella di consigliere
comunale.

4. A quanto non previsto dal presente articolo provvedono lo statuto ed il regolamento comunale.

5. Si applicano agli amministratori dei Municipi le norme previste per gli amministratori dei Comuni di pari popolazione».

L’art. 6, comma 2, della L. n. 265/1999, riscriveva un nuovo art. 12, il quale stabiliva che:

«lo statuto comunale può prevedere l’istituzione di Municipi nei territori delle comunità di cui all’articolo 11, comma 3.

2.
Lo statuto e il regolamento disciplinano l’organizzazione e le funzioni
dei Municipi, potendo prevedere anche organi eletti a suffragio
universale diretto. Si applicano agli amministratori dei municipi le
norme previste per gli amministratori dei Comuni con pari popolazione».

Riguardo alla natura giuridica dei Municipi, autorevole dottrina61ritiene
che «essi conservino […] la natura di organismi di partecipazione e di
decentramento […] con l’estensione che sarà data a tali compiti dallo
statuto»62qualificazione che esclude la loro natura di enti esponenziali.

Ciò
detto ne consegue che la rappresentatività e il perseguimento degli
interessi generali della popolazione del Comune sono di competenza del
Comune nato dal processo di fusione, mentre i Municipi gestiscono
funzioni o servizi secondo le norme indicate dallo statuto .

I
Municipi non hanno legittimazione processuale per la tutela degli
interessi che sono stati affidati ad essi, in quanto tale tutela compete
alla persona giuridica comune di cui gli stessi sono parte63;
ad avviso di altra qualificata dottrina i Municipi, invece, sono enti
di deconcentrazione, in quanto «espressione dello spostamento di
competenze amministrative dal centro alla periferia, mediante semplice
assegnazione o ripartizione di compiti, ispirata a ragioni tecniche, di
opportunità, di efficienza o di altro tipo»64.

Ora il vigente TUEL, disciplinando l’istituzione dei Municipi, con l’art. 16 dispone che:

«1.
Nei Comuni istituiti mediante fusione di due o più Comuni contigui lo
statuto comunale può prevedere l’istituzione di municipi nei territori
delle comunità di origine o di alcune di esse.

2. Lo statuto e
il regolamento disciplinano l’organizzazione e le funzioni dei municipi,
potendo prevedere anche organi eletti a suffragio universale diretto.
Si applicano agli amministratori dei municipi le norme previste per gli
amministratori dei Comuni con pari popolazione».

Di
conseguenza a differenza di quanto previsto con la pregressa normativa
che assegnava centralità alla legge regionale che debba essere lo
statuto del Comune nato a seguito di fusione di due o più Comuni
contigui a poter prevedere o meno «…l’istituzione di Municipi nei
territori delle comunità di origine o di alcune di esse …»; di
conseguenza l’istituzione di Municipi è atto facoltativo del Comune che
dovrà porre in essere tale previsione nel proprio statuto.

Si registra in tal modo uno spostamento di competenza dalla Regione al nuovo Comune, originato dalla fusione.

L’art.
16 del d. lgs. n. 267/2000 non individua più, come era previsto
nell’art. 12, della L. n. 142/1990, gli organi dei Municipi (prosindaco e
due consultori scelti dai cittadini residenti nel Municipio, sulla base
di liste concorrenti e tra candidati ivi residenti ed eleggibili a
consigliere comunale), ma dispone che lo statuto e il regolamento
possono prevedere «… anche organi eletti a suffragio universale diretto
…», con il risultato che essi possono anche essere indicati dal
Consiglio comunale o dal Sindaco, in base ad un’ampia autonomia
statutaria e regolamentare prevista dall’ordinamento.

Lo statuto e il regolamento disciplinano anche l’organizzazione e le funzioni dei Municipi.

Il
regolamento che disciplina, così come previsto dall’art. 7 del TUEL,
l’organizzazione e il funzionamento degli organismi di partecipazione, è
approvato dal Consiglio comunale e prevede gli organi municipali:

· Consiglio municipale;

· Giunta municipale;

· Presidente del Municipio;

· i principi programmatici del Municipio;

·
le prerogative dei consiglieri municipali, ai quali, comunque, si
applicano, così come dispone l’art. 16, comma 2, del TUEL, le norme
previste per gli amministratori dei Comuni con pari popolazione;

· le regole per la partecipazione dei cittadini all’amministrazione municipale;

· le garanzie inerenti l’informazione e comunicazione ai cittadini riguardo l’attività del Municipio;

· i principi concernenti l’esercizio dell’iniziativa popolare;

· le regole concernenti il potere di presentazione di interrogazioni, interpellanze, ordini del giorno;

· petizioni della comunità municipale;

· di proposta di referendum;

· di istituzione di organismi di partecipazione;

. di funzionamento delle Commissioni consiliari;

· di norme concernenti i rapporti con gli organi centrali del Comune.

In
particolare, l’art. 65, comma 3, del d.lgs. n. 267/2000, al fine di
evitare di vanificare le esigenze di decentramento ed autogoverno
perseguite con l’introduzione dei Municipi ed in conformità all’ormai
costituzionalizzato principio di sussidiarietà, sancisce che «la carica
di consigliere comunale è incompatibile con quella di consigliere di una
circoscrizione del Comune».

Il TAR del Lazio (sez.
II, 15 dicembre 2004, n. 162409), è del parere che in forza dell’art.
27, comma 2, dello statuto del Comune di Roma, relativamente alle
attribuzioni e al funzionamento degli organi dei Municipi, per quanto
non espressamente previsto dal regolamento del decentramento
amministrativo e dal regolamento del Municipio, si applicano, in quanto
compatibili, le disposizioni vigenti per gli organi del Comune.

I
Municipi hanno proprie competenze; difatti i giudici del Consiglio di
Stato sono dell’avviso che nel settore commerciale vi sia la «competenza
dei Consigli municipali ad approvare i piani di massima occupabilità
[e] la possibilità che essi possano individuare ulteriori aree di
divieto di concessione di occupazione spazi e aree pubbliche […], mentre
spetta solo alla Giunta comunale stabilire le aree della città che non
possono costituire oggetto di concessione, il potere attribuito ai
singoli Municipi di individuare la massima occupabilità delle aree
rientranti nella propria circoscrizione territoriale non esclude affatto
la possibilità di escludere dalla concessione di suolo pubblico
permanente di specifiche zone»65.

I
Municipi hanno competenza a carattere partecipativo, consultivo oppure
di amministrazione attiva, significando, inoltre, che lo statuto del
Comune di nuova istituzione, a seguito di processo di fusione, potrebbe
creare nelle sedi municipali forme decentrate di reale erogazione dei
servizi al cittadino e al sistema delle imprese, allestendo uffici
pubblici decentrati, all’interno dei quali impiegare risorse umane.

6.4. L’incentivazione finanziaria statale.

Il d. m. n. 318/200066è
il regolamento attraverso cui vengono determinati i criteri di riparto
dei fondi erariali destinati al finanziamento delle procedure di fusione
tra i comuni e l’esercizio associato di funzioni comunali.

Ai sensi dell’art. 1, rubricatoRipartizione dei contributi complessivi,
commi 2 e 3: «2. Ai Comuni derivanti da procedure di fusione, alle
Unioni di comuni ed alle Comunità montane svolgenti l’esercizio
associato di funzioni comunali spettano rispettivamente il 15, il 60 ed
il 25 per cento del totale dei fondi erariali annualmente a ciò
destinati in base alle disposizioni di legge vigenti.

3. Le
risorse annualmente non utilizzate risultanti dalla partizione di cui al
comma 1 possono essere utilizzate nel caso di insufficienza dei fondi
per l’una o l’altra delle destinazioni previste».

L’art.
6 del suddetto d. m. n. 318/2000 prevedeva che: « 1. Ai sensi
dell’articolo 11, comma 4, della legge 8 giugno 1990, n. 142, e
successive modifiche ed integrazioni, ai Comuni scaturenti dalla fusione
di Comuni preesistenti spetta, per un periodo di dieci anni, un
contributo straordinario pari al 20 per cento dei trasferimenti erariali
complessivamente attribuiti ai Comuni preesistenti per l’ultimo
esercizio precedente alla istituzione del nuovo ente.

2. In caso
di allargamento del nuovo ente, mediante la fusione di altri Comuni, si
applica il comma 1 con riferimento ai trasferimenti attribuiti a tali
Comuni.

3. Salvo quanto previsto dall’articolo 1, comma 3, in
caso di insufficienza dei fondi erariali destinati al finanziamento
delle fusioni di Comuni, il contributo spettante per la fusione è
proporzionalmente ridotto.

4. I Comuni istituiti a seguito della
fusione di Comuni inviano la richiesta di contributo entro il 30
settembre dell’anno di costituzione per la relativa attribuzione entro
il 31 ottobre dello stesso anno. Il contributo è attribuito in
proporzione al periodo temporale di istituzione. Ai nuovi enti che
inviano la richiesta di contributo successivamente al termine del 30
settembre e non oltre il 31 dicembre dell\’anno di costituzione sarà
attribuito per lo stesso anno e per l’anno successivo un contributo nei
limiti delle disponibilità di fondi esistenti a seguito degli avvenuti
riparti.

5. Ai Comuni istituiti a seguito della fusione di
comuni alla data anteriore all’entrata in vigore della legge n. 265 del
1999 spetta il contributo in applicazione dei criteri stabiliti dal
presente decreto».

Successivamente il d. l. n. 95/201267, art. 20, comma 5, come sostituito dall’art. 23, comma 1, lett. f-ter) del d. l. 24 giugno 2014, n. 9068,
convertito, con modificazioni, dalla L. 11 agosto 2014, n. 114, ha
disposto la soppressione delle disposizioni contenute nel presente
decreto, incompatibili con i commi 1, 3 e 4 del medesimo art. 20, a
decorrere dall’anno 2013.

Superato dunque il d. m. n.
318/2000, le disposizioni per favorire la fusione di Comuni e
razionalizzazione dell’esercizio delle funzioni comunali, sono contenute
nel d. l. n. 95/2012, art. 2069, il quale prevede che:

«1.
A decorrere dall’anno 2013, il contributo straordinario ai Comuni che
danno luogo alla fusione, di cui all’articolo 15, comma 3, del citato
testo unico di cui al decreto legislativo n. 267 del 2000, è commisurato
al 20 per cento dei trasferimenti erariali attribuiti per l’anno 2010,
nel limite degli stanziamenti finanziari previsti.

2. Le disposizioni di cui al comma 1 si applicano per le fusioni di Comuni realizzate negli anni 2012 e successivi.

3.
Con decreto del Ministro dell’Interno di natura non regolamentare sono
disciplinate modalità e termini per l’attribuzione dei contributi alla
fusione dei Comuni.

4. A decorrere dall’anno 2013 sono
conseguentemente soppresse le disposizioni del regolamento concernente i
criteri di riparto dei fondi erariali destinati al finanziamento delle
procedure di fusione tra i Comuni e l’esercizio associato di funzioni
comunali, approvato con decreto del Ministro dell’interno del 1°
settembre 2000, incompatibili con le disposizioni di cui ai commi 1, 2 e
3 del presente articolo».

Il d. m. 10 ottobre 201270definisce
le modalità ed i termini per il riparto dei contributi alle fusioni di
Comuni realizzate negli anni 2012 e successivi e prevede che ai Comuni
istituiti a seguito di fusione realizzate negli anni 2012 e successivi
spetta, a decorrere dall’anno 2013 e per un periodo di dieci anni, un
contributo straordinario che è commisurato al 20 per cento dei
trasferimenti erariali attribuiti per l’anno 2010 ai comuni che hanno
dato luogo a fusione, nel limite degli stanziamenti finanziari previsti;
mentre il d. m. 11 giugno 201471definisce
a decorrere dall’anno 2014 le modalità ed i termini per il riparto dei
contributi spettanti ai Comuni istituiti dall’anno 2014 in conseguenza
di procedure di fusione di Comuni.

In base all’ art. 2 del d. m. 11 giugno 2013, rubricatoModalità di attribuzione del contributoè
previsto che: «1. Ai Comuni istituiti con procedure di fusione, con
decorrenza dall’anno 2014, spetta, per un periodo di dieci anni, un
contributo straordinario pari al 20 per cento dei trasferimenti erariali
attribuiti per l’anno 2010 ai Comuni facenti parte della fusione, nel
limite degli stanziamenti finanziari previsti per legge.

2. La
quantificazione del contributo, che deriva dai fondi erariali stanziati e
dal numero degli enti che ogni anno ne hanno diritto, sarà assicurata
nel limite massimo dei richiamati fondi. Qualora il fondo risultasse
insufficiente alla copertura delle richieste pervenute, il contributo è
assegnato mediante riparto del fondo stesso, secondo il criterio
proporzionale.

3. Ai Comuni istituiti a seguito della fusione di
Comuni è attribuito il contributo statale previsto dal comma 1, nei
termini previsti dall’indicato art. 12, comma 1, del decreto-legge n. 16
del 2014. A tal fine le Regioni che istituiscono Comuni a seguito di
fusioni devono inviare, entro e non oltre il mese successivo al loro
provvedimento, copia della legge regionale istitutiva della fusione al
Ministero dell’interno – Dipartimento per gli affari interni e
territoriali – Direzione centrale della finanza locale Piazza del
Viminale 1, 00184 Roma – Ufficio Sportello Unioni, in via ordinaria e al
seguente indirizzo mail:finanzalocale.prot@pec.interno.it.

4.
Nel caso di ampliamento del numero degli enti facenti parte di un
Comune costituito mediante fusione, la Regione che ha adottato il
provvedimento di ampliamento deve inviare, entro e non oltre il mese
successivo al provvedimento, copia della legge regionale di ampliamento
della fusione al Ministero dell’interno – Dipartimento per gli affari
interni e territoriali – Direzione centrale della finanza locale, Piazza
del Viminale 1, 00184 Roma – Ufficio Sportello Unioni in via ordinaria e
all’indirizzo mail:finanzalocale.prot@pec.interno.it.
L’ampliamento del numero degli enti facenti parte di un Comune nato per
fusione comporta la rideterminazione del contributo straordinario
attribuito originariamente a decorrere dal 1° gennaio dell’anno
successivo al provvedimento regionale di ampliamento, ferma restando la
decorrenza originaria del contributo straordinario attribuito al Comune
fuso prima del provvedimento regionale di ampliamento».

Va
ricordato che gli stanziamenti finanziari previsti, almeno a livello
statale, sono attualmente pari ad euro 1.549.370 (L. n. 662/1996), oltre
ai 30 milioni di euro, previsti dalla legge di stabilità per il 2014
(L. 27 dicembre 2013, n. 147) per ciascuno degli anni 2014, 2015 e 2016
per Comuni istituiti a seguito di fusione. Nel caso di ampliamento del
nuovo Ente mediante la fusione con altri Comuni, il contributo
straordinario sarà rideterminato

Il Ministero
dell’Interno, Direzione Centrale della Finanza Locale, in data 11 giugno
2014 ha emanato il decreto con cui ha erogato 9.535.820,44 euro, da
ripartire a beneficio delle 26 fusioni di comuni realizzate, che hanno
interessato ben 62 Comuni del centro e del nord del nostro Paese.

6.5. L’incentivazione finanziaria regionale.

I contributi regionali rappresentano la partecipazione finanziaria della Regione di riferimento ai processi di fusioni comunali.

La
L. n. 142/1990, all’art. 11, commi 4 e 5, prevedeva che al fine di
favorire la fusione di Comuni con popolazione inferiore a 5.000 abitanti
anche con Comuni di popolazione superiore, oltre agli eventuali
contributi della Regione, lo Stato erogasse, per i dieci anni successivi
alla fusione stessa, appositi contributi straordinari commisurati ad
una quota dei trasferimenti spettanti ai singoli Comuni che si fondono.

Nel
caso di fusione di due o più Comuni con popolazione inferiore a 5.000
abitanti, tali contributi straordinari venivano calcolati per ciascun
Comune; mentre qualora c’era fusione di uno o più Comuni con popolazione
inferiore a 5.000 abitanti con uno o più Comuni di popolazione
superiore, i contributi straordinari venivano calcolati soltanto per i
Comuni con popolazione inferiore a 5.000 abitanti ed iscritti nel
bilancio del Comune risultante dalla fusione, con obbligo di destinarne
non meno del 70 per cento a spese riguardanti esclusivamente il
territorio ed i servizi prestati nell’ambito territoriale dei Comuni
soppressi, aventi popolazione inferiore a 5.000 abitanti.

Successivamente,
la modificazione apportata all’art. 11, dalla L. n. 265/1999 comportò
che: «al fine di favorire la fusione dei Comuni, oltre ai contributi
della Regione, lo Stato eroga, per i dieci anni successivi alla fusione
stessa, appositi contributi straordinari commisurati ad una quota dei
trasferimenti spettanti ai singoli Comuni che si fondono».

Di
conseguenza, i contributi della Regione ai Comuni che si fondevano non
erano più «eventuali», come prevedeva l’originario art. 11 della L. n.
142/1990, ma «obbligatori».

Occorre, altresì,
ricordare l’art. 33, comma 4 del d. lgs. n. 267/2000, il quale prevede
che: «al fine di favorire il processo di riorganizzazione sovracomunale
dei servizi, delle funzioni e delle strutture, le Regioni provvedono a
disciplinare, con proprie leggi, nell’ambito del programma territoriale
di cui al comma 3, le forme di incentivazione dell’esercizio associato
delle funzioni da parte dei Comuni, con l’eventuale previsione nel
proprio bilancio di un apposito fondo. A tale fine, oltre a quanto
stabilito dal comma 3 e dagli articoli 30 e 32, le Regioni si attengono
ai seguenti principi fondamentali:

a) nella disciplina delle incentivazioni:

1)
favoriscono il massimo grado di integrazione tra i Comuni, graduando la
corresponsione dei benefici in relazione al livello di unificazione,
rilevato mediante specifici indicatori con riferimento alla tipologia ed
alle caratteristiche delle funzioni e dei servizi associati o
trasferiti in modo tale da erogare il massimo dei contributi nelle
ipotesi di massima integrazione;

2) prevedono in ogni caso una
maggiorazione dei contributi nelle ipotesi di fusione e di Unione,
rispetto alle altre forme di gestione sovracomunale;

b)
promuovono le Unioni di comuni, senza alcun vincolo alla successiva
fusione, prevedendo comunque ulteriori benefici da corrispondere alle
Unioni che autonomamente deliberino, su conforme proposta dei Consigli
comunali interessati, di procedere alla fusione».

Dall’inizio
del 2014 sono stati istituiti 24 nuovi Comuni a seguito di fusioni di
territorio che hanno portato alla soppressione di un totale di 57
Comuni.

Le Regioni interessate a processi di fusione di Comuni nel 2014 sono state finora72:

– Emilia-Romagna (4);

– Friuli-Venezia Giulia (1);

– Lombardia (9);

– Marche (2);

– Toscana (7);

– Veneto (1).

Assumendo
ora come esempio la Regione Puglia, si può vedere che essa si è dotata,
ultima in ordine di tempo, della l. r. n. 34/201473sulladisciplina dell’esercizio associato delle funzioni Comunali.

In
base all’art. 2, la Regione Puglia promuove il massimo grado di
integrazione tra i Comuni, incentiva la fusione di Comuni, lo sviluppo
delle Unioni di comuni e le Convenzioni, al fine di assicurare
l’effettivo e più efficiente esercizio delle funzioni e dei servizi loro
spettanti.

La fusione di Comuni è disciplinata dall’art. 6, il quale, riportato integralmenteinfra, prevede che:

«1. Ai sensi dell’articolo 4 della legge regionale 20 dicembre 1973, n. 26 (Norme in materia di circoscrizioni comunali),
i Comuni possono essere riuniti tra loro e uno o più Comuni possono
essere aggregati a un altro Comune, quando i rispettivi Consigli
comunali ne facciano domanda e ne fissino in accordo tra loro le
condizioni; la Regione, prima di adottare il relativo provvedimento
costitutivo ha l’obbligo di sentire le popolazioni interessate mediante
consultazione elettorale.

2. Ai sensi del comma 2 dell’articolo
133 della Costituzione, la Regione, sentite le popolazioni interessate,
può con sue leggi istituire nel proprio territorio nuovi Comuni e
modificare la propria circoscrizione e denominazioni.

3. Ai
sensi del comma 1 dell’articolo 15 del d.lgs. 267/2000, la Regione può
modificare le circoscrizioni territoriali dei Comuni sentite le
popolazioni interessate, nelle forme previste dalla legge regionale.

4.
Su richiesta dei Comuni interessati alla fusione, che può avvenire
anche per incorporazione, deliberata dai rispettivi Consigli comunali,
la Giunta regionale presenta un disegno di legge per l’istituzione del
nuovo Comune.

5. Il progetto di legge regionale deve comprendere opportunamente:

a) la descrizione dei confini dell’istituendo Comune e di tutti i comuni interessati;

b) la cartografia in scala 1:10.000, o superiore, relativa ai suddetti confini;

c)
le indicazioni di natura demografica e socio-economica relative sia
alla nuova realtà territoriale che agli enti locali coinvolti, nonché
del loro stato patrimoniale a supporto dell’istituzione di un nuovo
Comune;

d) gli elementi finanziari significativi tratti dall’ultimo bilancio preventivo e consuntivo approvato dai Comuni interessati;

e) una proposta di riorganizzazione e gestione dei servizi sul territorio interessato, che ne evidenzi i vantaggi;

f) le deliberazioni dei Consigli comunali.

6.
La Commissione consiliare regionale competente, constatata la
completezza e correttezza della documentazione di cui al comma 5,
esprime il proprio parere in merito all’indizione del referendum
consultivo, ovvero in merito alla possibilità di assumere i referendum
eventualmente già effettuati dai Comuni interessati ai sensi del d.lgs.
n. 267/2000, secondo le norme dei rispettivi statuti e regolamenti e
rispondenti al dettato dell’articolo 133, ultimo comma, della
Costituzione.

7. Il parere della commissione consiliare
regionale è quindi trasmesso al Consiglio regionale per il suo esame
finalizzato all’indizione del referendum, ovvero della presa d’atto
della deliberazione, ovvero della delibera che fa propri i risultati dei
referendum effettuati dai Comuni.

8. Acquisiti i risultati del
referendum, la commissione consiliare regionale, entro sessanta giorni
dalla data di proclamazione dei risultati del referendum, esprime il
proprio parere in merito al progetto di legge e lo invia al Consiglio
regionale.

9. Il Comune di nuova istituzione o il Comune la cui
circoscrizione risulta ampliata subentra nella titolarità dei rapporti
giuridici attivi e passivi che attengono al territorio e alle
popolazioni sottratte al Comune o ai Comuni di origine.

10. Al
Comune di nuova istituzione vanno trasferite le risorse strumentali,
finanziare e umane da parte dei Comuni originari, ferme restando, per il
personale, le posizioni economiche e giuridiche già acquisite».

Con
riguardo all’incentivazione all’esercizio associato di funzioni e
servizi comunali, l’art. 11 prevede che nella ripartizione delle risorse
disponibili, la Giunta regionale tiene conto, nell’ordine, dei seguenti
criteri di preferenza:

a) fusioni di Comuni;

b) Unioni di comuni;

c) Convenzioni.

I
contributi finanziari correnti destinati a fusioni di Comuni e Unioni
di comuni avranno i limiti temporali di durata stabiliti dalla Giunta
regionale, tenendo conto delle richieste pervenute da parte dei Comuni.

I
contributi correnti, entro i limiti della dotazione annua di bilancio,
sono assegnati in misura massima pari a euro 5 mila annui per ogni
funzione comunale trasferita alla forma associativa, fino al limite
massimo di euro 60 mila annui e in base al numero di Comuni partecipanti
alla medesima, pari a euro 4 mila annui per ogni partecipante alla
forma associativa.

Tali contributi correnti vengono
moltiplicati per 1,20 se l’esercizio associato avviene attraverso Unioni
di comuni e per 2,00 nel caso di fusione o incorporazione di Comuni.

I
contributi da assegnare che vengono concessi annualmente, sono
rideterminati ogni cinque anni o allorquando si determina una variazione
del numero di Comuni che costituiscono l’Unione.

La
Regione Puglia concede, altresì, incentivi finanziari a concorso delle
spese per l’elaborazione di progetti di riorganizzazione territoriale.

La
dotazione finanziaria complessiva messa a disposizione della Regione
Puglia a sostegno delle forme associative comunali e delle fusioni di
Comuni, ammonta a euro 800.000,00 per gli esercizi finanziari a partire
dal 2015.

In base alla clausola valutativa di cui
all’art. 21 della l. r. n. 34/2014: «1. Annualmente, dopo il primo anno
dalla data di entrata in vigore della presente legge, la Giunta
regionale trasmette al Consiglio regionale una relazione contenente:

a) il quadro dei finanziamenti erogati in base alle richieste pervenute, suddivisi per tipologia della forma associativa;

b)
il numero delle costituzioni associative successive alla data di
entrata in vigore della presente legge, con descrizione delle forme
prescelte;

c) la descrizione dei progetti richiesti e presentati per lo sviluppo e l’ottimizzazione delle gestioni associate;

d) le variazioni delle forme associative intervenute successivamente all’erogazione dei contributi;

e)
il numero dei corsi di formazione organizzati sia autonomamente, sia in
collaborazione con le autonomie locali e i loro organismi di
rappresentanza».

In tal modo la Regione potrà avere un
quadro complessivamente più preciso delle forme associative e delle
modificazioni territoriali comunali in corso e calibrare meglio le
risorse finanziarie da mettere a disposizione anche delle fusioni di
Comuni che si intendono realizzare in Puglia.

6.6 Lo studio di fattibilità del processo di fusione.

Lo
studio di fattibilità rappresenta un documento prodromico al processo
di fusione di Comuni che consente agli enti ad esso interessati di poter
analizzare i punti di forza dell’idea istitutiva di un nuovo ente
locale o di quella che può consentire l’incorporazione di un complesso
di Comuni all’interno di un solo Comune.

Esso non può
essere considerato strumento perfetto, ma mezzo di supporto ad un’idea
innovativa come è quella della fusione, offrendo aglistakeholderuna base di confronto e concertazione basata su informazioni, dati oggettivi acquisiti.

In
sostanza senza un adeguato studio di fattibilità non è possibile
procedere correttamente nel verso desiderato, poiché così facendo si
assumerebbero decisioni errate, mancando quest’ultime di ogni base
scientifica, su cui poter effettuare le necessarie valutazioni di
merito.

Lo studio di fattibilità serve a ricostruire
il quadro conoscitivo degli elementi economico-finanziari di partenza
dei Comuni interessati, dei servizi erogati, in modo da evidenziare
eventuali criticità del modello organizzato precedente, rispetto a
quello successivo che s’intende conseguire del quale vanno analizzati i
punti di forza e di debolezza che possono ostacolare il conseguimento
dell’obiettivo finale della fusione di Comuni.

Un
aspetto rilevante dello studio di fattibilità inerisce al coinvolgimento
delle strutture comunali interessati e dei cittadini dei Comuni
coinvolti dal processo di fusione.

Molte sono, infatti, le variabili che influenzano questo percorso:

– le dimensioni dei Comuni coinvolti;

– la maggiore o minore omogeneità dimensionale tra gli stessi;

– l’abitudine o la predisposizione a collaborare e il livello di fiducia reciproca;

– le caratteristiche socio-economiche del territorio;


le specifiche problematiche dei singoli Comuni o dei servizi e delle
funzioni amministrative che attualmente sono gestiti in forma associata;

– il grado di accordo tra gli amministratori nel raggiungere questo obiettivo.

Un secondo aspetto generale concerne la gestione dei fattori di resistenza alla fusione.

Essi possono riguardare:

– la mancata percezione dei vantaggi che si vogliono ottenere;

– la necessità di modificare le competenze tipiche delle dirigenze e dei funzionari;

– la preoccupazione di perdere alcune leve di azione sul proprio territorio;

– il timore della perdita di identità delle singole municipalità.

In
definitiva lo studio di fattibilità è uno strumento conoscitivo utile a
supportare le valutazioni relative all’opportunità di adottare scelte
di tipo associativo o di ampliare l’ambito di operatività; in base ai
contenuti dello studio di fattibilità sarà possibile compiere una prima
verifica tecnica di realizzabilità dal punto di vista organizzativo e
gestionale, oltre che istituzionale.

Le dimensioni di indagine ed analisi riguardano:

– l’indagine demografica e socio economica;

– le caratteristiche territoriali;

– i servizi gestiti in forma associata;

– l’analisi dello scenario normativo;

– la formulazione proposta di azioni di comunicazione coordinate.

La Regione Emilia Romagna con deliberazione della Giunta regionale, n. 544/2014 ha approvato iContenuti minimi degli studi di fattibilità, ai sensi della l. r. 21 dicembre 2012 n. 21,Misure
per assicurare il governo territoriale delle funzioni amministrative
secondo i principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza
e
con l’art. 27 della medesima legge, al fine di favorire il riordino
territoriale e la razionalizzazione delle forme di gestione associata o
la fusione di Comuni, impegna la Regione a fornire assistenza tecnica
per l’impostazione delle questioni istituzionali e l’elaborazione dei
relativi atti e ad erogare agli enti locali che abbiano specificamente
deliberato in proposito contributi destinati a concorrere alle spese
sostenute per l’elaborazione di progetti di riorganizzazione
sovracomunale delle strutture, dei servizi e delle funzioni.

L’art.
27 della l. r. 21 dicembre 2012 n. 21, al fine di favorire il riordino
territoriale e la razionalizzazione delle forme di gestione associata
previste dalla presente legge o la fusione di Comuni, impegna la Regione
a fornire assistenza tecnica per l’impostazione delle questioni
istituzionali e l’elaborazione dei relativi atti e ad erogare agli enti
locali che abbiano specificamente deliberato in proposito contributi
destinati a concorrere alle spese sostenute per l’elaborazione di
progetti di riorganizzazione sovracomunale delle strutture, dei servizi e
delle funzioni tecnica per l’impostazione delle questioni istituzionali
e l’elaborazione dei relativi atti e ad erogare agli enti locali che
abbiano specificamente deliberato in proposito contributi destinati a
concorrere alle spese sostenute per l’elaborazione di progetti di
riorganizzazione sovracomunale delle strutture, dei servizi e delle
funzioni.

Sempre l’art. 27 della l. r. n. 21/2012
riconosce alle forme associative, che operino a norma delle prescrizioni
della stessa o allo scopo di adeguarsi ad essa, la possibilità di
accedere a contributi per il conferimento di incarichi professionali
esterni per la predisposizione di progetti di riorganizzazione
sovracomunale, affidati a società o soggetti detentori di partita IVA,
con esclusione di ogni forma di collaborazione in condizione di
subordinazione.

I progetti di riorganizzazione devono
necessariamente contenere, a pena di inammissibilità, l’individuazione
delle modalità organizzative per le funzioni e dei servizi pubblici
locali che sarebbero esercitati nel Comune unificato, con indicazione
dei potenziali effetti (vantaggi/svantaggi) derivanti dalla fusione;

la predisposizione di schemi degli atti fondamentali del Comune unificato;

la proposta dell’assetto organizzativo del Comune unificato.

Riguardo
alla misura del contributo regionale, sono ammesse a contributo le
spese relative ai soli costi esterni, al lordo dell’I.V.A. di cui al
preventivo per il progetto.

La quota di contributo
regionale coprirà il 70 per cento della spesa ammessa e non potrà
superare le seguenti somme che per la fusione di Comuni sono:

Tipologia/Numero

di Comuni

2

Comuni

Fino a 3

Comuni

4-6

Comuni

7-9

Comuni

Oltre 9

Comuni

Fusione

10.400

12.400

15.500

20.900

25.900

Il
Responsabile del procedimento effettua l’istruttoria delle domande;
terminata la fase istruttoria, verrà predisposta la graduatoria delle
domande ammesse a contributo.

È però del tutto
evidente che in generale il livello d’approfondimento degli ambiti
indagati dallo studio di fattibilità va visto come funzione della
finalità generale dello studio da compiere, dalle specificità del
contesto organizzativo di riferimento e debbono contenere ogni utile
informazione finalizzata all’analisi dei possibili e alternativi
percorsi da compiere da parte degli enti locali interessati al processo
di fusione di Comuni.

6.7. La centrale di committenza e la fusione di comuni.

In attuazione delle Direttive comunitarie 2004/18,art. 11 e 2004/17, art. 29, l’art. 3 comma 34 del d. lgs. n. 163/200674prevede
che per «centrale di committenza» deve intendersi un’amministrazione
aggiudicatrice che «acquista forniture o servizi destinati ad
amministrazioni aggiudicatrici o altri enti aggiudicatori, o aggiudica
appalti pubblici o conclude accordi quadro di lavori, forniture o
servizi destinati ad amministrazioni aggiudicatrici o altri enti
aggiudicatori».

La relativa disciplina è recata
dall’articolo 33 del codice dei contratti pubblici, il quale prevede che
le stazioni appaltanti e gli enti aggiudicatori possono acquisire
lavori, servizi e forniture facendo ricorso a centrali di committenza,
anche associandosi o consorziandosi.

L’art. 33, comma 3-bisdel d.lgs. n. 163/2006 stabilisce che:

«3.
Le amministrazioni aggiudicatrici e i soggetti di cui all’articolo 32,
comma 1, lettere b), c), f), non possono affidare a soggetti pubblici o
privati l’espletamento delle funzioni e delle attività di stazione
appaltante di lavori pubblici. Tuttavia le amministrazioni
aggiudicatrici possono affidare le funzioni di stazione appaltante di
lavori pubblici ai servizi integrati infrastrutture e trasporti (SIIT) o
alle amministrazioni provinciali, sulla base di apposito disciplinare
che prevede altresì il rimborso dei costi sostenuti dagli stessi per le
attività espletate, nonché a centrali di committenza.

3-bis.
I Comuni non capoluogo di provincia procedono all’acquisizione di
lavori, beni e servizi nell\’ambito delle Unioni dei comuni di cui
all’articolo 32 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, ove
esistenti, ovvero costituendo un apposito accordo consortile tra i
Comuni medesimi e avvalendosi dei competenti uffici anche delle
Province, ovvero ricorrendo ad un soggetto aggregatore o alle Province,
ai sensi della legge 7 aprile 2014, n. 56. In alternativa, gli stessi
Comuni possono acquisire beni e servizi attraverso gli strumenti
elettronici di acquisto gestiti da Consip S.p.A. o da altro soggetto
aggregatore di riferimento. L’Autorità per la vigilanza sui contratti
pubblici di lavori, servizi e forniture non rilascia il codice
identificativo gara (CIG) ai Comuni non capoluogo di provincia che
procedano all’acquisizione di lavori, beni e servizi in violazione degli
adempimenti previsti dal presente comma».

Ai sensi dell’art. 3, comma 25 del Codice dei contratti pubblici sono considerate amministrazioni aggiudicatrici

– le amministrazioni dello Stato;

– gli enti pubblici territoriali;

– gli altri enti pubblici non economici;

– gli organismi di diritto pubblico;

– le associazioni, Unioni, Consorzi, comunque denominati, costituiti da detti soggetti.

In base all’art. 3, comma 34, la «centrale di committenza» è un\’amministrazione aggiudicatrice che:

acquista
forniture o servizi destinati ad amministrazioni aggiudicatrici o altri
enti aggiudicatori, o aggiudica appalti pubblici o conclude accordi
quadro di lavori, forniture o servizi destinati ad amministrazioni
aggiudicatrici o altri enti aggiudicatori.

Riguardo all’entrata in vigore della centrale di committenza si evidenzia che:


inizialmente l’applicazione della norma era riferita alle gare bandite
dal 1° aprile 2012 (art. 23, comma 5, d. l. n. 201/2011);

– l’entrata in vigore è stata poi posticipata di un anno dall’art. 29, comma 11-terdel d. l. 29 dicembre 2011, n. 216;


la L. 10 gennaio 2013, n. 1 della Regione Sardegna ha rinviato al 1°
gennaio 2014 l’obbligo di acquistare tramite centrale di committenza per
i Comuni fino a 5.000 abitanti

– la L. 24 giugno 2013, n. 71 (Disposizioni emergenziali in materia di Expo 2015, rifiuti ed eventi sismici) ha rinviato al 1° gennaio 2014 l’obbligo di acquistare tramite centrale di committenza per i Comuni fino a 5.000 abitanti.

Dunque
i Comuni con popolazione fino a cinquemila abitanti devono accentrare
le procedure di evidenza pubblica secondo lo schema della «Stazione
unica appaltante».

Se al 31 dicembre 2014 risulta
costituita una Unione di Comuni si ritiene che l’obbligo di costituzione
della centrale di committenza gravi sull’Unione stessa; se al 31
dicembre 2014 non risulta essere stata costituita un’Unione di Comuni,
quest’ultimi stipulano tra loro un’apposita Convenzione avvalendosi dei
competenti uffici.

Ai sensi dell’art. 32, comma 1, del
d.lgs. n. 267/2000: «L’Unione di comuni è l’ente locale costituito da
due o più Comuni, di norma contermini, finalizzato all’esercizio
associato di funzioni e servizi»; mentre ai sensi del comma 4 dell’art.
32 «L’Unione ha autonomia statutaria e potestà regolamentare e ad essa
si applicano, in quanto compatibili, i principi previsti per
l’ordinamento dei Comuni, con particolare riguardo allo status degli
amministratori, all’ordinamento finanziario e contabile, al personale e
all’organizzazione».

Dunque l’Unione di comuni è un ente locale dotato di propria personalità giuridica75ed è un’amministrazione aggiudicatrice, in base all’art. 3, comma 25 del Codice dei contratti pubblici di cuisupra.

Qualora
i Comuni abbiano dato vita ad un’Unione di Comuni sarà quest’ultima a
dover costituire la Centrale di committenza; successivamente saranno poi
i Comuni a stipulare con l’Unione dei Comuni una Convenzione con cui le
delegano poteri, funzioni e competenze, in base all’art. 32, comma 2
del TUEL, il quale prevede che: «Le Unioni di comuni possono stipulare
apposite convenzioni tra loro o con singoli Comuni».

Relativamente
ai rapporti tra i singoli Comuni e la centrale di committenza si avrà
che alla stazione appaltante centralizzata spetta la fase che va dal
bando all’aggiudicazione definitiva della gara; mentre rimane di
competenza degli enti locali la fase a monte della programmazione e
della scelta discrezionale dei lavori, dei servizi e delle forniture da
acquisire; la fase a valle della stipulazione del contratto (fatta salva
la delega anche di questa fase) la fase dell’esecuzione del contratto.

L‘obbligo
della Centrale unica di committenza per i Comuni non capoluogo di
provincia è stato prorogato dal decreto p.a. (il decreto-legge n.
90/2014, ora legge 114/2014) al 1° gennaio 2015 (per beni e servizi) e
1° luglio 2015 (per lavori); da tali date, dunque, i Comuni non
capoluogo di provincia dovranno procedere all’acquisizione di beni e
servizi in modo centralizzato, attraverso Unioni di comuni o consorzi, o
ancora ricorrendo a un soggetto aggregatore o alle Province.

Tutto ciò detto, l’art. 33, comma 3-bisdel
d. lgs. n. 163/2006, ultimo periodo, prevede che: «Per i Comuni
istituiti a seguito di fusione l’obbligo di cui al primo periodo decorre
dal terzo anno successivo a quello di istituzione».

Ci
si è soffermati sulla complessa vicenda della centrale di committenza,
perché essa ha a che fare anche con la fusione di comuni.

Ciò
significa che l’obbligo di acquisizione di lavori, beni e servizi
attraverso centrale di committenza, per i Comuni istituiti a seguito di
processo di fusione è differito nel tempo ovvero al terzo anno
successivo a quello della fusione, consentendo così al nuovo Comune di
avere un ulteriore lasso di tempo per organizzarsi in merito alla
centralizzazione dei processi di acquisizione di beni, servizi e lavori.

6.8. La fusione di comuni nella legge di stabilità 2015.

Il
30 novembre la Camera dei Deputati ha concluso i propri lavori sul
disegno di legge di stabilità 2015, che è ora all’esame del Senato
(A.S.698).

Quella del 2015 è una legge di stabilità
improntata al contenimento della spesa pubblica per gli anni 2015-2018,
alla quale concorrono le misure riguardanti il comparto Regioni,
Province, Città metropolitane e Comuni (patto di stabilità interno).

Le
misure di interesse per le autonomie locali territoriali sono volte, da
un lato alla definizione del concorso finanziario del comparto Regioni,
Province, Città metropolitane e Comuni al contenimento della spesa
pubblica per gli anni 2015-2018 e successivi, dall’altro alla
ridefinizione delle regole del patto di stabilità interno, ai fini della
realizzazione degli obiettivi di finanza pubblica.

Il
Patto di Stabilità Interno (PSI) nasce dall\’esigenza di convergenza
delle economie degli Stati membri della U.E. verso specifici parametri,
comuni a tutti, e condivisi a livello europeo in seno al Patto di
stabilità e crescita e specificamente nel trattato di Maastricht
(Indebitamento netto della Pubblica Amministrazione/P.I.L. inferiore al
3% e rapporto Debito pubblico delle AA.PP./P.I.L. convergente verso il
60%).

Il Patto di Stabilità e Crescita ha fissato
dunque i confini in termini di programmazione, risultati e azioni di
risanamento all’interno dei quali i Paesi membri possono muoversi
autonomamente.

Dal 1999 ad oggi l\’Italia ha formulato
il proprio Patto di stabilità interno esprimendo gli obiettivi
programmatici per gli enti territoriali ed i corrispondenti risultati
ogni anno in modi differenti, alternando principalmente diverse
configurazioni di saldi finanziari a misure sulla spesa per poi tornare
agli stessi saldi.

Il patto di stabilità interno per
gli enti locali è attualmente disciplinato dall’articolo 31 della legge
12 novembre 2011, n. 183, come successivamente modificato ed integrato
dall’articolo 1, commi 428-447, della legge di stabilità per il 2013
(legge n. 228/2012).

Per quanto concerne l’ambito
soggettivo di applicazione, negli anni dal 2009 al 2012 sono stati
assoggettati alle regole del patto le province e i comuni con
popolazione superiore a 5.000 abitanti.

A partire dal 2013 è prevista l’estensione dei vincoli del patto ad una platea più ampia di enti, quali:

– i Comuni con popolazione compresa tra 1.001 e 5.000 abitanti, ai sensi dell’articolo 31, comma 1, della legge n. 183/2011;


le aziende speciali e le istituzioni, ai sensi dell’articolo 25, comma
2, del d. l. 24 gennaio 2012, n. 1, ad eccezione di quelle che
gestiscono servizi socio-assistenziali ed educativi, culturali e delle
farmacie;

– gli enti locali commissariati per fenomeni di
infiltrazione di tipo mafioso, ai sensi dell’articolo 1, comma 436,
della legge 24 dicembre 2012, n. 228, finora sostanzialmente esclusi
dalla disciplina, in quanto per essi l’applicazione del patto era
rinviata a partire dall’anno successivo a quello della rielezione degli
organi istituzionali.

Dal 2014, sono assoggettate alle
regole del patto anche le Unioni di comuni formate dagli enti con
popolazione inferiore a 1.000 abitanti (in applicazione dell’articolo
16, comma 1, del D.L. 13 agosto 2011, n. 138), secondo le regole
previste per i comuni aventi corrispondente popolazione.

L’obiettivo
del patto di stabilità per gli enti locali consiste nel raggiungimento
di uno specifico obiettivo di saldo finanziario – calcolato quale
differenza tra entrate e spese finali, comprese dunque le spese in conto
capitale, con l’eccezione di alcune voci – espresso in termini di
competenza mista (criterio contabile che considera le entrate e le spese
in termini di competenza, per la parte corrente, e in termini di cassa
per la parte degli investimenti, al fine di rendere l\’obiettivo del
patto di stabilità interno più coerente con quello del Patto europeo di
stabilità e crescita).

Per gli enti che non rispettano gli obiettivi del patto di stabilità è previsto76:


il taglio delle risorse del fondo sperimentale di riequilibrio o del
fondo perequativo degli enti locali, in misura pari alla differenza tra
il risultato registrato e l\’obiettivo programmatico predeterminato (per i
Comuni, a seguito della soppressione del Fondo sperimentale di
riequilibrio comunale, ai sensi dell’articolo 1, comma 380, della legge
n. 228/2012;

– la riduzione delle risorse deve intendersi
riferita al Fondo di solidarietà comunale); ovvero, per le regioni, il
versamento all’entrata del bilancio dello Stato dell’importo
corrispondente allo scostamento tra il risultato e l’obiettivo
prefissato.

Si ricorda che, fino all’anno 2011, era
fissato un limite massimo alla riduzione delle risorse, pari ad un
importo comunque non superiore al 5 per cento (poi abbassata al 3 per
cento dal d. l. n. 149/2011) delle entrate correnti registrate
nell’ultimo consuntivo;

– il divieto di impegnare spese di parte
corrente in misura superiore all’importo annuale medio degli impegni
effettuati nell’ultimo triennio;

– il divieto di ricorrere all’indebitamento per finanziare gli investimenti;

– il divieto di procedere ad assunzioni di personale a qualsiasi titolo;


la riduzione del 30% delle indennità di funzione e dei gettoni di
presenza degli amministratori. Tale misura sanzionatoria è stata
introdotta per la prima volta dalla legge di stabilità per il 2011
(articolo 1, comma 120, L. n. 220/2010).

La legge di
stabilità 2015, riguardo al patto di stabilità, prevede che gli enti
locali ovvero Province, Città metropolitane e Comuni, concorrono al
contenimento della spesa pubblica attraverso una riduzione della loro
spesa corrente, nell’importo complessivo di 2.200 milioni per il 2015,
3.200 milioni per il 2016 e 4.200 milioni a decorrere dall’anno 2017.

Nel
corso dell’esame in sede referente, è stata soppressa la previsione
secondo la quale il concorso alla finanza pubblica richiesto ai Comuni
debba essere realizzato esclusivamente attraverso una riduzione delle
spese correnti, conseguendone, dunque, che tale concorso possa
realizzarsi operando anche sulla spesa in conto capitale.

Sono
poi previste (articolo 2, commi 185-195) alcune modifiche alla
disciplina del patto di stabilità interno per gli enti locali, valevole
per le Province e i Comuni con popolazione superiore a 1.000 abitanti,
con particolare riferimento all’aggiornamento della base di calcolo e
dei coefficienti annuali per la determinazione dei saldi obiettivo per
gli anni 2015-2018.

L’alleggerimento del patto di
stabilità per gli enti locali si sostanzia, in riferimento al testo
iniziale del provvedimento, in 1 miliardo di euro annui, importo che
sembrerebbe risultare sostanzialmente confermato anche a seguito
dell’esame in Commissione.

Mentre la L. 12 novembre 2011 n. 183,Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato. (Legge di stabilità 2012),
art. 31, comma 23, disponeva che: «Gli enti locali istituiti a
decorrere dall\’anno 2011 sono soggetti alle regole del patto di
stabilità interno dal terzo anno successivo a quello della loro
istituzione assumendo, quale base di calcolo su cui applicare le regole,
le risultanze dell\’anno successivo all\’istituzione medesima», ora la
legge di stabilità 2015, all’art. 2, comma 194, aggiunge al comma 23
dell’articolo 31 della legge 12 novembre 2011, n. 183, e successive
modificazioni, il seguente periodo: «I Comuni istituiti a seguito di
fusione a decorrere dall\’anno 2011 sono soggetti alle regole del patto
di stabilità interno dal quinto anno successivo a quello della loro
istituzione, assumendo quale base di calcolo le risultanze dell’ultimo
triennio disponibile».

Riguardo alla materia della
spesa per il personale degli enti locali, il comma 557 dell’articolo
unico della legge n. 296/2006 aveva previsto l’obbligo a carico degli
enti locali di assicurare «la riduzione delle spese di personale […]
garantendo il contenimento della dinamica retributiva e occupazionale
[…] con azioni da modulare nell’ambito della propria
autonomia…rivolte…ai seguenti ambiti: a) riduzione dell\’incidenza
percentuale delle spese di personale rispetto al complesso delle spese
correnti […]; b) razionalizzazione e snellimento delle strutture
burocratico-amministrative […]; c) contenimento delle dinamiche di
crescita della contrattazione integrativa ]…]»

Successivamente,
l’obbligo di riduzione della spesa di personale recato dal comma 557 è
stato gradualmente affiancato da ulteriori norme di legge, le quali
hanno introdotto limiti sempre più specifici, alle facoltà assunzionali e
di spesa degli enti locali: limiti alturn over– bloccato al 40% – e limiti all’incidenza della spesa di personale sulla spesa corrente – che deve essere non superiore al 50%77;
limiti sulle spese per contratti flessibili – da ridurre del 50%
rispetto al 2009 – limiti alla contrattazione decentrata e al
trattamento economico dei dipendenti – bloccati al 201078.

Oggi,
invece, sul versante dell’occupabilità delle risorse umane necessarie,
l’altra novità per i Comuni istituiti a seguito di fusione riviene dalla
legge di stabilità 2015 ed è prevista dall’art. 2,Misure di razionalizzazione e riduzione della spesa e disposizioni in materia di enti territoriali,
comma 159, il quale stabilisce che: «Al fine di promuovere la
razionalizzazione e il contenimento della spesa degli enti locali
attraverso processi di aggregazione e di gestione associata: ai Comuni
istituiti a seguito di fusione che abbiano un rapporto tra spesa di
personale e spesa corrente inferiore al 30 per cento, fermi restando il
divieto di superamento della somma delle spese di personale sostenute
dai singoli enti nell\’anno precedente alla fusione e il rispetto del
limite di spesa complessivo definito a legislazione vigente e comunque
nella salvaguardia degli equilibri di bilancio, non si applicano, nei
primi cinque anni dalla fusione, specifici vincoli e limitazioni
relativi alle facoltà assunzionali e ai rapporti di lavoro a tempo
determinato».

Come si vede, nonostante la presenza di
scelte politiche che vanno nella direzione della riduzione della spesa
pubblica, il Parlamento è dell’avviso che vada rafforzata la strada che
conduce alla fusione di Comuni, ritenuta una via privilegiata della
riqualificazione della spesa degli enti locali territoriali, attraverso
il conseguimento di economie di scala possibili a seguito della
scomparsa, con un processo democratico, delle piccole entità locali,
delle quali non è più possibile ormai farsi carico a livello singolo.

6.8. Valutazioni conclusive.

La
situazione di estrema difficoltà del nostro Paese e dell’intero sistema
delle autonomie locali, in uno con la più recente normativa in tema di
enti locali, obbliga gli amministratori a lavorare in modo efficiente,
al fine di consentire a decorrere dal 1° gennaio 2015 ai Comuni fino a
5.000 abitanti, di svolgere in forma associata, attraverso Unione o
Convenzione, le funzioni comunali fondamentali.

L’Unione
di comuni, disciplinata dall’art. 32 del TUEL, meglio della Convenzione
prevista dall’art. 30 del TUEL, rappresenta per il legislatore un
soggetto giuridico assai stabile e può essere considerata l’istituzione
tramite la quale i Comuni possono erogare servizi ai cittadini in forma
più efficiente, efficace ed economica, rispetto al modo tradizionale di
fornire servizi alla comunità locale di riferimento.

Se
questo è vero, è allora il caso di porci di fronte ad un altro
strumento istituzionale ancor più idoneo dell’Unione di comuni che può
permettere ai singoli Comuni di poter fare ulteriori passi in avanti sul
tema dell’efficienza, efficacia ed economicità dei servizi offerti ai
cittadini ovvero la fusione di Comuni.

La fusione di
Comuni è un’istituzione che è presente anche in diversi Paesi europei,
dunque non solo in Italia e consente il raggiungimento di economie di
scala nella gestione complessiva di un Comune che ormai in numerosi casi
non appare più nelle condizioni economico-finanziarie di poter svolgere
adeguatamente il proprio ruolo di soggetto che organizza il proprio
territorio con logiche aziendali.

Basti pensare alla
notevole riduzione dei cc.dd. costi della politica che comporta la
fusione di Comuni, per orientarsi a lavorare sul versante del
superamento del Comune inteso come monade; come ente che ritenendosi
autosufficiente, rifugge da logiche che impongono il superamento
dell’obsoleto modello organizzativo vigente nella stragrande parte dei
Comuni italiani.

Uno degli elementi di freno alla
fusione di Comuni è dato dalla presunta perdita d’identità dei Comuni
investiti da tale processo; fatto che spinge molti amministratori a
schierarsi sul versante del no alla fusione di comuni.

L’identità
della singola comunità interessata alla fusione, però, non viene meno
con la fusione di Comuni, poiché la legislazione in atto, consente
attraverso i Municipi, da un lato l’erogazione dei medesimi livelli dei
servizi territoriali e dall’altro di mantenere comunque vive le
specificità territoriali insite in ogni singolo Comune interessato dal
processo di fusione.

Centrale nella fusione, oltre
alla volontà dell’ente comunale e della Regione, è la determinazione dei
cittadini interessati a tale processo che vanno coinvolti in ogni sua
fase e che sono chiamati ad esprimere il loro consenso o meno sul
progetto di fusione, attraverso consultazione referendaria, proprio a
significare che la fusione di comuni, costituendo una situazione
irreversibile rispetto allostatus quodel Comune singolarmente
inteso, abbisogna di decisioni largamente democratiche e condivise da
parte della maggioranza dei cittadini.

Il processo di
fusione di Comuni è incentivato finanziariamente, tanto da parte dello
Stato che della Regione di riferimento; quest’ultima può erogare
contributi anche per lo studio di fattibilità del processo di fusine
comunale, strumento che può essere ritenuto come una sorta di
piedistallo su cui si poggia la complessa operazione di riordino
territoriale dei nostri Comuni.

La fusione di Comuni
consente da un lato la riduzione numerica dei Comuni del nostro Paese,
dall’altro permette, proprio a causa dell’aumento della propria base
demografica, di istituire Comuni dotati di maggior peso politico, grazie
anche alla maggiore dimensione del Comune fuso rispetto a quelli che ad
esso hanno dato vita.

L’auspicio è che gli organi di
indirizzo e di governo dei Comuni e i cittadini tutti comprendano fino
in fondo l’utilità o addirittura la necessità di utilizzare in maniera
ottimale lo strumento della fusione di comuni attraverso processi di
autodeterminazione territoriale; prima che la preoccupante situazione
economico-finanziaria del nostro Paese giustifichi la scelta politica di
governo e Palamento di dare il via a sconvenienti processi
d’accorpamento comunaletop-down, cioè calato dall’alto,
coattivo, non condiviso e magari anche in assenza degli incentivi
finanziari che il processo di fusione comunale, volontariamente portato
avanti dai Comuni interessati, può ottenere oggi in base alla vigente
legislazione.

Solo a titolo di esempio il 1° gennaio
2014 è stato istituito il Comune di Valsamoggia, in provincia di
Bologna, mediante la fusione dei Comuni contigui di Bazzano, Castello di
Serravalle, Crespellano, Monteveglio e Savigno, per un totale di 31.000
abitanti.

Lo ha sancito la Legge Regionale n. 1 del 7
febbraio 2013, pubblicata sul Bollettino Ufficiale della Regione
Emilia-Romagna n. 27.

«Il nuovo Comune avrà a
disposizione quasi venti milioni di investimenti straordinari da parte
della Regione e dello Stato per i primi 15 anni di vita e per i primi
due anni di vita sarà esente dai limiti del patto di stabilità»79.

«La
nascita del Comune Unico porta interessanti vantaggi sul piano del
bilancio. Al momento rimane impossibile realizzare una vera simulazione
di bilancio a causa del susseguirsi delle manovre finanziarie […] ciò
nonostante, è possibile fare considerazioni generali e proiezioni
attendibili nelle quali è evidente che incentivi e i benefici si sommano
ai risparmi di gestione andando a costituire un significativo guadagno
di almeno il 10% rispetto allo scenario attuale […] si tratta di risorse
estremamente preziose in una fase economica come quella in corso, un
potenziale che se gestito con lungimiranza andrà a costituire una
componente essenziale delle strategie di investimento per il futuro
della vallata»80.

Dal
processo di fusione i Comuni si attendono il miglioramento dei servizi
ai cittadini; l’ottimizzazione della gestione; il miglioramento
organizzativo; lo sviluppo del territorio; la semplificazione del quadro
istituzionale; la diminuzione dei “costi della politica.

Di
contro vi sono numerosi ostacoli alla fusione di comuni che occorre
superare: difficoltà delle persone a riconoscersi in comunità più ampie
(campanilismo); preoccupazione dei rappresentanti politici di perdere
ruolo e visibilità nella comunità locale; timore dei cittadini che venga
meno il rapporto diretto e ravvicinato con il Sindaco; timore del venir
meno dei servizi di prossimità; cambiamento dell’organizzazione e delle
abitudini di lavoro dei dipendenti; differenze rilevanti fra le
situazioni finanziarie e le politiche di bilancio dei Comuni.

Ciò
detto e ad avviso di chi scrive, la fusione di Comuni è un processo
complesso, difficile ma non impossibile da praticare, almeno ad
esaminare le differenti esperienze di fusione positivamente conclusesi
nel nostro Paese; processo che devein primisvedere
protagonisti gli amministratori locali, impegnati favorevolmente a
favore della fusione e a cascata i cittadini e le realtà associative dei
territori interessati, animati tutti da una nuovavisionnei
confronti delle istituzioni d’origine che consenta di superare le
consuete e consunte modalità con cui finora si sono governate le
comunità di riferimento, a favore di un progetto di più ampio respiro
che punta sulla capacità endogena di più realtà, unite dalla voglia di
autodeterminarsi, in nome d’idee nuove che scaturiscono dalle migliori
intelligenze che ogni zona geografica possiede.

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Lecce, 7 dicembre 2014

Prof. Luigino Sergio, già Direttore Generale della Provincia di Lecce; esperto di organizzazione e gestione degli enti locali.

1.La legge 5 aprile 2014, n. 56, Disposizioni sulle città metropolitane, sulle province, sulle unioni e fusioni di comuni,
all’art. 1«detta disposizioni in materia di città metropolitane,
province, unioni e fusioni di comuni al fine di adeguare il loro
ordinamento ai princìpi di sussidiarietà, differenziazione e
adeguatezza».

2.Fonte: Ministero dell’Economia e delle Finanze –Notifica
del Deficit e del Debito Pubblico inviata alla Commissione Europea ex
Reg. CE 3605/93, così come modificato dal Reg. 479/2009
.

3.Ministero dell’Economia e delle Finanze,Libro verde sulla spesa pubblica, 2007.

4.Spesa
pubblica totale nell’anno 2004 (in % del PIL): Germania 47,1; Spagna
38,8; Francia 53,2; Regno Unito 43,7; Italia 47,7; Area Euro 47,6.

Spesa
per interessi sul debito pubblico: Germania 2,8; Spagna 2,0; Francia
2,7; Regno Unito 2,0; Italia 4,7; Area Euro 3,1. Spesa per pensioni:
Germania 11,4; Spagna 8,6; Francia 12,8; Regno Unito 6.6; Italia 14,2;
Area Euro 11,5.

Fonte: EUROSTAT (Classificazione COFOG).

5.Comunicato del Consiglio ECOFIN inhtpp://eu2007.de/en/New/Press Releases/April/0421ECOFIN.html.

6.Libro verde sulla spesa pubblica, cit., p. 107.

7.Art.
117, comma 2, «lo Stato ha legislazione esclusiva nelle seguenti
materie … lett. m) determinazione dei livelli essenziali delle
prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere
garantiti su tutto il territorio nazionale; lett. p) … legislazione
elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali di Comuni,
Province e Città metropolitane».

8.Spesa
storica: criterio di spesa in base al quale i trasferimenti dello Stato
vengono attribuiti in base alla spesa che è stata sostenuta nel
passato, fatto questo che rappresenta una sorta di premialità nei
confronti degli enti che hanno speso di più; fabbisogno standard:
criterio che identifica il costo efficiente di un servizio pubblico che
diviene l’elemento in base al quale vanno rapportate le risorse
finanziarie. Secondo quanto sancito nella L. n. 42/2009, il costo
standard è stabilito prendendo come base la Regione più “virtuosa”, cioè
quella che eroga i servizi ai costi “più efficienti”. In definitiva,
per finanziare gli enti territoriali, la determinazione dei costi dovrà
essere adeguata a una gestione efficiente ed efficace della Pubblica
amministrazione, prendendo a riferimento anche il rapporto tra il numero
dei dipendenti dell’ente territoriale ed il numero dei residenti.

Perequazione:
etimologicamente sta per “rendere uguale”. Essa consiste nel
«pareggiamento», «distribuzione più equa». In finanza si parla di
perequazione fiscale o tributaria, nel senso di eliminazione delle
ingiustizie in campo tributario; si concretino esse in aggravi o in
sgravi eccessivi di determinate categorie di contribuenti o di individui
singoli […] si parla anche di perequazione dei trasferimenti, per es.
nel caso di trasferimenti statali agli enti locali che vengono perequati
per attenuare le differenze fra aree ricche e aree povere». Vedi:
Enciclopedia Treccani, inwww.treccani.it/enciclopedia/perequazione.

9.d. lgs. 26 novembre 20120 n. 216,Disposizioni in materia di determinazione dei costi e dei fabbisogni standard di Comuni, Città metropolitane e Province, in G.U. 17 dicembre 2012, n. 294.

10.d. l. 7 maggio 2012, n. 52,Disposizioni urgenti per la razionalizzazione della spesa pubblica, in G.U. 8 maggio 2012, n. 106.

11.d.
l. 6 giugno 2012, n. 95, Disposizioni urgenti per la revisione della
spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini nonché misure di
rafforzamento patrimoniale delle imprese del settore bancario, in G.U. 6
luglio 2012, n. 156, S.O, convertito in legge, con modificazioni,
dall\’art. 1, comma 1, L. 7 agosto 2012, n. 135.

12.Commissione
legislativa temporanea per lo studio e la compilazione di progetti di
legge sulla riforma dell\’ordinamento amministrativo del nuovo Regno,
presentata dal Ministro degli Interni Farini alla Camera il 16 maggio
1860, al Senato il 12 giugno 1860 e istituita presso il Consiglio di
Stato con legge il 24 giugno 1860. I lavori della Commissione si
protrassero fino al 4 marzo 1861.

13.L. 20 marzo, 1865, n. 2248,Legge sui lavori pubblici (All. F),in G.U. 27 aprile 1865.

14.r. d. 4 febbraio 1915 n. 148, Approvazione del nuovo testo unico della legge comunale e provinciale.

15.r. d. 30 dicembre 1923 n. 3267,Riordinamento e riforma della legislazione in materia di boschi e di terreni montani, in G.U. 17 maggio 1924, n. 117.

16.r. d. 13 febbraio 1933 n. 215,Nuove norme per la bonifica integrale, in G.U. 4 aprile 1933, n. 79.

17.r. d. 3 marzo 1934, n. 383,Approvazione del testo unico della legge comunale e provinciale, in G.U. 17 marzo 1934, n. 65, S.O.

18.La
delega per riorganizzare i Comuni contenuta nel regio decreto legge 17
marzo 1927, n. 383 era prevista con il termine del 31 marzo 1929.

19.Regio decreto legge 17 marzo 1927, n. 383,Approvazione del testo unico della legge comunale e provinciale, in G.U. 17 marzo 1934, n. 65.

20.L. 15 febbraio 1953, n. 71,Ricostituzione di Comuni soppressi in regime fascista, in G.U. 7 marzo n. 56.

21.Regio
decreto legge 17 marzo 1927, n. 383, art. 33:«Le borgate o frazioni di
Comuni, che abbiano popolazione non minore di 3.000 abitanti, mezzi
sufficienti per provvedere adeguatamente ai pubblici servizi e che, per
le condizioni dei luoghi, siano separate dal Capoluogo del Comune a cui
appartengono, possono essere costituite in Comuni distinti, quando ne
sia fatta domanda da un numero di cittadini, che rappresentino la
maggioranza numerica [dei contribuenti delle borgate o frazioni e
sostengano almeno la metà del carico dei tributi locali applicati nelle
dette borgate o frazioni]. La Corte Costituzionale, con sentenza 21
marzo 1969, n. 38, ha dichiarato l’illegittimità costituzionaledegli
artt. 3 e 34nelle parti in cui riconoscono il diritto d’iniziativa del
procedimento di modificazione delle circoscrizioni territoriali ai
cittadini che rappresentano la maggioranza numerica dei contribuenti
delle borgate o frazioni e sostengono almeno la metà del carico dei
tributi locali in esse applicati, anziché alla maggioranza dei cittadini
elettori. Da tale principio non può prescindere la legislazione
regionale in materia.

22.L. 25 luglio 1952 n. 991,Provvedimenti in favore dei territori montani, in G.U. 31 luglio 1952, n. 176.

23.d. p. r. 10 giugno 1955, n. 987,Decentramento di servizi del Ministero dell\’agricoltura e delle foreste, in G.U. 5 novembre 1955, n. 255.

24.L. 3 dicembre 1971, n. 1102,Nuove norme per lo sviluppo della montagna, in G.U. 23 dicembre 1971, n. 324.

25.L. 22 luglio 1975, n. 382,Norme sull’ordinamento regionale e sulla organizzazione della pubblica amministrazione, in G.U. 20 agosto 1975, n. 220.

26.L. 8 giugno 1990, n. 142,Ordinamento delle autonomie locali, in G.U. 12 giugno 1990, n. 135, S.O.

27.L. 30 dicembre 1989, n. 439,Ratifica ed esecuzione della Convenzione europea relativa alla Carta europea dell’autonomia locale, firmata a Strasburgo il 15 ottobre 1985.

La
Carta impone alla Parti l’applicazione di regole che garantiscano
l’indipendenza politica, amministrativa e finanziaria delle comunità
locali. Essa prevede che il principio delle autonomie locali debba
fondarsi su una base legale, di preferenza di rango costituzionale. Le
autorità locali devono essere elette a suffragio universale.

Tra
l’altro, tali autorità devono essere in grado di regolamentare e
gestire gli affari pubblici, negli ambiti individuati dalla legge, sotto
la propria responsabilità e nell’interesse della popolazione locale. Di
conseguenza, la Carta prevede che l’esercizio della responsabilità
pubblica deve essere affidato, di preferenza, alle autorità più vicine
ai cittadini, dovendo essere riservate alla competenza delle autorità di
livello superiore solo quelle responsabilità che non possono essere
assunte efficacemente ai livelli inferiori.

A tali fini, la
Carta indica i principi volti alla protezione dei limiti territoriali
delle autorità locali, le strutture ed i mezzi amministrativi adeguati
per la realizzazione dei compiti delle stesse amministrazioni, le
condizioni per l’esercizio delle responsabilità a livello locale, il
controllo amministrativo degli atti delle autorità locali, le fonti
finanziarie delle autorità locali e la protezione legale delle autonomie
locali.

I principi dell’autonomia locale contemplati dalla
Carta si applicano a tutte le categorie di comunità locali. Ogni Parte
s’impegna a considerarsi vincolata ad almeno venti paragrafi della parte
I della Carta, ed almeno dieci di questi dovranno essere scelti tra un
«nocciolo duro».

28.Losprawlè
la diffusione della Città e del suo suburbio su una quantità sempre
maggiore di terreni agricoli alla periferia di un’area urbana. Ciò
comporta nel tempo la trasformazione di spazi aperti (rurali) in aree
edificate, urbanizzate (http://eddyburg.it/article/articleview/5937/1/203).

29.Anno di adesione all’UE: Membro fondatore (1952); Superficie: 550.000 km²; Popolazione: 64,3 milioni ab.

30.Francia: 64,5 milioni di abitanti. Numero di Comuni 36.700. Fonte: INSEE,Censimento della popolazione, la popolazione comunale in vigore nel 2012,Direction Générale des collectivités locales.

31.Fonte: DGCL, Bilan statistique des EPCI à fiscalité propre au 1er janvier 2012.

32.Anno di adesione all’UE: 1986; Superficie: 504 782 km²; Popolazione: 45,8 milioni ab.

33.Fonte:Gobierno de España, Ministerio de Política territorial, Ministerio de hacienda y aadministraciones(http://www.minhap.gob.es).

34.Anno di adesione all’UE: Membro fondatore (1952); Superficie: 356 854 km²; Popolazione: 82 milioni ab.

35.Gesetz über die kommunale Zusammenarbeit, BayKommZG, nella versione pubblicata il 20 giugno 1994 (G.U. bavarese 1994, p. 555; ultima modifica in data 16 febbraio 2012).

36.Anno di adesione all’UE: 1973; Superficie: 43 094 km²; Popolazione: 5,5 milioni ab.

37.Fonte:www.innovatori.it;www.formez.it;www.europa.eu/abaut-eu/countries/index_it.htm.

38.«Per
le prossime elezioni nazionali del 2019, a mio avviso, sarebbe giusto
scendere dagli 8.000 Comuni italiani a 2.500 azzerando i Comuni con meno
di 15.000 abitanti». Per fare un esempio, Fassino ha parlato della
Città metropolitana di Torino che in un primo momento conterà 315 Comuni
«nella speranza che presto si arrivi a 80. Gestire 80 Comuni – ha
osservato – è ben altra cosa da gestirne 315».

39.L’insieme
dei provvedimenti che stanno ridisegnando l’architettura istituzionale,
richiama anche un tema che riguarda noi e i nostri Comuni. I Comuni
italiani sono 8.000, oltre 5.000 dei quali con meno di 5.000 abitanti e
un terzo con meno di 3.000 abitanti.

La questione che sta
davanti a noi è come consentire a questi Comuni di garantire ai propri
cittadini servizi adeguati ed efficienti.

Sgomberiamo anche qui
il campo degli equivoci. Non si tratta di eliminare i piccoli Comuni.
Sappiamo tutti che l’Italia è una nazione di Comuni. E che nella storia
dei Comuni si racchiude la storia d’Italia. Il Comune dove si è nato e
dove si risiede è per ciascuno di noi un tratto di identità. Ciascuno di
noi definisce sé stesso facendo riferimento al lavoro che svolge e al
luogo in cui è nato o vive.

E sappiamo altresì come i piccoli e
medi Comuni esprimono una dimensione di comunità preziosa e
insostituibile. Penso ai tanti Comuni di montagna che rappresentano un
presidio economico e sociale essenziale per la vita di intere vallate.

Dunque,
eliminare burocraticamente i Piccoli Comuni sarebbe un’operazione
dannosa. Altra cosa è porsi l’obiettivo di mettere ogni Comune – anche i
più piccoli – nelle condizioni migliori per assolvere alle loro
responsabilità […] L’insieme dei provvedimenti che stanno ridisegnando
l’architettura istituzionale, richiama anche un tema che riguarda noi e i
nostri Comuni. I Comuni italiani sono 8000, oltre 5000 dei quali con
meno di 5000 abitanti e un terzo con meno di 3000 abitanti.

La
questione che sta davanti a noi è come consentire a questi Comuni di
garantire ai propri cittadini servizi adeguati ed efficienti.

Sgomberiamo
anche qui il campo degli equivoci. Non si tratta di eliminare i piccoli
Comuni. Sappiamo tutti che l’Italia è una nazione di Comuni. E che
nella storia dei Comuni si racchiude la storia d’Italia. Il Comune dove
si è nato e dove si risiede è per ciascuno di noi un tratto di identità.
Ciascuno di noi definisce sé stesso facendo riferimento al lavoro che
svolge e al luogo in cui è nato o vive.

E sappiamo altresì come i
piccoli e medi Comuni esprimono una dimensione di comunità preziosa e
insostituibile. Penso ai tanti Comuni di montagna che rappresentano un
presidio economico e sociale essenziale per la vita di intere vallate.

Dunque,
eliminare burocraticamente i Piccoli Comuni sarebbe un’operazione
dannosa. Altra cosa è porsi l’obiettivo di mettere ogni Comune – anche i
più piccoli – nelle condizioni migliori per assolvere alle loro
responsabilità […] L’insieme dei provvedimenti che stanno ridisegnando
l’architettura istituzionale, richiama anche un tema che riguarda noi e i
nostri Comuni. I Comuni italiani sono 8000, oltre 5000 dei quali con
meno di 5000 abitanti e un terzo con meno di 3000 abitanti.

La
questione che sta davanti a noi è come consentire a questi Comuni di
garantire ai propri cittadini servizi adeguati ed efficienti.

Sgomberiamo
anche qui il campo degli equivoci. Non si tratta di eliminare i piccoli
Comuni. Sappiamo tutti che l’Italia è una nazione di Comuni. E che
nella storia dei Comuni si racchiude la storia d’Italia. Il Comune dove
si è nato e dove si risiede è per ciascuno di noi un tratto di identità.
Ciascuno di noi definisce sé stesso facendo riferimento al lavoro che
svolge e al luogo in cui è nato o vive.

E sappiamo altresì come i
piccoli e medi Comuni esprimono una dimensione di comunità preziosa e
insostituibile. Penso ai tanti Comuni di montagna che rappresentano un
presidio economico e sociale essenziale per la vita di intere vallate.

Dunque,
eliminare burocraticamente i Piccoli Comuni sarebbe un’operazione
dannosa. Altra cosa è porsi l’obiettivo di mettere ogni Comune – anche i
più piccoli – nelle condizioni migliori per assolvere alle loro
responsabilità. Per queste ragioni abbiamo proposto al Ministro Lanzetta
e al Sottosegretario Bressa di avviare la elaborazione di un nuovo
testo di legge con l’obiettivo di promuovere, favorire e incentivare le
aggregazioni di Comuni con modalità più semplici, più convenienti, più
rapide». (Relazione del Presidente dell’ANCI, Piero Fassino, XXXI
Assemblea annuale, 17° Assemblea congressuale, Milano, 6-8 Novembre 2014), in www.anci.it.

40.Camera
dei Deputati, Commissione parlamentare di vigilanza sull’anagrafe
tributaria; Seduta n. 5 di Mercoledì 15 ottobre 2014: Indagine
conoscitiva sull’anagrafe tributaria nella prospettiva di una
razionalizzazione delle banche dati pubbliche in materia economica e
finanziaria. Potenzialità e criticità del sistema nel contrasto
all’evasione fiscale; Audizione del dottor Carlo Cottarelli, Commissario
straordinario per la revisione della spesa pubblica. Testo del
resoconto stenografico, in www.documenti.camera.it: «Credo che
ci sia, sinceramente, anche un problema – non vorrei creare polemica con
questo – di ridurre il numero dei Comuni. Secondo me 8.000 Comuni in
Italia sono troppi. Si dovrebbe pensare a una riduzione. Faceva parte
delle misure della revisione della spesa anche una riduzione del numero
dei Comuni, il che renderebbe più facile il coordinamento.

Credo
inoltre che si debba pensare anche a meccanismi che premino i Comuni
che si mettono insieme. Anche su questo punto apro una piccola
parentesi. Nei lavori che abbiamo svolto sulle partecipate locali
abbiamo previsto meccanismi di premialità per i Comuni che mettessero
insieme le partecipate, in modo da ridurne anche il numero».

41.L. Cost. 18 ottobre 2001, n. 3,Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione, in G.U. n. 248 del 24 ottobre 2001.

42.Autodeterminazione:in http://www.treccani.it/enciclopedia/autodeterminazione/.

43.Sentenza
Corte Costituzionale 19 luglio 1989, n. 453, nel giudizio di
legittimità costituzionale dell’art. 6, della legge Regione Sicilia 15
marzo 1963, n. 16 (Ordinamento amministrativo degli enti locali nella Regione Siciliana), inhttp://www.giurcost.org/decisioni/1989/0453s-89.html.

44.CIOLLI I.,Le variazioni delle circoscrizioni e la consultazione delle popolazioni interessate nella nuova interpretazione della Corte, in Giur. Cost., 2000, 4380.

45.Carta europea delle autonomie locali, firmata a Strasburgo, il 15 ottobre 1985.

46.L. 30 dicembre 1989, n. 439,Ratifica ed esecuzione della convenzione europea relativa alla Carta europea dell\’autonomia locale, in G.U. n.17 del 22-1-1990 – S.O. n. 4.

47.Per Piccoli Comuni si intendono le realtà comunali in cui risiedono fino ad un massimo di 5.000 abitanti.

48.Fonte:Atlante dei Piccoli Comuni 2014,
p. 13, elaborazione Centro Documentazione e Studi Anci-Ifel su dati
Istat, 2014; il rapporto è stato realizzato dal Centro Documentazione e
Studi Comuni Italiani ANCI-IFEL in collaborazione con ANCI.

49.Ai sensi del d.lgs. 27 aprile 1992, n. 282, Armonizzazione delle disposizioni della legge 8 giugno 1990, n. 142, con l\’ordinamento della Regione Valle d’Aosta,
in G.U.16 maggio 1992, n. 113, art. 3, comma 1: «in deroga a quanto
disposto dall’art. 11 della legge n. 142 del 1990, la Regione Valle
d’Aosta può istituire Comuni con popolazione inferiore a 10.000
abitanti, ma non inferiore a 2.000 abitanti. In ogni caso, l’istituzione
di un Comune non può comportare che altri Comuni scendano al di sotto
di tale entità demografica».

50.L. 3 agosto 199,9 n. 265, Disposizioni in materia di autonomia e ordinamento degli enti locali, nonché modifiche alla L. 8 giugno 1990, n. 142,in G.U. 6 agosto 1999, n. 183, S.O.

51.La presente legge è stata abrogata dall\’art. 274, d.lgs.18 agosto 2000, n. 267.

52.d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267,Testo unico delle leggi sull\’ordinamento degli enti locali, in G.U. 28 settembre 2000, n. 227, S.O.

53.STADERINI F., Diritto degli enti locali, Padova, CEDAM, 2009, p. 14; Cfr. ZANOBINI G.,Corso di diritto amministrativo, Milano, Giuffrè, 1955, vol. III, p. 119 ss.; GIANNINI M.S.,Corso di diritto amministrativo, Milano, Giuffrè, 1965, vol. I, p. 219 ss.

54.CASETTA E.,Manuale di Diritto Amministrativo, Milano, Giuffrè, 2007, p. 264.

55.Il
TUEL parla di quartiere negli artt. 8, comma 1 e 54, comma 10, come
porzione di territorio comunale, all’interno della quale il Comune può
valorizzare libere forme associative e promuovere organismi di
partecipazione popolare all’amministrazione locale;

56.Ai sensi dell’art. 15, comma 4, del TUEL, la denominazione delle borgate e delle frazioni è attribuita ai Comuni;

57.L’art.
17 del TUEL prevede che i Comuni con popolazione superiore a 250.000
abitanti, hanno facoltà di articolare il territorio in Circoscrizioni,
disciplinando la loro organizzazione e funzioni attraverso lo statuto e
apposito regolamento, significando, altresì, che la popolazione media
delle Circoscrizioni non può essere inferiore a 30.000 abitanti (vedi L.
23 dicembre 2009 n. 191, Disposizioni per la formazione del bilancio
annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2010), in G.U. 30
dicembre 2009, n. 302, S.O., art. 2, comma 186, lett. b).

58.Il
cambio di denominazione compete alla Regione di riferimento (art. 133
Cost.; art. 1, lett. b), d.p.r. n. 1/1971; art. 16, comma 1, d.p.r. n.
616/1977); di conseguenza il Comune ha solo il potere di proposta nei
confronti della Regione per mutare il proprio nome, mentre ai Comuni,
invece, compete la denominazione delle borgate o delle frazioni (art.
15, comma 4, TUEL.

59.L’art. 18, comma 9 del d. l. n. 69/2013 si riferisce al primo «Programma «6.000 Campanili»,
concernente interventi infrastrutturali di adeguamento,
ristrutturazione e nuova costruzione di edifici pubblici, ivi compresi
gli interventi relativi all’adozione di misure antisismiche, ovvero di
realizzazione e manutenzione di reti viarie e infrastrutture accessorie e
funzionali alle stesse o reti telematiche di NGN e WI-FI, nonché di
salvaguardia e messa in sicurezza del territorio.

60.Il d.lgs. 12-4-2006 n. 163,Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE, in G.U. 2 maggio 2006, n. 100, S.O, all’art. 33, rubricatoAppalti
pubblici e accordi quadro stipulati da centrali di committenza (art.
11, direttiva 2004/18; art. 29, direttiva 2004/17; art. 19, comma. 3,
legge n. 109/1994) (125)
, all’art. 33, comma 1, prevede che «le
stazioni appaltanti e gli enti aggiudicatori possono acquisire lavori,
servizi e forniture facendo ricorso a centrali di committenza, anche
associandosi o consorziandosi»; mentre al comma 3-bisdispone
che: «i Comuni non capoluogo di provincia procedono all\’acquisizione di
lavori, beni e servizi nell\’ambito delle Unioni dei comuni di cui
all’articolo 32 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, ove
esistenti, ovvero costituendo un apposito accordo consortile tra i
Comuni medesimi e avvalendosi dei competenti uffici anche delle
Province, ovvero ricorrendo ad un soggetto aggregatore o alle Province,
ai sensi della legge 7 aprile 2014, n. 56. In alternativa, gli stessi
Comuni possono acquisire beni e servizi attraverso gli strumenti
elettronici di acquisto gestiti da Consip S.p.A. o da altro soggetto
aggregatore di riferimento. L’Autorità per la vigilanza sui contratti
pubblici di lavori, servizi e forniture non rilascia il codice
identificativo gara (CIG) ai Comuni non capoluogo di provincia che
procedano all’acquisizione di lavori, beni e servizi in violazione degli
adempimenti previsti dal presente comma. Per i Comuni istituiti a
seguito di fusione l’obbligo di cui al primo periodo decorre dal terzo
anno successivo a quello di istituzione».

61.ITALIA V., MAGGIORA E., ROMANO A., L’Ordinamento comunale, Milano, Giuffrè, 2005, p. 415.

62.I
Municipi non sono enti soggettivamente distinti dal Comune, ragione per
la quale in caso di contenzioso per le operazioni elettorali
concernenti le elezioni del Consiglio municipale, esso va promosso
attraverso la notifica al solo Comune (Cons. Stato, 22 ottobre 2002, n.
5792).

63.Cons. Stato, Sez. V, n. 5792/2002; TAR Toscana, Sez. Firenze, n. 70/1988.

64.TOMEI R.,Le modifiche territoriali, fusioni ed istituzioni di Comuni, in DE MARZO G., TOMEI R.,Commentario al nuovo T.U. degli enti locali, Padova, Cedam, 2002, pp. 156-157.

65.Consiglio
di Stato, Sez. V, Sentenza depositata il 26 settembre 2014, n. 4837; v.
Consiglio di Stato, Sez. V, 8 aprile 2014, n. 1646

66.Ministero dell’interno, d.m. 1 settembre 2000, n. 318,
Regolamento concernente i criteri di riparto dei fondi erariali
destinati al finanziamento delle procedure di fusione tra i comuni e
l\’esercizio associato di funzioni comunali
, in G.U. 3 novembre 2000, n. 257. Il d.m. n. 318/2000 successivamente è stato modificato ad opera del d.m. n. 289/2004.

67.d.l. 6 luglio 2012, n. 95,Disposizioni
urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei
servizi ai cittadini nonché misure di rafforzamento patrimoniale delle
imprese del settore bancario
, in G.U. 6 luglio 2012, n. 156, S.O.; convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, L. 7 agosto 2012, n. 135.

68.d.l. 24 giugno 2014 n. 90,Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l’efficienza degli uffici giudiziari, in G.U. 24 giugno 2014, n. 144.

69.Articolo
modificato dalla legge di conversione 7 agosto 2012, n. 135 e,
successivamente, così sostituito dall’ art. 1, comma 118-bis, L. 7 aprile 2014, n. 56, inserito dall’ art. 23, comma 1, lett. f-ter), d.l. 24 giugno 2014, n. 90, convertito, con modificazioni, dalla L. 11 agosto 2014, n. 114.

70.Ministero dell’interno, d.m. 10 ottobre 2012,Modalità
e termini per il riparto dei contributi spettanti, a decorrere
dall\’anno 2013, ai comuni scaturenti da procedure di fusione realizzate
negli anni 2012 e successivi
, in G.U. 16 ottobre 2012, n. 242.

71.Ministero dell’interno D.Dirett. 11 giugno 2014,
Modalità e termini per l\’attribuzione, a decorrere dall\’anno 2014, dei
contributi spettanti ai comuni istituiti a seguito di procedure di
fusione
, in G.U. 17 giugno 2014, n. 138.

72.Fonte:http://www.tuttitalia.it/variazioni-amministrative/nuovi-comuni-2014.

73.Regione Puglia, Legge regionale 1 agosto 2014, n. 34,Disciplina dell’esercizio associato delle funzioni Comunali, in BURP n. 105 del 4 agosto 2014.

74.d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163,Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE, in GU. 2 maggio 2006, n. 100, S.O.

75.«L’Unione
di comuni, prevista dall’art. 32, d.lgs. 18 agosto 2000 n. 267 –
costituita da due o più Comuni di norma contermini per esercitare
congiuntamente una pluralità di funzioni di loro competenza – integra un
nuovo ente locale, dotato di autonoma personalità giuridica e
regolamentare e di propri organi» (TAR Torino, Sez. I 25/07/2013, n.
947)

76.L’impianto sanzionatorio introdotto con l’articolo 77-bisdel
d. l. n. 112/2008 è stato sostanzialmente confermato, con alcuni
inasprimenti, e da ultimo ribadito dall’articolo 7 del decreto
legislativo 6 settembre 2011, n. 149, che, nell’ambito delle misure
attuative della legge delega n. 42/2009 sul federalismo fiscale, reca la
disciplina dei meccanismi sanzionatori e premiali relativi a Regioni,
Province e Comuni.

77.cfr: art. 76 del decreto legge n. 112/2008, come successivamente modificato.

78.cfr: art. 9, commi 1, 2-bis e 28 del decreto legge n. 78/2010.

79.http://www.regione.emilia-romagna.it/notizie/2013/febbraio/un-nuovo-passo-verso-la-fusione-dei-comuni-della-valsamoggia

80.http://178.79.155.145/progettofusione/index.php/informarsi/gli-aspetti-economici

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