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CRISI CONIUGALE: L’assegno รจ sempre proporzionato al tenore di vita

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Sentenza 24.1.2011 n. 1612

 

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LUCCIOLI Maria Gabriella – Presidente –

Dott. FELICETTI Francesco – Consigliere –

Dott. CECCHERINI Aldo – Consigliere –

Dott. DOGLIOTTI Massimo – Consigliere –

Dott. MERCOLINO Guido – rel. Consigliere –

 

ha pronunciato la seguente: sentenza sul ricorso n. xx/2006 R.G., proposto da:

 

M.C., – ricorrente –

 

contro

 

L.G., – controricorrente / intimata –

 

avverso la sentenza della Corte di Appello di Brescia n. 426/2006, pubblicata il 25 maggio 2006; Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 19 ottobre 2010 dal Consigliere dott. Guido Mercolino; udito l’avv. Roberto G. Aloisio per il ricorrente;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CICCOLO Pasquale Paolo Maria, il quale ha concluso per la dichiarazione d’inammissibilità del ricorso.

 

Fatto

 

1. – Il Tribunale di Brescia, dopo aver pronunciato, con sentenza non definitiva del 23 gennaio 2003, lo scioglimento del matrimonio contratto da M.C. Con L.G., con sentenza definitiva del 14 novembre 2005 riconobbe alla donna un assegno mensile di Euro 7.500,00, da rivalutarsi annualmente, con decorrenza dalla sentenza.

2. – L’impugnazione proposta dal M. è stata rigettata dalla Corte d’Appello di Brescia, che con sentenza del 25 maggio 2006 ha parzialmente accolto l’appello incidentale della L..

condannando il M. al pagamento delle spese di entrambi i gradi del giudizio.

A fondamento della decisione, la Corte ha ritenuto che il Tribunale abbia correttamente applicato i criteri legali di determinazione dell’assegno, avendo accertato che la L., priva di redditi ed impossibilitata a procurarseli in quanto cinquantanovenne, non era in grado di mantenere l’elevato tenore di vita goduto in costanza di matrimonio, desumibile da consistente reddito del M. e dal suo ingente patrimonio, nonché dal complessivo stile di vita della coppia e dal possesso di abiti firmati e gioielli da parte della donna.

Quanto alla determinazione dell’assegno, ha ritenuto irrilevante la circostanza che il patrimonio del M. fosse stato interamente acquisito anteriormente alle nozze, conferendo rilievo preminente al contributo fornito dalla L. in qualità di casalinga, alla conduzione della famiglia, alla cura del figlio ed alla vita di relazione del coniuge, e quindi anche all’incremento del suo patrimonio personale.

3. – Avverso la predetta sentenza il M. propone ricorso per cassazione, articolato in due motivi. La L. resiste con controricorso. Le parti hanno depositato memorie.

 

Diritto

 

1. – Con il primo motivo d’impugnazione, il ricorrente deduce la violazione e la falsa applicazione della L. 1 dicembre 1970, n. 898, art. 5, comma 6, come modificato dalla L. 6 marzo 1987, n. 74, anche in relazione all’art. 2697 c.c., nonché l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia.

Sostiene infatti che, ai fini del riconoscimento del diritto all’assegno, la Corte d’Appello ha omesso di considerare le dazioni e le elargizioni da lui effettuate in favore della moglie, e segnatamente il godimento da parte di quest’ultima di una prestigiosa abitazione da lui acquistata e la sopportazione da parte di esso ricorrente delle relative spese di mantenimento e manutenzione, nonché il pagamento di una polizza di assicurazione contro le malattie e gli infortuni da lui stipulata a favore della L., e l’acquisto a favore di quest’ultima di una autovettura. Fssa., inoltre, non ha tenuto conto dell’obbligo, da lui assunto, di provvedere al mantenimento del figlio, maggiorenne ma economicamente non autosufficiente e con lui convivente, e non ha correttamente valutato la sua situazione economica, facendo riferimento al suo reddito lordo, anziché a quello effettivo, e dando credito ad una valutazione del suo patrimonio fondata su una perizia di parte più volte contestata.

La Corte ha infine omesso di valutare le condizioni economiche pattuite in sede di separazione e l’entità delle spese da lui sostenute in dipendenza delle stesse, fondando la propria decisione su fatti mai provati in giudizio.

1.1. – Il motivo è inammissibile, conglobando in un unico contesto censure di violazione di legge e vizio di motivazione, senza che quest’ultimo costituisca oggetto di una distinta sintesi conclusiva, recante la chiara indicazione dei fatti controversi e delle ragioni per cui si afferma l’inidoneità della motivazione a reggere la decisione adottata con la sentenza impugnata, e concludendosi con la formulazione di un quesito di diritto plurimo, mediante il quale il ricorrente, senza fare alcun cenno alla medesima decisione, chiede a questa Corte di stabilire astrattamente se. Ai fini del riconoscimento del diritto all’assegno divorzile e della liquidazione del relativo importo, debba tenersi conto delle elargizioni effettuate dal coniuge obbligato, del suo patrimonio e delle determinazioni adottate in sede di separazione.

Il quesito di diritto che, ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c., la parte ha l’onere di formulare a pena d’inammissibilità nel ricorso per cassazione, deve infatti consistere in una chiara sintesi logico- giuridica della questione sottoposta al vaglio del Giudice di legittimità, formulata in termini tali per cui dalla risposta, negativa od affermativa, che ad essa si dia, discenda in modo univoco l’accoglimento od il rigetto del gravame (cfr. Cass., Sez. Un., 28 settembre 2007, n. 20360; 30 ottobre 2008, n. 26020). La sua formulazione, pertanto, non può risolversi in una generica richiesta rivolta alla Corte di stabilire se sia stata violata una certa norma, ma postula l’enunciazione, da parte del ricorrente, di un principio di diritto diverso da quello posto a base del provvedimento impugnato e, perciò, tale da implicare un ribaltamento della decisione assunta dal giudice di merito (cfr. Cass. Sez. 3^, 19 febbraio 2009, n. 4044). Il quesito. Dovendo investire la ratio decidendi della sentenza impugnata e proporne una alternativa e di segno opposto, deve comprendere l’indicazione sia della regula juris adottata nel provvedimento impugnato, sia del diverso principio che il ricorrente assume corretto e che si sarebbe dovuto applicare in sostituzione del primo (cfr. Cass., Sez. lav., 26 novembre 2008, n. 28280; Cass. Sez. 3^, 30 settembre 2008, n. 24339). La mancanza anche di una sola delle due suddette indicazioni rende il motivo inammissibile, non potendo il quesito essere desunto dal contenuto della censura alla quale si riferisce, in quanto rispetto al sistema processuale previgente, che già richiedeva nella redazione del motivo l’indicazione della norma violata, la peculiarità dell’innovazione introdotta dall’art. 6 del D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, consiste proprio nell’imposizione di una sintesi originale ed autosufficiente della violazione stessa, funzionale alla formazione immediata e diretta del principio di diritto e. quindi, al miglior esercizio della funzione nomofilattica di questa Corte (cfr. Cass. Sez. 1^, 24 luglio 2008, n. 20409).

La necessità di una separata individuazione del fatto controverso e delle ragioni dell’inadeguatezza della motivazione, ove la sentenza sia impugnata ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, è a sua volta connessa ad un’esigenza di chiarezza, emergente dallo stesso art. 366 bis, la quale, pur non escludendo in linea di principio la deduzione con il medesimo motivo di vizi di violazione di legge e difetto di motivazione (cfr. Cass. Sez. Un. 31 marzo 2009. n. 7770), impone tuttavia, nella formulazione della censura. Un distinto momento di sintesi (omologo del quesito di diritto) che circoscriva puntualmente i limiti della critica alla motivazione in fatto, in modo da non ingenerare incertezze in sede di valutazione della sua ammissibilità (cfr. Cass. Sez. Un., 1 ottobre 2007. n. 20603; Cass., Sez. 3^, 18 luglio 2007, n. 16002).

2. – E’ parimenti inammissibile il secondo motivo, con cui il M. deduce la violazione e la falsa applicazione degli artt. 61, 101, 115 e 116 c.p.c., e dell’art. 2697 c.c. E ss., e art. 2727 c.c..

Sostiene il ricorrente che la sentenza impugnata, nella parte in cui ha fatto riferimento, ai fini della valutazione del suo patrimonio, ad una perizia di parte, più volte specificamente contestata, ha attribuito efficacia probatoria ad un atto che ne era sprovvisto, senza illustrare le ragioni per le quali l’ha ritenuta attendibile.

Essa, inoltre, ha conferito rilievo alle risultanze di articoli di giornali scandalistici, in cui egli veniva definito un “magnate”, benché gli stessi non fossero stati acquisiti in contraddittorio e fossero stati da lui immediatamente contestati, e ne ha desunto l’elevato tenore di vita della famiglia, in violazione delle norme che regolano l’efficacia e l’assunzione della prova.

2.1. – E’ noto peraltro che i documenti provenienti da terzi (ivi compresa la perizia di parte, ancorché giurata), pur non essendo dotali di una piena efficacia probatoria, possono offrire elementi indiziari utili, in concorso con altre risultanze, ad integrare il fondamento della decisione, ed il cui apprezzamento è pertanto affidato alla valutazione discrezionale del giudice di merito, insindacabile in sede di legittimità se adeguatamente motivata (cfr.

Cass., Sez. 3^, 22 aprile 2009. n. 9551; 25 febbraio 2002. n. 2737).

La censura in esame, sotto l’apparenza di una critica all’efficacia probatoria va attribuita dalla sentenza impugnata alla documentazione prodotta dalla controparte, appare dunque rivolta a sollecitare un diverso apprezzamento del materiale probatorio, non consentito in questa sede, non spettando a questa Corte il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico-formale e della correttezza giuridica. L’esame e la valutazione fatta dal giudice del merito, al quale soltanto spetta di individuare le fonti del proprio convincimento e, all’uopo, valutare le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, e scegliere tra le risultanze probatorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione (cfr. ex plurimis, Cass., Sez. lav., 23 dicembre 2009. n. 27162; 11 luglio 2007, n. 11489).

3. – Le spese del giudizio seguono la soccombenza, e si liquidano come dal dispositivo.

 

P.Q.M.

 

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali, che si liquidano in complessivi Euro 4.200,00, ivi compresi Euro 200,00 per esborsi, oltre alle spese generali ed agli accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Prima Sezione Civile, il 19 ottobre 2010.

Depositato in Cancelleria il 24 gennaio 2011

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