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BANCAROTTA FRAUDOLENTA “DOCUMENTALE”: La confusione contabile determina la condanna

Bancarotta. Tenuta confusa della contabilità

Cassazione Penale, sentenza depositata il 16 marzo 2015

Risponde
del reato di bancarotta fraudolenta documentale l’imprenditore che ha
tenuto in malo modo la contabilità tanto da rendere impossibile la
ricostruzione del patrimonio della fallita: a integrare il reato è
sufficiente il “dolo generico”, ossia la consapevolezza da parte dell’imprenditore che la confusa tenuta delle contabilità renderà o potrà rendere impossibile la ricostruzione delle vicende del patrimonio societario.

È quanto emerge dalla sentenza n. 11115/15, pubblicata il 16 marzo dalla Quinta Sezione Penale della Suprema Corte.

Il
GUP ha dichiarato il luogo a procedere nei confronti di un imprenditore
romano in relazione al reato di bancarotta fraudolenta documentale
contestato per irregolarità nella tenuta delle scritture contabili nel
triennio precedente il fallimento.

La Procura della Repubblica
ha interposto ricorso per cassazione deducendo l’errata applicazione
della legge penale, posto che la sentenza impugnata ha sostanzialmente
prosciolto l’imputato per difetto del dolo “specifico”, vale a dire per
la mancanza dello scopo di recare pregiudizi ai creditori, mentre la
fattispecie evocata nell’atto imputativo era quella prevista dalla seconda parte dell’art. 216, comma 1, n. 2, della L.fall., per la cui configurabilità è invece sufficiente il dolo “generico”, ossia la consapevolezza che la confusa tenuta delle contabilità renderà o potrà rendere impossibile la ricostruzione delle vicende del patrimonio della fallita.

Ebbene, il motivo sollevato dalla Procura ha trovato terreno fertile presso le aule del Palazzaccio.

Gli ermellini rilevano come oggetto dell’imputazione sia stata la tenuta fraudolenta della contabilità,
in quanto non più aggiornata dall’ottobre 2007 con la conseguenza di
aver reso impossibile la ricostruzione del patrimonio della fallita. In
motivazione si legge: “Come si è visto effettivamente il capo
d’imputazione sembra essere stato impostato in tal senso. È infatti
evidente come l’imprenditore non possa allo stesso tempo omettere la
contabilità e tenerla in modo tale da non rendere possibile la
ricostruzione del patrimonio, condotta quest’ultima che presuppone
l’inattendibilità fraudolentemente provocata di scritture effettivamente
esistenti. Deve allora ritenersi che nello specificare come l’omessa
tenuta in realtà si sarebbe sostanziato nell’omesso aggiornamento di scritture contabili invero istituite, il titolare dell’azione penale abbia inteso contestare un fatto riconducibile allo schema descritto nella seconda parte della norma incriminatrice evocata,
i cui elementi costitutivi sono stati correttamente descritti
nell’imputazione attraverso il richiamo delle connotazioni modali che ne
caratterizzano il profilo. L’elemento soggettivo di questa fattispecie è integrato dal ‘dolo generico’,
ossia dalla consapevolezza che la confusa tenuta della contabilità
renderà o potrà rendere impossibile la ricostruzione delle vicende del
patrimonio, in quanto la locuzione in guisa da non rendere possibile la
ricostruzione del patrimonio o del movimento degli affari connota la
condotta e non la volontà dell’agente, sicché è da escludere che essa
configuri il dolo come specifico
”.

Per la Corte, inoltre,
una volta escluso il dolo specifico in capo all’imputato, ma comunque
accertato che il medesimo aveva omesso di tenere le scritture contabili
nei tre anni antecedenti alla dichiarazione di fallimento, il GUP
avrebbe dovuto procedere alla riqualificazione del fatto contestato come
bancarotta semplice documentale ex art. 217, comma 2, L.fall., punibile
a titolo di dolo generico o di mera colpa.

Dal che il rinvio al Giudice di merito per nuovo giudizio.

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