Solo annullabile la deliberazione dell’assemblea della Spa in caso di violazione del diritto di opzione di acquisto di azioni proprie spettante ai soci o di violazione del quorum deliberativo.
È quanto sancito dalla Corte di cassazione che, con la sentenza n. 1361 del 20 gennaio 2011, ha stabilito che “la deliberazione con cui una s.p.a. autorizza l’acquisto di azioni proprie, assunta ai sensi dell’art. 2357 cod. civ., legittimamente tiene conto, nel calcolo dei limiti di legge, sia della riserva da sovrapprezzo delle azioni (divenuta disponibile dopo la trasformazione della società da cooperativa a s.p.a.), sia dell’aumento di capitale sociale successivo all’ultimo bilancio approvato; mentre la violazione del diritto di opzione spettante ai soci o l’errore nel calcolo del quorum deliberativo possono comportare la mera annullabilità della deliberazione assembleare”.
Cassazione.Net Procedimento Civile
Sentenza
n. 01361/2011
Sezione 1
Udienza del 16/12/2010
Depositato il 20/01/2011
REPUBBLICA ITALIANA Ud. 16/12/10
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO R.G.N. 31612/2005
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CARNEVALE Corrado – Presidente –
Dott. RORDORF Renato – rel. Consigliere –
Dott. CECCHERINI Aldo – Consigliere –
Dott. RAGONESI Vittorio – Consigliere –
Dott. CULTRERA Maria Rosaria – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso 31612 – 2005 proposto da:
T.A. (c.f. (OMISSIS)), elettivamente domiciliato in
ROMA, VIA CARLO MIRABELLO 6, presso l\’avvocato D\’AGOSTINO ANTONIO,
rappresentato e difeso dall\’avvocato TORDO CAPRIOLI ALFONSO, giusta
procura a margine del ricorso;
– ricorrente –
contro
BANCA POPOLARE DI TODI S.P.A. (c.f. (OMISSIS)), in persona del
Presidente pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA
BARBERINI 52, presso l\’avvocato GOLINO VINCENZO, rappresentata e
difesa dall\’avvocato SEGOLONI ANNALISA, giusta procura a margine del
controricorso;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 910/2004 della CORTE D\’APPELLO di PERUGIA,
depositata il 18/10/2004;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del
16/12/2010 dal Consigliere Dott. RENATO RORDORF;
udito, per il ricorrente, l\’Avvocato A. TORDO CAPRIOLI che ha chiesto
l\’accoglimento del ricorso;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.
CARESTIA Antonietta che ha concluso per il rigetto del ricorso.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Il sig. T.A., socio della Banca Popolare di Todi s.p.a., con
atto notificato il 23 luglio 1996 cito\’ detta societa\’ in giudizio
dinanzi al Tribunale di Perugia per far dichiarare nulla o annullare
una deliberazione assembleare, assunta il 25 aprile 1996, con cui gli
amministratori erano stati autorizzati ad acquistare 7.000 azioni
proprie della societa\’.
Essendo stata la domanda rigettata dal tribunale, il sig. T.
propose gravame, che fu pero\’ del pari rigettato dalla Corte
d\’appello di Perugia con sentenza depositata il 18 ottobre 2004.
La corte umbra, per quanto ancora in questa sede interessa, anzitutto
nego\’ fondamento alla tesi dell\’impugnante secondo cui l\’acquisto di
azioni proprie della societa\’ sarebbe avvenuto in violazione del
primo comma dell\’art. 2357 c.c., ossia oltre il limite degli utili
distribuibili e delle riserve disponibili. Tale limite, a giudizio
della corte, non era stato superato, potendosi tra le riserve
computare anche quella iscritta nel bilancio relativo all\’esercizio
1995 come “fondo sovrapprezzo di emissione”, divenuta disponibile per
effetto dell\’avvenuta trasformazione della Banca di Todi in societa\’
per azioni in epoca anteriore alla deliberazione impugnata; ne\’
poteva convenirsi con l\’assunto dell\’appellante – peraltro
inammissibile, perche\’ dedotto per la prima volta nel giudizio di
gravame – secondo cui, per rendere disponibile detto fondo, sarebbe
occorsa l\’approvazione di un ulteriore bilancio successivo alla
trasformazione.
Fu del pari escluso dalla corte d\’appello che l\’acquisto di azioni
proprie fosse stato autorizzato dall\’assemblea oltre il limite del
dieci per cento del capitale, posto dal terzo comma del citato art.
2357 (nella formulazione vigente all\’epoca dei fatti di causa). La
corte ritenne che si dovesse a tal fine tener conto del capitale
risultante all\’esito di un aumento deliberato il 6 marzo 1996,
ancorche\’ successivo all\’approvazione dell\’ultimo bilancio, non
potendo trovare ingresso in appello l\’eccezione con la quale il sig.
T. aveva contestato la mancata informazione all\’assemblea
dell\’avvenuta &
nbsp; sottoscrizione di detto aumento di capitale;
sottoscrizione comunque tempestivamente documentata in causa dalla
difesa della banca, la quale aveva provveduto a depositare il proprio
fascicolo di parte, precedentemente ritirato, entro quattro giorni
dalla scadenza del termine per la presentazione delle memorie di
replica alla comparsa conclusionale.
Fu disattesa anche l\’eccezione di nullita\’, o di giuridica
inesistenza, della deliberazione di aumento del capitale sociale
sopra menzionata: in parte per difetto di specificita\’ del dedotto
motivo di gravame ed in parte per l\’infondatezza dell\’assunto
dell\’appellante secondo cui l\’aumento del capitale, con esclusione
del diritto di opzione, non avrebbe potuto esser deliberato
contestualmente alla trasformazione dell\’ente in societa\’ azionaria
ed avrebbe dovuto necessariamente essere adottato nelle forme e con
le maggioranze richieste per quest\’ultimo tipo di societa\’.
Venne infine rigettato il motivo di gravame concernente la pretesa
invalidita\’ della delibera assembleare del 25 aprile 1996 per eccesso
di potere della maggioranza, non essendo state dedotte prove idonee a
sorreggere l\’assunto dell\’appellante.
Avverso tale sentenza il sig. T. ha proposto ricorso per
cassazione, articolato in cinque motivi, al quale la Banca di Todi ha
replicato con controricorso e successiva memoria.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. La questione posta all\’esame di questa corte dal primo motivo del
ricorso concerne il dettato dell\’art. 2357 c.c., comma 1, che
consente ad una societa\’ azionaria di acquistare azioni proprie solo
“nei limiti degli utili distribuibili e delle riserve disponibili
risultanti dall\’ultimo bilancio regolarmente approvato”.
1.1. La corte d\’appello ha escluso che, nel caso in esame, quel
limite sia stato superato ed a tale conclusione e\’ pervenuta
computando tra le riserve disponibili della Banca di Todi anche una
posta, denominata in bilancio “fondo sovrapprezzo azioni”, che era
stata inizialmente costituita, a norma del terzo comma del previgente
art. 2525 (ora sostituito dall\’art. 2528 c.c., comma 2, quando la
societa\’ aveva ancora veste di cooperativa. La successiva
trasformazione dell\’ente in societa\’ per azioni ha indotto la corte
territoriale a reputare che detta riserva, all\’atto della
deliberazione avente ad oggetto l\’acquisto di azioni proprie della
societa\’, fosse divenuta pienamente disponibile e che, percio\’, se ne
potesse tener conto per ampliare il limite entro cui l\’acquisto di
dette azioni era consentito.
Il ricorrente, lamentando la violazione di varie norme di diritto
sostanziale e processuale, oltre che vizi di motivazione
dell\’impugnata sentenza, contesta siffatta conclusione e sostiene
che, viceversa, avendo il legislatore fatto riferimento alle riserve
disponibili risultanti dall\’ultimo bilancio approvato ed essendo
stato l\’ultimo bilancio della Banca di Todi approvato, prima
dell\’impugnata delibera, quando la societa\’ era ancora una
cooperativa, il “fondo sovrapprezzo azioni” non avrebbe potuto esser
considerato disponibile. Per raggiungere un tale scopo, sempre
secondo il ricorrente, sarebbe prima occorsa l\’approvazione di un
nuovo bilancio,, che tenesse conto della diversa veste giuridica
assunta dalla societa\’ ed anche di ogni ulteriore fatto sopravvenuto.
Lamenta ancora il ricorrente che quest\’ultimo rilievo – quello
concernente la necessita\’ dell\’approvazione di un bilancio successivo
alla trasformazione per poter computare il suddetto fondo tra le
riserve disponibili – sia stato giudicato inammissibile dalla corte
d\’appello, perche\’ nuovo, senza pero\’ tener conto che non si trattava
di un\’eccezione, bensi\’ di una mera argomentazione difensiva. E si
duole anche che la stessa corte non abbia preso in considerazione le
circostanze, dedotte nell\’atto di gravame, dalle quali risultava
come, per l\’acquisto delle azioni proprie, la societa\’ avesse in
concreto utilizzato fondi diversi da quello per sovrapprezzo azioni
sopra menzionato.
1.2. Le riferite censure non sono convincenti, o almeno non al punto
da indurre alla cassazione della sentenza impugnata.
Puo\’ darsi che l\’assunto prospettato dall\’appellante secondo cui
sarebbe occorso un nuovo bilancio per rendere disponibili riserve che
all\’origine non lo erano non integri una vera e propria eccezione.
Non e\’ pero\’ possibile rimettere in discussione in questa sede
l\’entita\’ delle riserve di cui si discute, ne\’ il modo del loro reale
utilizzo ed il rapporto quantitativo tra esse e le azioni, proprie
cui si riferisce l\’impugnata delibera assembleare, trattandosi di
profili di fatto, accertati in modo preciso nel giudizio di merito e
non suscettibili di essere rivisti dal giudice di legittimita\’ se non
a patto di un non ammissibile riesame diretto delle risultanze
istruttorie.
La questione decisiva resta, allora, unicamente quella di stabilire
se fosse o meno disponibile, per essere utilizzata nell\’acquisto di
azioni proprie a norma del primo comma del citato art. 2357, la
riserva da sopraprezzo iscritta nell\’ultimo bilancio approvato,
avendo nel frattempo la cooperativa assunto la veste di societa\’ per
azioni.
A tale domanda la risposta non puo\’ che essere positiva.
Gia\’ prima della riforma del diritto societario attuata nel 2003 era
opinione della prevalente dottrina che, nelle societa\’ cooperative,
non essendo previsto un tetto massimo per la riserva legale, la
riserva costituita dal sovrapprezzo di azioni fosse indisponibile, e
quindi non utilizzabile per l\’eventuale acquisto di azioni proprie
della societa\’. Una volta, pero\’, che la cooperativa abbia dismesso
questa veste per assumere quella di societa\’ per azioni, e che siano
divenute quindi ad essa ap
plicabili le disposizioni vigenti per
quest\’ultimo tipo sociale, mentre la riserva non cessa di esistere
nel patrimonio dell\’ente, viene meno la ragione d\’indisponibilita\’
strettamente legata al vigore di disposizioni riferibili alle sole
societa\’ cooperative e si rendono invece applicabili le norme in tema
di societa\’ azionaria, nel cui ambito le riserve da sovrapprezzo sono
disponibili quando ricorra la condizione richiesta dall\’art. 2431
c.c..
L\’obiezione secondo la quale il riferimento dell\’art. 357, comma 1,
alle “riserve disponibili risultanti dall\’ultimo bilancio”
implicherebbe che anche l\’indicato requisito della disponibilita\’
delle riserve debba sussistere alla data di chiusura di detto
bilancio, non rilevando le eventuali vicende societarie successive
(se non risultanti dall\’approvazione di un eventuale ulteriore
bilancio) non appare persuasiva.
La ratio della norma risiede nella tutela del capitale sociale, per
impedire che l\’acquisto delle azioni proprie della societa\’ mascheri
un\’indebita restituzione dei conferimenti ai soci (come potrebbe
accadere se fosse a tal fine impiegato una parte del capitale sociale
formato da detti conferimenti) o che siano intaccate riserve non
utilizzabili in quanto destinate (per legge o per statuto) a
preservare la solidita\’ patrimoniale dell\’ente o, comunque, a scopi
diversi. Cio\’ che necessita e\’ percio\’, in primo luogo, che le
riserve da utilizzare per l\’acquisto delle azioni effettivamente
sussistano ed, in secondo luogo, che siano legittimamente adoperabili
a questo fine.
Il riferimento del legislatore alle risultanze dell\’ultimo bilancio
approvato attiene, evidentemente, alla prima di siffatte condizioni,
ma non anche alla seconda. E\’ dal bilancio che si puo\’ ricavare
l\’attestazione dell\’esistenza della riserva patrimoniale di cui si
tratta (ferma ovviamente la responsabilita\’ degli amministratori nel
verificare che la riserva non sia medio tempore venuta meno): perche\’
la funzione del bilancio e\’ appunto quella di dar conto
dell\’esistenza di valori patrimoniali classificati in base al sistema
di contabilita\’ aziendale; non, invece, di determinare se e quale
regime debba trovare applicazione per detti valori e per le poste che
contabilmente li rappresentano.
Non e\’ infatti il bilancio, bensi\’ direttamente la legge, che
disciplina la disponibilita\’ della riserva da sovrapprezzo, il cui
regime, sotto questo profilo, non muterebbe di certo sol perche\’
eventualmente nel bilancio medesimo essa fosse stata erroneamente
classificata disponibile, se tale non era, o viceversa.
Acclarato, percio\’, che la riserva da sovrapprezzo esisteva, ne
consegue che la possibilita\’ di adoperarla per acquistare azioni
proprie correttamente e\’ stata vagliata in base alle disposizioni
applicabili, all\’atto della deliberazione di acquisto di siffatte
azioni, avuto riguardo al tipo di societa\’ che quella deliberazione
ha assunto.
2. Il secondo, il terzo ed il quarto motivo di ricorso riguardano,
sotto differenti profili, una diversa questione: se la piu\’ volte
menzionata deliberazione assembleare di autorizzazione all\’acquisto
di azioni proprie sia stata o meno rispettosa del disposto del terzo
comma del medesimo art. 2357.
Tale norma, nella formulazione vigente al tempo dei fatti di causa
(prima delle modifiche apportate dal D.Lgs. n. 142 del 2008),
circoscriveva la possibilita\’ di acquistare azioni proprie da parte
di qualsiasi societa\’ entro un limite di valore non eccedente la
decima parte del capitale sociale, comprendendo nel computo anche le
azioni possedute tramite societa\’ controllate.
2.1. Il tribunale, prima, e la corte d\’appello, poi, hanno reputato
che neppure tale disposizione sia stata violata nel caso in esame,
dovendosi tener conto dell\’ammontare del capitale sociale risultante
all\’esito di un aumento deliberato alcun tempo prima dall\’assemblea
straordinaria della societa\’.
2.1.1. Il ricorrente contesta questa conclusione, denunciando
svariati errori di diritto sostanziale e processuale, nonche\’ vizi di
motivazione dell\’impugnata sentenza, anzitutto perche\’, a suo parere,
il limite quantitativo posto dalla norma alla possibilita\’ di
acquisto di azioni proprie andrebbe individuato unicamente nel
capitale indicato dall\’ultimo bilancio, che nel caso in esame era
quello chiuso al 31 dicembre 1995. Avrebbe percio\’ errato la corte
d\’appello nel prendere invece in considerazione il capitale
risultante a seguito della deliberazione di aumento assunta
dall\’assemblea il 6 marzo 1996. Per poter tenere conto di siffatto
aumento di capitale, sarebbe stato almeno necessario presentare
all\’assemblea una situazione patrimoniale aggiornata, o comunque
mettere i soci in condizione di verificare l\’avvenuta sottoscrizione
del capitale aumentato, non potendo un simile accertamento aver luogo
solo successivamente, in sede giudiziaria. Ne\’ sarebbe fondato,
sempre a parere del ricorrente, il rilievo della corte d\’appello in
ordine all\’inammissibilita\’ di quest\’ultima eccezione, sollevata per
la prima volta in secondo grado, trattandosi anche in questo caso di
una mera argomentazione difensiva, del resto gia\’ insita nelle difese
formulate dinanzi al tribunale.
2.1.2. In ogni caso, sostiene ancora il ricorrente, per poter
ampliare il limite entro cui alla societa\’ era consentito acquistare
azioni proprie, sarebbe occorso che l\’aumento di capitale deliberato
il 6 marzo 1996 fosse stato anche sottoscritto (se non addirittura
versato) e, contrariamente a quanto affermato dalla corte d\’appello,
cio\’ non e\’ stato idoneamente provato in giudizio dalla Banca di
Todi, poiche\’ la relativa documentazione era contenuta nel fascicolo
di parte di detta banca, che lo aveva ritirato e poi ridepositato
prima che la causa fosse posta in decisione dinanzi al tribunale; ma
questo deposito era stato tardivo, siccome effettuato dopo lo scadere
del termine
per la presentazione delle comparse conclusionali
indicato dal secondo comma dell\’art. 169 c.p.c.. Ne\’ sarebbe da
condividere la contraria opinione manifestata dalla corte d\’appello
secondo cui, nel regime successivo alla novella processuale del 1990,
il deposito del fascicolo di parte in precedenza ritirato puo\’ aver
luogo fino a quattro giorni prima della scadenza del termine per le
memorie di replica, in coerenza con quanto stabilisce il primo comma
dell\’art. Ili delle disposizioni di attuazione. E neppure avrebbe
fondamento l\’ulteriore affermazione della stessa corte che ha
ritenuto comunque non rilevante l\’eventuale violazione del predetto
termine, in quanto non disposto a tutela del diritto di difesa della
controparte.
2.1.3. Il ricorrente sostiene, poi, che non si sarebbe potuto tener
conto del suindicato aumento di capitale anche perche\’ la relativa
deliberazione assembleare e\’ da considerare nulla (o giuridicamente
inesistente); e contesta che fosse generico il motivo di gravame da
lui formulato sul punto, avendo egli invece ben evidenziato le
ragioni dell\’eccepita invalidita\’ del menzionato aumento di capitale.
Invalidita\’ derivante dal fatto che quell\’aumento era stato adottato
con la medesima deliberazione con cui la societa\’ cooperativa era
stata trasformata in societa\’ per azioni: il che avrebbe reso
necessario procedere a due distinte deliberazioni, essendo ormai la
seconda soggetta alle differenti regole di votazione proprie della
societa\’ azionaria.
Osserva ancora il ricorrente che, ove si volesse invece condividere
l\’opinione del tribunale e della corte d\’appello secondo cui
l\’aumento di capitale era stato deliberato dalla societa\’ quando
questa aveva ancora la forma giuridica di una cooperativa, non si
potrebbe sfuggire al rilievo che il quorum deliberativo in tal caso
richiesto dalla legge, commisurato al numero dei soci e non
all\’entita\’ del capitale da ciascuno di essi sottoscritto, non
risultava essere stato conseguito. Ed a questo rilievo,
contrariamente a quanto affermato nell\’impugnata sentenza, il
tribunale aveva dato risposta, sia pure erroneamente, e l\’appellante
se ne era doluto: sicche\’ la corte d\’appello avrebbe dovuto farsi
carico della questione ed avrebbe dovuto dare atto della nullita\’ o
dell\’inesistenza del deliberato aumento del capitale, derivanti anche
dall\’indebita esclusione del diritto di opzione, pure del quale
l\’appellante si era tempestivamente lagnato.
2.2. Esaminando in ordine le diverse doglianze cui s\’e\’ fatto cenno,
e\’ necessario anzitutto confermare l\’esattezza del principio di
diritto enunciato dalla corte d\’appello, secondo cui, nel valutare se
un acquisto di azioni proprie sia stato deliberato nel rispetto del
limite fissato dall\’art. 2357 c.c., comma 3, occorre tener conto
anche dell\’eventuale aumento di capitale deliberato e sottoscritto
successivamente all\’ultimo bilancio d\’esercizio approvato, senza che
sia a tal fine necessario procedere all\’approvazione di un ulteriore
bilancio.
Inducono a tale conclusione argomenti sia di ordine testuale sia di
ordine logico.
Sul piano testuale e\’ agevole constatare come il citato dell\’art.
2357, comma 3, si limiti a richiedere che il valore delle azioni
proprie acquistate dalla societa\’ non ecceda il dieci per cento del
capitale ma, a differenza del primo comma, non faccia alcuna menzione
dell\’ultimo bilancio approvato.
Sul piano logico e\’ da considerare che tale prescrizione,
diversamente dall\’altra cui sopra s\’e\’ fatto cenno, non appare
dettata dall\’intento di salvaguardare l\’integrita\’ del capitale
sociale, bensi\’ dallo scopo d\’impedire un eccessivo accumulo di
potere nelle mani dell\’organo amministrativo della societa\’ e la
possibilita\’ che cio\’ influenzi indebitamente il mercato delle azioni
ed eventualmente anche la futura composizione dell\’azionariato. Quel
che conta, a tal fine, e\’ percio\’ la misura attuale del capitale e
delle azioni in circolazione, con cui occorre confrontare il numero
delle azioni proprie acquistate dalla societa\’, e non quale fosse la
misura del medesimo capitale in un momento precedente,
indipendentemente da quando l\’ultimo bilancio sia stato approvato.
2.2.1. Naturalmente, per le medesime ragioni, il capitale cui si deve
fare riferimento non e\’ quello meramente deliberato, bensi\’ quello
effettivamente sottoscritto, cui corrisponde il numero delle azioni
emesse dalla societa\’.
Nel caso in esame, come s\’e\’ accennato, il capitale al quale la corte
di merito ha fatto riferimento, nel giudicare del non superamento dei
limiti posti dal citato terzo comma dell\’art. 2357, e\’, appunto,
quello sottoscritto. Ne\’ ha fondamento l\’obiezione del ricorrente,
secondo cui la prova della sottoscrizione di detto capitale non
sarebbe stata ritualmente acquisita, perche\’ il fascicolo di parte
che la conteneva era stato prima ritirato e poi solo tardivamente
ridepositato nella cancelleria del giudice di primo grado. Se anche
le cose stessero in questo modo, occorrerebbe considerare che quel
medesimo fascicolo di parte, con i documenti dai quali la corte di
merito ha tratto il proprio motivato convincimento in ordine
all\’avvenuta sottoscrizione del capitale nell\’indicata misura, e\’
stato incontrovertibilmente di nuovo depositato in secondo grado.
Tanto basta a rendere utilizzabili i summenzionati documenti, non
ostandovi il divieto di nuove prove in appello: appunto perche\’ non
di documenti nuovi si e\’ trattato, bensi\’ di documenti gia\’ a suo
tempo ritualmente prodotti dinanzi al tribunale ed offerti all\’esame
dell\’attore quando il fascicolo di parte convenuta e\’ stato per la
prima volta tempestivamente depositato nella cancelleria del
tribunale.
Accertato, allora, in punto di fatto, che furono acquistate azioni
proprie in misura non eccedente il limite del dieci per cent
o del
capitale sociale sottoscritto, nessuna contrarieta\’ alla legge o allo
statuto e\’ dato ravvisare, sotto questo profilo, nella deliberazione
assembleare che quell\’acquisto aveva autorizzato, non sussistendo
alcuna prescrizione che imponga di fornire seduta stante ai soci una
specifica informazione sull\’avvenuta sottoscrizione del capitale
aumentato (verificabile in qualsiasi momento, da chiunque, a seguito
dell\’iscrizione nel registro delle imprese disposta ai sensi
dell\’art. 2444 c.c., comma 1).
2.2.2. Non ha pregio neppure l\’assunto secondo il quale del riferito
aumento di capitale non si sarebbe potuto comunque tener conto
perche\’ frutto di una deliberazione assembleare invalida.
Occorre a tal proposito osservare – ed e\’ rilievo puntualmente
sollevato dal Procuratore generale nella discussione in pubblica
udienza, assorbente anche rispetto alle diverse considerazioni svolte
sul punto nell\’impugnata sentenza – che nessuno dei vizi dai quali il
ricorrente afferma che la menzionata deliberazione di aumento del
capitale sarebbe affetta e\’ tale da determinarne la nullita\’, e tanto
meno l\’inesistenza giuridica.
E\’ ben noto che, in tema di deliberazioni assembleari di societa\’ per
azioni, il regime dell\’invalidita\’ differisce da quello previsto in
generale per gli atti negoziali, giacche\’, a norma dell\’art. 2377
c.c., la contrarieta\’ della deliberazione a prescrizioni di legge
imperative o a disposizioni dello statuto sociale ne comporta la mera
annullabilita\’, laddove e\’ solo in presenza di una delle situazioni
tassativamente indicate dal successivo art. 2379 che la deliberazione
puo\’ essere considerata radicalmente nulla.
Cio\’ consente, anzitutto, di escludere subito che possa parlarsi di
nullita\’ della delibera di aumento del capitale sociale per pretesa
violazione del diritto di opzione spettante ai soci, giacche\’ tale
diritto e\’ tutelato dalla legge solo in funzione dell\’interesse
individuale dei soci ed il contrasto con norme, anche cogenti,
rivolte alla tutela dell\’interesse dei singoli soci determina
un\’ipotesi di semplice annullabilita\’, laddove la nullita\’ delle
deliberazioni dell\’assemblea delle societa\’ per azioni per illiceita\’
dell\’oggetto, ai sensi dell\’art. 2379 c.c., (anche nel testo
anteriore alle modifiche introdotte dal D.Lgs. n. 6 del 2003),
ricorre solo in caso di contrasto con norme dettate a tutela
dell\’interesse generale, tale da trascendere quello del singolo socio
(cfr., da ultimo, Cass. 7 novembre 2008, n. 26842).
Non diversamente e\’ a dirsi anche per gli ulteriori vizi della
deliberazione denunciati dal ricorrente, che ugualmente non mettono
capo ad un\’ipotesi di oggetto illecito, tale evidentemente non
potendosi considerare ne\’ la trasformazione della cooperativa in
societa\’ per azioni (consentita alle banche popolari gia\’ all\’epoca
dei fatti di causa) ne\’ l\’aumento del capitale sociale.
E\’ altresi\’ da escludere che i denunciati vizi della deliberazione di
aumento del capitale sociale evidenzino deviazioni cosi\’ radicali dal
modello legale da configurare un\’ipotesi d\’inesistenza giuridica
della deliberazione stessa: la quale, a quanto risulta, e\’ stata
assunta da un\’assemblea ritualmente convocata, il cui andamento e\’
stato normalmente verbalizzato, e che si e\’ svolta senza particolari
anomalie, salvo ad essersi conclusa con una votazione contestuale
vertente tanto sulla proposta di trasformazione sociale che su quella
di aumento del capitale.
I vizi che in cio\’ ravvisa il ricorrente si riducono, a ben vedere,
ad un\’asserita anomalia del procedimento di votazione ed alla non
corretta modalita\’ di computo delle maggioranze occorrenti per
l\’approvazione della proposta di aumento del capitale sociale. Ma, se
anche si volessero considerare esistenti tali anomalie, non se ne
potrebbe dedurre altro se non che il procedimento di votazione e le
modalita\’ di calcolo del quorum deliberativo non sono risultati
conformi alla legge. Non ignora il collegio che, in tempi peraltro
assai risalenti, questa corte ha parlato d\’inesistenza della
deliberazione assunta in difetto della maggioranza richiesta
dall\’atto costitutivo della societa\’ (Cass. 13 gennaio 1987, n. 133);
ma un siffatta affermazione, che dovrebbe ovviamente a maggior
ragione valere per il difetto di quorum deliberativo prescritto dalla
legge, anche alla luce degli orientamenti espressi da autorevole
dottrina non puo\’ essere qui confermata, o almeno non in termini
assoluti e generali.
Neppure nel contesto normativo anteriore alla suaccennata riforma del
2003 (con la quale il legislatore ha chiaramente manifestato
l\’intento di togliere spazio alla figura giurisprudenziale
dell\’inesistenza giuridica delle deliberazioni societarie) si sarebbe
potuto sostenere che una deliberazione adottata in difformita\’ dalle
disposizioni di legge o dello statuto in materia di quorum
deliberativi non abbia i lineamenti essenziali richiesti per
integrare il modello legale di una decisione assunta dai soci della
societa\’ in ordine alle proposte riportate nell\’ordine del giorno
dell\’assemblea. Una siffatta deliberazione, proveniente da
un\’assemblea formata da soggetti legittimati ad assumerla e
conclusasi con la proclamazione del risultato, e\’ certamente un atto
giuridico venuto ad esistenza. Ne\’ vi osta il fatto che si sia
proceduto ad un\’unica votazione per una pluralita\’ di oggetti, volta
che risulti comunque possibile riferire l\’esito della votazione
medesima a ciascuno di essi.
La deliberazione e\’ stata assunta e l\’esito ne e\’ stato proclamato e
reso pubblico. L\’eventuale errore nel computo dei voti, se fosse
effetto di una mera svista, non potrebbe logicamente produrre
conseguenze maggiori di quanto accade per l\’errore ostativo in ambito
negoziale; se invece –
come si sostiene essere avvenuto nella
fattispecie in esame – si fosse in presenza di un\’errata valutazione
circa le modalita\’ di calcolo del quorum, operato secondo regole
diverse da quelle legali o statutarie, cio\’ non potrebbe che tradursi
in una non conformita\’ alla legge (nella parte in cui questa dispone,
appunto, in ordine alle suddette modalita\’ di calcolo); ma in nessun
caso potrebbe condurre a conseguenze piu\’ radicali, come quelle
dell\’ipotizzata inesistenza della deliberazione proclamata,
palesemente contrarie alle fondamentali esigenze di certezza e di
affidamento che ispirano (ed ispiravano anche nel regime anteriore
alla cennata riforma societaria) la disciplina degli artt. 2377 e
segg. c.c..
Si tratta, quindi, di una deliberazione semmai, annullabile, la cui
stabilita\’ ed i cui effetti non possono percio\’ essere messi in
discussione ove, entro il termine di decadenza fissato dal citato
art. 2311, nessuno dei soggetti a cio\’ legittimati abbia proposto
azione di annullamento.
Stando cosi\’ le cose, ed avendo il ricorrente sollevato solo in una
memoria depositata il 30 ottobre 1997 (si\’ veda il ricorso, pag. 9)
la questione dell\’invalidita\’ della delibera di aumento del capitale
sociale assunta dall\’assemblea il 6 marzo 1996, e\’ evidente che le
asserite ragioni d\’invalidita\’ di detta deliberazione sono state
dedotte quando erano ormai precluse.
3. L\’ultimo motivo di ricorso sposta l\’attenzione su un tema del
tutto diverso: l\’asserita invalidita\’ per eccesso di potere della
delibera assembleare che ha autorizzato gli amministratori della
Banca di Todi ad acquistare azioni proprie.
3.1. Avendo tanto il tribunale quanto la corte d\’appello escluso che
una tale ragione d\’invalidita\’ fosse stata dimostrata in causa, il
ricorrente si duole che il giudice del gravame non abbia preso in
considerazione alcune specifiche censure da lui rivolte alla sentenza
di primo grado, ne\’ abbia inteso il senso delle argomentazioni con le
quali era stato posto in evidenza l\’abuso consumato dal socio di
maggioranza al fine di trasformare il proprio controllo di fatto in
un pieno controllo di diritto della societa\’.
3.2. Neppure tale motivo di ricorso puo\’ essere accolto.
Premesso che nel giudizio di merito e\’ stata fatta corretta
applicazione del principio di diritto, sovente enunciato da questa
corte, secondo cui l\’abuso o eccesso di potere puo\’ costituire motivo
di invalidita\’ della delibera assembleare soltanto quando vi sia la
prova che il voto determinante del socio di maggioranza e\’ stato
espresso allo scopo di ledere interessi degli altri soci, oppure
risulta in concreto preordinato ad avvantaggiare ingiustificatamente
i soci di maggioranza in danno di quelli di minoranza, in violazione
del canone generale di buona fede nell\’esecuzione del contratto
(cfr., ex multis, Cass. 17 luglio 2007, n. 15950), l\’unica questione
decisiva consisteva – e consiste – nello stabilire se l\’attore, sul
quale grava il relativo onere, abbia fornito o meno la prova
dell\’abuso.
A questa domanda il tribunale ha dato risposta negativa e la corte
territoriale ha poi ritenuto che i rilievi formulati dall\’appellante
non fossero idonei a scalfire la prima decisione.
Poco giova, in questa sede, soffermarsi a discutere in dettaglio
sulle singole argomentazioni che il ricorrente asserisce di aver
prospettato nell\’atto di gravame e delle quali la corte d\’appello non
avrebbe tenuto conto. Cio\’ potrebbe aver rilievo, al fine di
dimostrare l\’esistenza di un vizio di motivazione dell\’impugnata
sentenza, solo a condizione che fosse possibile attribuire ad una o
piu\’ specifiche e ben determinate circostanze, pretermesse dalla
corte di merito, una valenza logica decisiva: tale, cioe\’, da far
ipotizzare che, se di quelle circostanze detta corte si fosse invece
fatta carico, la conclusione del giudizio sarebbe risultata diversa.
Ma l\’esposizione del ricorso non consente di esprimere una siffatta
valutazione. A fronte di una conclusione negativa circa
l\’assolvimento dell\’onere della prova che, come riferisce la
controricorrente, era stata tratta all\’esito di un\’istruttoria
sviluppatasi in primo grado anche attraverso l\’esame di testimoni, il
ricorrente adduce l\’esistenza di elementi indiziar dai quali, a suo
dire, dovrebbe scaturire la conclusione opposta. Per poter avallare
una simile opinione occorrerebbe, pero\’, non solo poter esaminare
direttamente ed in modo completo i documenti cui lo stesso ricorrente
allude, ma anche confrontare quanto da essi emergesse con le
risultanze della suindicata prova testimoniale; occorrerebbe, cioe\’,
procedere ad una vera e propria rivisitazione integrale dell\’intero
materiale istruttorio acquisito in causa. Ma questo significherebbe
reiterare il giudizio di merito e cio\’ esula dalla competenza di
questa corte di legittimita\’.
4. Il ricorso, pertanto, deve essere rigettato ed il ricorrente va
condannato al pagamento delle spese del giudizio di legittimita\’,
liquidate in Euro 15.000,00 per onorari e 200,00 per esborsi, oltre
alle spese generali ed agli accessori di legge.
P.Q.M.
La corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento
delle spese del giudizio di legittimita\’, che liquida in Euro
15.000,00 per onorari e 200,00 per esborsi, oltre alle spese generali
ed agli accessori di legge.
Cosi\’ deciso in Roma, il 16 dicembre 2010.
Depositato in Cancelleria il 20 gennaio 2011