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MAIL OFFENSIVE DATORE DILAVORO: Licenziamento legittimo

        

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Sentenza 7 settembre 2012,
n. 14995

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ROSELLI Federico – Presidente –

Dott. VENUTI Pietro – Consigliere –

Dott. MAMMONE Giovanni – Consigliere –

Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –

Dott. BERRINO Umberto – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente: sentenza

sul ricorso proposto da:

S.M. – ricorrente –

contro

P.C. – controricorrente –

avverso la sentenza n. 457/2010 della CORTE D\’APPELLO di ROMA,
depositata il 26/03/2010 r.g.n. 47/08;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del
09/05/2012 dal Consigliere Dott. UMBERTO BERRINO;

udito l\’Avvocato DI TORRICE ANDREINA;

udito l\’Avvocato PERSIANI MATTEO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SEPE
Ennio Attilio, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

FATTO

Con ricorso depositato presso il Tribunale di Roma, in funzione di giudice
del lavoro, S.M. impugnò il licenziamento intimatogli il 22/7/05 dalla Procter
& Gamble Italia spa deducendone l\’illegittimità per mancanza di giusta
causa o giustificato motivo in ragione degli asseriti motivi ritorsivi o
illeciti che l\’avevano determinato, per cui chiese la reintegra nel posto di
lavoro ed il pagamento delle retribuzioni fino alla reintegra.

Il giudice adito rigettò la domanda e a seguito di impugnazione della
sentenza da parte del lavoratore la Corte capitolina, con sentenza del 19/1 –
26/3/10, ha respinto il gravame, precisando che il licenziamento poteva
ritenersi giustificato in ragione del contenuto diffamatorio delle frasi
trasmesse dal dipendente per posta elettronica all\’indirizzo dei suoi superiori,
missiva, questa, rispetto alla quale non era stata eccepita in nessuno dei due
gradi di giudizio l\’incapacità di intendere e di volere del ricorrente al
momento della sua trasmissione; inoltre, secondo i giudici d\’appello non poteva
trovare ingresso la tesi dell\’esistenza di una provocazione atta a giustificare
la gravità del comportamento, in quanto la lamentata persecuzione, che secondo
il ricorrente sarebbe stata posta in essere nei suoi confronti dalla datrice di
lavoro, era stata esclusa con sentenza passata in giudicato e, d\’altra parte, il
lavoratore non aveva nemmeno impugnato le precedenti sanzioni disciplinari
adottate a suo carico.

Per la cassazione di tale sentenza propone ricorso il S., il quale affida
l\’impugnazione a sei motivi di censura.

Resiste con controricorso la Procter & Gamble Italia S.p.A. che
deposita, altresì, memoria.

DIRITTO

1. Col primo motivo il ricorrente denunzia la violazione e falsa applicazione
dell\’art. 2909 c.c., dell\’art. 324 c.p.c. e dell\’art. 124 disp. att. c.p.c.,
nonchè l\’omessa, contraddittoria ed insufficiente motivazione sul punto della
nullità della sentenza.

Ritiene il S. che la copia della sentenza della Corte d\’appello di Roma –
sezione lavoro n. 1125 del 9/2 – 4/5/2007, allegata dalla controparte alla
memoria di secondo grado al fine di dimostrare il passaggio in giudicato della
decisione che aveva escluso la sussistenza del comportamento vessatorio
datoriale al quale esso ricorrente aveva reagito con la missiva le cui
espressioni offensive avevano comportato il suo licenziamento, era priva
dell\’attestazione prevista dall\’art. 124 disp. att. c.p.c.. Ne conseguiva che la
Corte di merito non avrebbe potuto tener conto della eccezione di giudicato per
affermare la preclusione di cui all\’art. 2909 c.c. e all\’art. 324 c.p.c. su una
circostanza decisiva ai fini della risoluzione della controversia e che avrebbe
errato nel non consentire la rinnovazione dell\’istruttoria per la dimostrazione
dell\’esistenza di una condizione lavorativa di grave disagio ed emarginazione a
suo danno.

Osserva la Corte che il motivo è infondato per la semplice ragione che il
ricorrente non mette in dubbio, neanche nel presente giudizio di legittimità, il
fatto che sulla insussistenza del lamentato “mobbing”, comportamento vessatorio
datoriale avverso il quale egli sostiene di aver reagito con l\’invio della
“e-mail” posta a base del licenziamento, era intervenuto il giudicato
rappresentato dalla sentenza della Corte d\’appello di Roma -sezione lavoro n.
1125 del 9/2 – 4/5/2007. Ne consegue che sul punto non può che registrarsi una
carenza di interesse del ricorrente all\’impugnativa, a prescindere dalla
eccepita inosservanza della norma di cui all\’art. 124 disp. att. c.p.c. sulle
formalità per la certificazione del passaggio in giudicato della sentenza.

2. Col secondo motivo il ricorrente censura la sentenza per violazione e
falsa applicazione dell\’art. 2909 c.c., nonchè per la contraddittoria o
insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia, evidenziando,
altresì, la nullità della sentenza per violazione dell\’art. 132 c.p.c..

Spiega il S. che la Corte di merito ha erroneamente interpretato il suddetto
giudicato in quanto se, per un verso, lo stesso escludeva la sussistenza di un
“mobbing” in suo danno, per altro canto aveva accertato l\’esistenza di una
“difettosa organizzazione aziendale” che connotava la condotta colposa della
parte datoriale, condotta rivelatasi penalizzante nei suoi confronti,
escludendone solo il carattere doloso. Aggiunge, pertanto, il ricorrente che se
i giudici d\’appello avessero ben interpretato tale passaggio motivazionale della
sentenza coperta da giudicato avrebbero potuto cogliere l\’essenza di quei
comportamenti datoriali che avevano determinato lo svuotamento delle sue
mansioni, con conseguente demansionamento, e la sua emarginazione nel contesto
lavorativo in cui operava, la qual cosa aveva provocato la sua reazione,
manifestatasi attraverso l\’invio della missiva per posta elettronica il cui
contenuto era stato indicato come motivo del suo licenziamento.

Il motivo è infondato.

Invero, non è dato rinvenire alcun errore nell\’interpretazione del
summenzionato giudicato operata dalla Corte di merito.

Infatti, la Corte territoriale ha spiegato che nella sentenza coperta da
giudicato si era affermato che non emergeva, dalla complessiva istruttoria, un
intento persecutorio della società e che il demansionamento appariva ascrivibile
ad una condotta che, seppur censurabile, era dovuta più ad una difettosa
organizzazione aziendale che ad un intento persecutorio nei confronti del
lavoratore.

3. Oggetto del terzo motivo di doglianza è la lamentata violazione e falsa
applicazione dell\’art. 2909 c.c., nonchè il vizio di motivazione in relazione
all\’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, per avere la Corte territoriale
ritenuto che le espressioni contenute nella “e-mail” del ricorrente inviata il
30/6/2003, indirizzate ai propri diretti superiori (amministratore delegato,
direttore del personale e superiore gerarchico), avessero contenuto diffamatorio
ed offensivo, integrando con ciò la giusta causa di licenziamento, oltre che
l\’omessa o contraddittoria motivazione sulle certificazioni mediche per la
valutazione sulla capacità del ricorrente.

Assume il S. che ai fini della valutazione della ricorrenza della giusta
causa di licenziamento la Corte d\’appello avrebbe dovuto considerare anche
l\’aspetto soggettivo del suo comportamento con riguardo al fatto che nel caso in
esame anche se la sua capacità di intendere e volere al momento dell\’invio della
missiva incriminata non era totalmente esclusa era pur certo che la stessa
risultava notevolmente scemata, come comprovato dalle certificazioni in
atti.

4. Col quarto motivo il ricorrente deduce la violazione o falsa applicazione
dell\’art. 2119 c.c. in relazione agli artt. 594, 595, 599 c.p., nonchè l\’omessa,
insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della
controversia. Il medesimo evidenzia, inoltre, l\’errata attribuzione della
diffamazione, la falsa o, comunque, errata applicazione della scriminante della
provocazione, nonchè l\’omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione sulla
proporzionalità della sanzione espulsiva.

Il ricorrente sostiene che hanno errato i giudici d\’appello a considerare
diffamatorio il messaggio da lui inviato per posta elettronica direttamente ai
suoi superiori, a nulla potendo valere il fatto che accidentalmente la
segretaria di uno dei destinatari, ai quali egli aveva voluto comunicare in via
esclusiva il suo disappunto, ne avesse conosciuto il contenuto; il medesimo
aggiunge che ai fini della valutazione della proporzionalità della sanzione al
fatto contestato gli stessi giudici non avevano tenuto conto del suo stato di
turbamento giustificato dallo stato di emarginazione in cui era stato posto e
dal grave demansionamento subito.

Il terzo ed il quarto motivo possono essere trattati congiuntamente in quanto
affrontano sostanzialmente la stessa questione della valutazione della
legittimità del licenziamento alla luce dei fatti che lo determinarono
(contenuto diffamatorio delle espressioni adoperate dal dipendente attraverso
l\’invio della “e-mail”), dell\’aspetto soggettivo del comportamento del
lavoratore al momento del fatto incriminato (capacità del medesimo di rendersi
conto della portata offensiva del contenuto della missiva inoltrata per via
posta elettronica ai suoi superiori), della mancata considerazione della
scriminante della provocazione e della proporzionalità del provvedimento
espulsivo rispetto all\’entità dell\’addebito contestato. Ebbene, entrambi i
motivi sono infondati in quanto le questioni affrontate, vale a dire la
valutazione della ricorrenza della giusta causa del licenziamento, del contenuto
diffamatorio delle espressioni adoperate dal dipendente, della sua capacità di
rendersi conto della loro portata offensiva, dei precedenti comportamenti
indicativi della insubordinazione e della proporzionalità della sanzione
adottata sono stati vagliati dal giudice d\’appello con apprezzamento
condivisibile ed esattamente condotto su riscontri probatori.

In particolare, per quel che riguarda, invece, la lamentata non corretta
applicazione della scriminante della provocazione non può che richiamarsi quanto
esposto in occasione della disamina del primo motivo, vale a dire l\’accertata
esistenza, da parte del giudice d\’appello, del giudicato che escludeva l\’intento
persecutorio della parte datoriale che secondo l\’assunto del lavoratore aveva
ingenerato la sua reazione, giudicato la cui sussistenza non è stata nemmeno
posta in dubbio dall\’odierno ricorrente.

5. Col quinto motivo si deducono i seguenti vizi della sentenza impugnata:-
Violazione o falsa applicazione dell\’art. 2119 c.c. per insussistenza del
requisito dell\’immediatezza della comunicazione rispetto al momento della
mancanza addotta a sua giustificazione;

violazione del principio della buona fede di cui all\’art. 7 dello Statuto dei
lavoratori e della proporzionalità della sanzione ex art. 2106 c.c.; omessa o
insufficiente motivazione sul punto decisivo della controversia; violazione e
falsa applicazione dell\’art. 49 e dell\’art. 52, lett. I) sulla contestabilità
della recidiva in relazione all\’art. 99 del c.p. e alla L. n. 300 del 1970, art.
7;

nullità della sentenza per mancanza di adeguata motivazione sul punto. Nel
denunziare le suddette violazioni il ricorrente fa osservare che la
contestazione disciplinare relativa al licenziamento oggetto di causa, irrogato
il 22/7/2005, recava la data dell\’8/7/2005, mentre il provvedimento invocato
dalla datrice di lavoro per l\’applicazione della recidiva era del 26/6/2003, per
cui essendo decorsi oltre due anni tra la contestazione disciplinare del giugno
del 2003 e la contestazione del luglio del 2005 il giudicante non avrebbe dovuto
tener conto, ai sensi dell\’art. 49 del ccnl, della recidiva. Osserva la Corte
che al riguardo è fondata l\’eccezione di inammissibilità del motivo sollevata
dalla controricorrente in ordine alla novità della questione della lamentata
insussistenza del requisito della immediatezza della comunicazione rispetto al
momento della mancanza addotta a sua giustificazione, trattandosi di questione
che non aveva formato oggetto di discussione nei precedenti gradi del
giudizio.

Quanto alle doglianze inerenti la mancanza di proporzionalità della sanzione
ex art. 2106 c.c. e la non contestabilità della recidiva si rileva quanto
segue:- In merito alla prima questione la Corte d\’appello, dopo aver evidenziato
il contenuto offensivo del messaggio e la sua diffusione tra più persone che non
erano solo i diretti destinatari, ha spiegato, con motivazione congrua sottratta
al sindacato di legittimità, che erano condivisibili le argomentazioni del primo
giudice sul carattere proporzionato della sanzione espulsiva, in considerazione
della gravità delle espressioni usate che travalicavano certamente il diritto di
cronaca e che erano teoricamente riconducibili a fattispecie penali, quali
l\’ingiuria e la diffamazione. In maniera altrettanto adeguata la Corte d\’appello
ha chiarito, in ordine alla seconda questione, che il precedente comportamento
disciplinare poteva essere considerato ai fini della valutazione della
personalità del lavoratore indipendentemente dalla recidiva nel biennio e che,
in ogni caso, era sufficiente che quest\’ultima venisse contestata entro il
periodo previsto, a nulla rilevando che la sanzione venisse applicata
successivamente, in quanto ciò che realmente rilevava era che il richiamo del
precedente negativo avvenisse al momento della contestazione dell\’addebito di
cui trattasi.

6. Con l\’ultimo motivo vengono segnalate la violazione o falsa applicazione
della L. n. 300 del 1970, art. 7 in relazione all\’art. 360 c.p.c., comma 1, nn.
3 e 5, e l\’omessa preventiva contestazione dell\’addebito del grave nocumento
morale e materiale dell\’impresa.

Deduce, al riguardo, il ricorrente che l\’omessa preventiva contestazione
dello specifico addebito, contenuto ne provvedimento di licenziamento, di aver
arrecato un grave nocumento morale e materiale all\’impresa, aveva comportato una
menomazione del suo diritto di difesa, per cui l\’adozione del provvedimento
espulsivo era avvenuta in spregio a quanto previsto dalla L. n. 300 del 1970,
art. 7, comma 2.

Anche quest\’ultimo motivo è infondato, atteso che la Corte d\’appello ha
spiegato che il riferimento solo nella lettera di licenziamento al “grave
nocumento morale e materiale all\’impresa” non riguardava un comportamento che
necessitava di previa contestazione in quanto costituiva l\’espressione di una
valutazione di comportamenti fatti già oggetto di contestazione
disciplinare.

Il ricorso va, pertanto, rigettato.

Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza del ricorrente e vanno
poste a suo carico nella misura liquidata come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente alle spese del presente
giudizio nella misura di Euro 3000,00 per onorario, oltre Euro 40,00 per
esborsi, nonchè IVA, CPA e spese generali ai sensi di legge.

Così deciso in Roma, il 9 maggio 2012.

Depositato in Cancelleria il 7 settembre 2012

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