Coronavirus: Il dipendente che si contagia, è una malattia o un infortunio?
In tempo di pandemia ancora in corso, inizia la cosiddetta fase 2, cercando di riaprire filiere produttive ferme da oltre due mesi, in grado di dare respiro all’economia.
Le cautele e attenzioni da porre in essere da parte degli imprenditori, datori di lavoro, sono tante in ossequio ai protocolli di sicurezza del 14 marzo e del 24 aprile 2020 relativi alla sanificazione dei locali, termo-scanner all’ingresso nei luoghi di lavoro, tamponi, distanziamento sociale, mascherine, guanti e quant’altro.
Tutto nasce dal fatto che ammalarsi di coronavirus, secondo la recente novella legislativa introdotta dall’articolo 42 del D.L 18/2020 “Cura Italia”, equivale ad un “infortunio sul lavoro”, con la conseguenza che il datore di lavoro potrebbe rispondere penalmente davanti all’autorità giudiziaria. Questo è quanto è contenuto nell’apposita Circolare Inail n.13 del 3 aprile 2020.
Questa interpretazione potrebbe creare qualche problema alla ripartenza delle filiere produttive per paura delle conseguenze in caso di contagio, pur in presenza di tutte le cautele e attenzioni previste dai protocolli di sicurezza.
Qualche perplessità per il ricorso alla responsabilità penale appare legittima, laddove i protocolli siano stati rispettati e ciò malgrado, in presenza di contagio del dipendente, anche solo presuntivamente contratto durante le ore lavorative, l’azienda datrice potrebbe essere citata in giudizio per lesioni gravi o gravissime e, nel peggiore dei casi, per omicidio colposo.
Secondo i Consulenti del lavoro bisognerebbe prevedere una sorta di “scudo penale” per i datori diligenti, lasciando i rischi a coloro che non adottano o adottano negligentemente le misure anti-coronavirus.
Contagio coronavirus del dipendente
Una volta registrato l’evento di danno o di pericolo in capo al dipendente, anche quando il datore di lavoro ha posto in essere tutte le cautele necessarie di cui a protocollo, inizia l’inchiesta da parte della magistratura e parte l’indagine.
L’imprenditore, con queste premesse, è un potenziale “imputato” di lesioni gravi o gravissime se non di omicidio colposo che, con i tempi biblici della nostra giustizia rischia di attendere anni per vedersi riconosciuta la propria innocenza.
Insomma, in casi del genere, potrebbe valere la famosa metafora: Se tutto va bene, siamo rovinati!
Qualcuno ha detto: Finora se il dipendente si ammalava di morbillo, veniva posto in malattia e restava a casa senza alcuna conseguenza per l’azienda.
Bisogna trovare altri strumenti per controllare il corretto operato dell’azienda senza trasformare una malattia in infortunio.
Forse l’idea dello “Scudo penale”, quale una sorta di esimente preventiva, una volta accertata l’adozione delle misure di sicurezza secondo i citati protocolli, potrebbe essere una soluzione di buon senso, anche per restituire un minimo di serenità alla nostra economia.
Lo strumento, si potrebbe rivelare utile, anche in presenza di eventuali investimenti esteri nel nostro Paese.
Infine, per concludere mi chiedo: in un momento di gravi difficoltà per il sistema Paese, quando vediamo imprenditori che si tolgono la vita perché temono di non farcela o solo perché non riescono a corrispondere lo stipendio ai propri dipendenti, queste guerre di religione, hanno ancora un senso?
Imprenditori che, è bene ricordarlo, sono gli stessi che hanno anticipato la “Cassa integrazione in deroga (Cig)” ai propri dipendenti, nelle more che l’Inps provveda.